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Axos: l’intervista

15-03-2018 Riccardo Primavera

Axos: l’intervista

Una delle giovani penne più interessanti della scena rap nostrana, nonchè artista versatile e coraggioso dal punto di vista della sperimentazione sonora, Axos farebbe indubbiamente parte di qualunque classifica legata ai nomi da tenere d’occhio nel rap italiano per il prossimo futuro. L’ingresso in Machete e l’uscita di un ep del livello di Anima Mea hanno cementato la sua posizione di liricista raffinato dallo stile peculiarissimo, mentre le aspettative legate al suo nuovo album in prossima uscita crescono esponenzialmente. Il suo percorso artistico è però legato a doppio filo ad una personalità forte e dai valori ben radicati, aspetto che ha fatto più volte capolino nelle decisioni prese dal rapper, soprattutto dal punto di vista della comunicazione. A due anni dalla prima volta che l’ho intervistato, sono tornato a parlare con lui di musica, social network, arte e società: il risultato è questa lunga intervista, senza filtri, che restituisce un quadro perfettamente aderente all’arte e alla persona insite in Axos.

Riccardo: Ci ritroviamo a due anni di distanza, allora stava per uscire Mitridate, ora è disponibile il tuo primo ep in Machete e sei al lavoro su un nuovo album. Axos ne ha fatta di strada; in tutto ciò, Andrea come ha vissuto/sta vivendo questi cambiamenti?

Axos: Con le redini ben strette, perché tutti questi input possono portarti verso una visione della musica, della vita, molto diversa da quella che ho sempre avuto. Sono ovviamente portato a cercare di mantenere il mio essere, quello che sono sempre stato, il più possibile saldo, il più possibile “puro”. Questo perché comunque hai tante tentazioni, hai la sensazione di poter dire da un giorno all’altro “fanculo, tanto ormai sono nella giostra, faccio le canzonette su stronzate e soldi per monetizzare” e lasciarti trasportare da quella roba lì, senza darti il valore che penso ogni artista abbia. Secondo me tutti gli artisti sono forti, ma alcuni in qualche modo si abbandonano. Io non voglio cambiare testa per i soldi.

R.: Fondamentalmente, restare lo stesso Andrea nonostante per Axos sia cambiato tanto.

A.: Sì, proprio così, anche perché sennò sto male. Già di per sé questa roba non me la vivo benissimo, perché comunque è solo una parte del mio percorso di vita, che in tanti momenti è stato di tutt’altro tipo. Faccio fatica a vivermela bene appunto perché è un mondo votato più all’apparenza, al mettersi delle maschere, al fare di tutta l’erba un fascio, all’andare avanti come se non ci fosse un cazzo a cui pensare. Quando invece c’è un sacco a cui pensare: non riesco a fare musica solo per gonfiarmi le tasche, non è una roba che mi piace. Vado in depressione e non faccio più niente (ride, ndr).

R.: Anima Mea, Anima Mundi: il titolo del tuo ultimo ep e quello del tuo prossimo album sembrano indissolubilmente collegati. La differenza terminologica sembra però celarne una ben più grande a livello di contenuti; sembra quasi tu voglia suggerire che nel prossimo disco la lente d’ingrandimento con la quale osservi e racconti il mondo si amplierà in maniera esponenziale. È davvero così o è solo una mia congettura?

A.: Sicuramente si amplierà dal punto di vista musicale, del suono. Dal punto di vista concettuale prenderà tantissime sfumature. Ho intenzione di prendere tutto ciò che non mi sta bene, sfaldarlo e renderlo qualcosa di positivo. Non voglio fare un miliardo di critiche a qualunque cosa e basta; mi piacerebbe, piuttosto, mettere determinate situazioni sotto gli occhi di tutti. Il tutto per dare una chiave costruttiva a chi ascolta; a me danno fastidio delle cose che esistono, non di fantasia, quindi anche raccontarle è importante. A parte quello che può essere il “fattore critico”, nel mio disco ci sarà tanto, ma davvero tanto di me, una grossa parte. Voglio essere davvero chiaro su quello che è stato, è e sarà il mio viaggio. Ho le idee chiare.

R.: Nelle prossime domande vorrei analizzare con te un paio di versi di Anima Mea, il tuo ultimo lavoro. “Ne ho amata una, l’ho amata tutta d’un botto mi ha scritto brutte canzoni”: in Keith Moon parli della capacità nei momenti più tristi di dar vita alle migliori opere d’arte, cosa che non riesce nelle condizioni opposte. Ora che la tua carriera musicale inizia ad essere una realtà e non più solo un sogno, non hai un po’ paura di finire vittima del realizzarti?

A.: Realizzarmi dal punto di vista artistico non mi fa paura, anzi, ne ho bisogno; perché se mi realizzo faccio meglio. Quello che dico anche in I Saw God on The Road Trip (brano presente in Mitridate, ndr) è che “l’arte vuole la totalità dell’uomo”. Se mi realizzo artisticamente, se quello che faccio mi piace, se dal mio punto di vista ho il giusto riscontro, se ascoltando la mia musica sono soddisfatto, sono realizzato in qualsiasi altra cosa. Basta un pizzico di insoddisfazione artistica per creare un buco nero in qualsiasi ambito della mia vita, dall’amore alla famiglia, agli amici. Per il resto ti dico che ho pubblicato tardi la mia roba, per tanto tempo ho scritto solo per me. Questo ti fa capire che rapporto ho con la scrittura. Intimo. Il male mi ha aiutato a scrivere. Adesso mi sono reso conto però che al male ci si abitua; quando potrei stare bene non ne sono capace ed entrano in gioco delle dinamiche, anche depressive, che in un certo senso fanno anche parte dell’ambiente in cui vivo. Un ambiente che continua a vestirsi di troppe cose, che veste anche me ma in realtà mi spoglia dentro. Arrivo quindi sempre al punto di non essere soddisfatto, perché l’ambiente in cui sto non mi soddisfa, perché il modo in cui viene percepita la musica non mi soddisfa. Non mi rende soddisfatto tutto quello che i ragazzini di adesso vedono della musica, come lo vedono; che cosa pensano degli artisti, come vedono gli artisti, il ruolo che hanno gli artisti nella loro vita. A me tutta questa roba mi sta ammazzando, infatti di base non riesco a stare bene neanche facendo musica, perché continuo a vedere che arriva a tanti ma non come dovrebbe. Per questo preferisco che il pubblico sia un po’ più di nicchia ma sensato. Io ho sempre voluto fare musica per aprire la testa delle persone e poi vedo gente che la testa la chiude proprio davanti alla mia musica. Questa roba per me è un po’ come spararmi sui piedi (ride, ndr). Quella sensazione di malessere insomma rimane, ecco perché ci sarà un “fattore critico” imponente nel disco, ma in maniera costruttiva. Perché tutta questa roba la devono capire: io non voglio mandarli a quel paese, voglio che aprano il cervello, che si rendano conto che tutta la libertà che hanno di esprimersi, è dovere loro equilibrarla. Per non sputtanarsi e soprattutto per rendere la loro parola preziosa, non un sasso da lanciare nel mare dei social. Se no la libertà svanisce.

Foto by Riccardo Trudi Diotallevi Photography @ www.facebook.com/trudiphotography

R.: “Spiegare la potenza dell’anima ad un uomo debole è come spiegare a tutti un colore che non esiste”: in un pezzo dai toni leggeri come Meglio di te hai inserito questo verso, tutt’altro che leggero. Il tuo concetto di anima sembra uno spettro sfuggente che aleggia su tutto l’ep, rivelandosi però davvero difficile da cogliere. Si tratta di un’introduzione a quello che sarà il filo conduttore concettuale di Anima Mundi?

A.: Mmm (si prende qualche secondo per pensarci, ndr) sì, in realtà il discorso dell’anima per me è sempre stato al centro di tutto. Per un periodo sono stato un accanito junghiano, quindi ho una visione dell’anima che è piuttosto radicata nel mio inventario di cose reali. Credo nell’anima, credo nella forma dell’anima e automaticamente so che lavorare sulla propria anima significa anche essere una persona forte. L’argomento dell’anima in sé è proprio quello che regge tutto: Esiste un’anima mundi, un’energia che accomuna tutti noi, che è appunto un’anima che ci unisce e ci rende empatici l’uno nei confronti dell’altro. Quindi sì, sicuramente quella rima apre le porte a quello che sarà il disco: voglio che emerga che tutto quest’odio, non fa altro che alimentare il circolo vizioso da cui nessuno scappa: se giudichi, sei e sarai giudicato, è un domino. Quello che ho già scritto e scriverò è tutto estremamente collegato (Axos si riferisce a Domino, un suo pezzo uscito nel dicembre 2016, ndr). Voglio arrivare a far capire che non è che se un bambino sta morendo di fame dall’altra parte del mondo, allora tu non ci stai male. Certo, puoi essere lontano dalla connessione con la tua anima e non capire perché stai male, non ne percepisci il motivo; però siamo tutti connessi, questo ci tengo a farlo capire. Dovrebbero smetterla tutti di aizzare tutto quest’odio, il pubblico nei confronti degli artisti, gli artisti nei confronti del pubblico; il pubblico tornare ad essere pubblico, gli artisti artisti, ricominciare ad avere dei ruoli giusti all’interno di tutto.

R.: Anima Mea segna inoltre il primo episodio in cui ti cimenti in maniera costante in esperimenti non tanto lessicali quanto prettamente canori. Le diverse sfumature di ogni beat sembrano infatti averti spronato a sperimentare con la voce, cercando melodie e armonizzazioni, fino a sfociare quasi nel cantato. Quanto hai lavorato su questo aspetto?

A.: Ci ho lavorato parecchio, mi sono fatto anche le mie belle lezioni di canto (sorride, ndr), prima ero un po’ più portato a rappare e basta. Mi piace, mi è sempre piaciuto, ho sempre ascoltato tanta musica, la maggior parte delle cose che ho sentito nella mia vita – se devo fare un confronto – non provengono dal rap. Più passa il tempo e più mi tornano in testa i suoni che ascoltavo da piccolo , che ho ascoltato da adolescente e che mi hanno accompagnato fin qui, e sono tutti suoni che derivano dal rock, dalla vaporwave… Tutti suoni folli (ride, ndr). È roba che sto ricominciando ad ascoltare tantissimo, perché alla fine tutto torna. Il discorso legato al canto per me è stato sicuramente uno sforzo, perché ho dovuto imparare a farlo in maniera che non fosse una merda – sai, uno può anche dire “io mi metto a cantare perché mi piace” ma magari non lo sa fare (ride, ndr). Io no, io mi sono messo sotto, mi sono allenato per riuscire ad ottenere un risultato che mi piacesse. Tutto deriva proprio da quei vecchi suoni che mi sono tornati prepotentemente in testa, tutta roba cantata, dagli Imogene Heap ai System of a down, dai Led Zeppelin agli Who.

R.: Che poi, da osservatore esterno, è impossibile non notare come questo sforzo, questa tendenza a spostarsi per lo meno un minimo sul cantato, non abbia accomunato negli anni alcune delle penne più fini del rap italiano. Da Willie Peyote a Claver Gold, passando per Ghemon, direi che se in buona compagnia – un approccio stilistico che rafforza incredibilmente il potere evocativo di un testo.

A.: Eh sì, di brutto, se fatto bene, l’effetto finale e l’impatto sono di gran lunga maggiori. Sono d’accordissimo.

R.: A livello lirico l’ingresso in Machete non sembra averti particolarmente influenzato: la ricercatezza del tuo lessico, le sottili citazioni e la cura riposta nelle immagini che evochi sono rimasti intatti. Ti vedo però più spavaldo dal punto di vista stilistico, dalla scelta delle produzioni al flow, passando per il discorso di prima sull’uso della voce. Quanto di tutto ciò è dovuto all’ingresso in una realtà creativa e stimolante come Machete?

A.: Queste intenzioni c’erano già prima di entrare in Machete, in pezzi come Chato Santana facevano capolino suoni un po’ sul country, sul blues, robe che a me piacciono tantissimo; poi sono un grandissimo fan di Johnny Cash, mi piacerebbe tantissimo ricreare quelle sue ambientazioni. Quando sono entrato in Machete ho avuto un attimo di stallo, mi sono guardato intorno per capire quale fosse la situazione e adattarmi a determinate dinamiche, dal punto di vista del suono ad altre cose, che io pensavo sarebbe stato giusto fare meglio. Sicuramente l’ingresso in Machete mi ha permesso di prendere tutti questi elementi e di migliorarli, anche e soprattutto entrando in contatto con artisti di un certo calibro. Penso ad esempio a Slait e alle sue dritte, all’apparenza delle sottigliezze, dettagli, come far suonare in un determinato spezzone la batteria o cose simili… Consigli importantissimi, perché poi guardando il tutto nel suo insieme rappresentano il valore aggiunto. In sostanza questo mio sviluppo stava già avvenendo ma ha potuto prendere una forma più fine – e si raffinerà ulteriormente – grazie a Machete, anche se, in tutta sincerità, si tratta di un lavoro nato grazie agli sforzi del team Sad Army (che vede coinvolti Axos, Pitto, il fonico Francesco e alcuni musicisti quali Valerio Papa e Giorgio Nardi, ndr).

R.: Leggevo qualche giorno fa che Bryan Craston, l’attore che ha interpretato Walter White in Breaking Bad, dopo 18 anni ha dovuto smettere di accogliere le richieste di autografi dei fan pervenute via posta, perché diventate troppe e ingestibili. Ho pensato quasi subito a te: da quando ti conosco, ti sei sempre contraddistinto per il rapporto molto umano che hai con i fan, molto disponibile in ogni occasione, anche dal punto di vista del tempo che dedichi loro. Adesso che il tuo pubblico è cresciuto, immagino stia diventando sempre più difficile star dietro a tutti tra messaggi, commenti e altre interazioni. Come hai vissuto la necessità di dover giocoforza ridurre il contatto diretto con chi ti ascolta?

A.: Non ho ridotto in particolare il contatto diretto con chi mi ascolta ma in generale qualunque tipo di contatto legato ai social network. Se ci becchiamo ai live, sono il primo che si ferma a chiacchierare; se mi becchi per strada e sei una persona rispettosa mi fermo a parlare, se non lo sei, no. Poi capisco che i social per alcuni possano essere importanti, per esempio su Instagram ho parlato con dei ragazzi sentendomi dire cose molto importanti, di problemi personali che io, nel mio piccolo, ho aiutato a risolvere, ma non è però il mio ruolo… il ruolo dell’artista è diverso. Con i social non c’è più una barriera, non c’è più distacco, non ha senso perché tu vieni a parlare con me quando io nelle mie canzoni ti sto già dicendo tutto quello che posso dirti. Sì, magari parlando direttamente con me posso essere più diretto, ma fanculo, non è quello che devo fare. Se avessi voluto essere più diretto e aiutare le persone in quella maniera avrei fatto lo psicologo. Invece faccio musica, la faccio in modo da stimolare riflessioni che aprono la testa a nuovi pensieri; non voglio arrivare e dirti ciò che devi fare, anche perché non mi sento neanche nella posizione di farlo. Ho voluto quindi ricreare il rapporto tra il fan e l’artista “vecchio stampo”, nell’era pre-social. Il tipo di rapporto che aveva gente come Jim Morrison, oppure Johnny Cash: se li beccavi di persona erano i primi ad offrirti un acido per farti i viaggi con loro. Nel momento in cui le cose diventano però facili e fittizie – come possono essere per l’appunto le relazioni via social – perdono di senso, anche perché non hai la più pallida idea di chi tu abbia davanti. Non sai chi sono io, non puoi saperlo, non puoi sapere chi ti sta parlando realmente. Ascolta la musica che ti arriva, quella è la parte più interiore di me e io te la sto dando, andare a cercare altro mi sembra abbastanza un capriccio.

R.: L’ultima domanda infatti è proprio sull’argomento social. Recentemente hai dichiarato – come ribadito nell’ultima risposta – di voler usare i tuoi canali solo per promuovere la tua musica, non la tua vita privata; per usarli insomma esclusivamente dal punto di vista lavorativo. Una scelta coraggiosa, soprattutto in un periodo storico nel quale l’immagine sembra contare quanto la – se non più della – musica. Una scelta completamente opposta all’approccio di un altro artista Machete, del quale molti ti vedono spesso come una sorta di erede designato, ossia Salmo. Senza voler fare paragoni però, non ti spaventa l’idea di poter sacrificare una parte della portata delle vetrine social con un approccio simile? Per quanto paradossale possa essere, visto che li stai usando solo per promuovere la musica, motivo per il quale la gente dovrebbe seguirti.

A.: Mettiamola così: l’eroina esiste, un sacco di gente si fa di eroina, se la vendessi farei un sacco di soldi. So anche però che non è una cosa sana, quindi non la vendo. Il social è la stessa cosa, potrei benissimo utilizzarlo in quel modo, potrei mettere il mio cazzo sui social e prendere 300.000 follower in un giorno, ma non lo faccio, sono troppo consapevole del fatto che sia una roba malsana. Ma la gente è impazzita, io fino a qualche anno fa tenevo le robe per me, se facevo qualcosa durante il giorno non volevo lo sapesse tutto il mondo, soprattutto gente che non conosco. Cioè, se sto mangiando i cereali col latte, cosa cazzo te ne può fregare? Ed è anche una roba malata il fatto di volerlo mostrare a tutti! Che problemi sta creando questa cosa nel cervello delle persone? Perché sono così tanto legate a tutto ciò? Hanno semplicemente portato il Grande Fratello sui cellulari. Ho sempre ritenuto i concorrenti del Grande Fratello dei grandissimi mentecatti, nel momento in cui il Grande Fratello ce l’hai in mano e lo utilizzi così, allora lo sei anche tu (ride, ndr).

R.: La tua insomma è una scelta etica, perché non vuoi alimentare questo sistema malato.

A.: Sì, ma perché è una roba davvero folle. Tu qualche anno fa ti saresti mai sognato di avere in camera tua gli occhi di persone che vivono nel mondo e delle quali non sai nulla? Hanno superato il concetto di privacy in maniera subdola, mascherandola da vetrina, quando in realtà è un superamento che apre la porta ad altri tipi di violazioni della privacy, nella maniera più facile del mondo. Nella testa della gente non esiste più la differenza tra pubblico e privato, si è creata una follia generale che non ha senso di esistere. Io, nel mio piccolo, cerco di portare la cosa agli occhi di tutti. Arriveremo sul serio ad avere un microchip sottocutaneo mascherato da macchina per i follower (Axos sorride, mentre Luca, il suo addetto stampa, aggiunge “praticamente Black Mirror”, ndr). Esatto, come Black Mirror, siamo estremamente vicini. Una volta c’erano i paparazzi odiati dagli artisti, adesso gli artisti sono diventati i paparazzi di loro stessi. Una roba assurda, completamente folle, mi ha mandato fuori di testa. Ho avuto un periodo in cui questa roba qua aveva preso anche me, ma per fortuna – sarà anche grazie al lavoro che faccio su me stesso da sempre – ad una certa ho acquisito coscienza del tutto e ho detto basta, chiudere tutto. La gente deve rendersi conto che il telefono va messo in tasca e usato per telefonare, per lavorare e per divertirsi un po’, ma non per far vedere la propria vita agli altri. Non frega un cazzo a nessuno, e a chi frega, beh, quella gente ha dei problemi. Se a te interessa della mia vita privata, hai dei problemi; ok, sono un artista, quindi posso anche capire che ci sia un po’ di curiosità nel vedere come affronto la mia vita. La cosa però si è estesa a chiunque: non stai bene se vuoi vedere 24h la vita del tuo vicino di casa.

R.: Ti dirò, io inizialmente intravedevo delle potenzialità, perché non ne potevo più dell’idealizzazione estrema, della sacralizzazione degli artisti, che per tanti ascoltatori finivano quasi per trascendere l’umano. Speravo che potesse essere un modo di far capire alla gente, a piccole dosi, che si tratta di esseri umani come tutti. La cosa si è invece evoluta in una maniera completamente deviata, se non ci si mette davanti a quello schermo sembra quasi di non esistere. Anche a livello musicale, senza spoiler sui lavori a nuova musica, sembra quasi che un artista non stia facendo nulla.

A.: Esatto! Poi la cosa ha trasformato anche il giornalismo sul rap in una sorta di caccia allo scoop via social; difficile anche chiamarli scoop però, visto che si tratta di materiale che è l’artista stesso a diffondere, quindi sai che sforzo… La musica sembra non essere più l’oggetto centrale, sia per chi la fa, sia per chi ne scrive, sia per chi l’ascolta. Poi stiamo parlando di una roba che trascende la musica, è proprio la società in generale ad essere stravolta. Spero arriveremo presto a un punto di saturazione tale da interrompere il circolo vizioso. Spero prendano coscienza tutti.