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Soulcè: l’intervista

23-02-2014 Luca Scremin

Soulcè: l’intervista


Soulcè & Teddy Nuvolari sono un duo formato da un rapper e un produttore. Detta così sembra una cosa a dir poco già vista. E invece no, perchè questi due ragusani rappresentano una delle note più liete dell’hip hop italiano degli ultimi anni, grazie a una formula che mischia cinema, teatro, cantautorato e influenze dai generi musicali più svariati. Quello che ne viene fuori, incredibilmente, è ancora un prodotto rap, solamente svuotato di tanti dei clichè a cui siamo stati spesso abituati. Per Soulville hanno fatto uscire l’ottimo Sinfobie nel 2012, e il 23 dicembre 2013 hanno rilasciato in free download un EP chiamato Pentadrammi. Abbiamo avuto l’occasione di parlarne con Soulcè.

Foto di Alessandro Morana, tutti i diritti riservati

Luca Scremin: La prima volta che ho ascoltato Sinfobie, ho pensato che fosse un disco in grado di dimostrare che era possibile un altro approccio, che arrivava al rap partendo da altri territori. Pentadrammi mi ha portato al pensiero opposto: il nucleo da cui partite è profondamente hip hop, e il vostro modo di spaziare verso tantissime fonti di ispirazione (non solo musicali, ovviamente mi riferisco anche alle tue esperienze attoriali) è un tentativo riuscito di espandere i confini del rap. Al di là del “Chi viene prima tra la gallina e l’uovo”, tu come la vedi? Ti piace il pensiero di prendere il rap e portarlo da altre parti?

Soulcè: Mi piace da morire. Io sono cresciuto con l’hip hop, cultura che mi ha completamente stregato e fatto suo più di quindici anni fa (sic!), ma ho sempre ascoltato anche tanta altra musica e mi sono occupato in parallelo di altre forme di comunicazione, come il teatro per esempio, o la scrittura fuori dagli schemi della forma-canzone. Se ci sono nelle parole che scrivo e che canto, delle cose che fanno parte della mia sensibilità attoriale, è perché nella mia musica porto me stesso al 100 %. E tutto viene molto naturale, senza nessuna forzatura. Poi, con Teddy, ci mettiamo in gioco di continuo, portando le nostre cose in ambienti che non sono prettamente hip hop, anzi: ci piace molto confrontarci con band provenienti da ogni tipo di background (togliendoci anche belle soddisfazioni, tipo la vittoria delle selezioni regionali dell’Arezzo Wave del 2012, festival storicamente connotato da un forte taglio rock!), ci piace suonare nei teatri ma anche nelle piazze, e ogni volta che tocchiamo con mano il fatto che la nostra musica può essere capita e apprezzata anche da orecchie non abituate al nostro genere, siamo sempre molto soddisfatti.

LS: Dopo Cromosuoni e Sinfobie, Pentadrammi chiude una sorta di “Trittico del Neologismo Musicale”. Come nascono queste parole? Vi vengono durante la lavorazione dei pezzi, o è qualcosa che stabilite prima (come se vi steste dando un argomento, per capirci)?

S: Sfatiamo un mito. I tre neologismi in questione sono tutti e tre frutto della fantasia di Teddy, e non mia come sembrerebbe ovvio pensare. La cosa è iniziata con Cromosuoni, per scherzo, dopo aver scritto e suonato la versione demo di Colori, cronologicamente il primo brano dell’EP. Non sapevamo che ci sarebbero state altre due puntate della serie. Poi, quando è uscita fuori la parola Sinfobie, ho costruito un concept attorno alla cosa, e abbiamo deciso di stabilire un terzo appuntamento, Pentadrammi, un EP di cinque tracce che avesse un mood “drammatico”, introspettivo e teatrale contemporaneamente.

LS: I pezzi di Pentadrammi sono tra i più cupi che abbiate mai prodotto. Esiste un motivo personale che ha condotto a un simile cambio di tono? O è più un passaggio della naturale voglia di evolversi?

S: I brani di Pentadrammi sono stati tutti scritti dopo un relativamente lungo periodo di pausa, più mio che di Teddy, che invece è sempre molto produttivo. Durante la post produzione prima e la promozione poi di Sinfobie, e i live in giro per i festival e per l’Italia, ho scritto veramente poco. Una notte, in un’ora, è uscita fuori dalla mia penna Fame d’aria, una canzone-sfogo che è contenuta in un mixtape tutto siculo che si chiama Grow Tape. Una canzone liberatoria, tre strofe senza ritornello in cui ho sputato quello che mi ero tenuto dentro in quei mesi di silenzio. L’ultima barra recitava così: “mando giù le sinfobie e vomito sui pentadrammi”. In quel verso un disco ha passato il testimone all’altro.

LS: Nel vostro lavoro la presenza di Teddy Nuvolari finisce probabilmente per essere sempre sottovalutata, ma possiamo dire che musicalmente voi due siate un’entità unica? Qual è il vostro rapporto al di fuori del sodalizio musicale?

S: La figura del beatmaker è inevitabilmente più silenziosa di quella del rapper, che è invece il leone che si espone e che vuole sbranarsi tutti. Io senza Teddy non sarei il rapper che sono, e probabilmente questa cosa funziona anche al contrario. Prima ancora che soci in affari, siamo amici da vent’anni, siamo cresciuti insieme e continuiamo a farlo: ci vediamo praticamente tutti i giorni, e partoriamo le nostre canzoni stando insieme, lui suona e io scrivo. È raro che io mi porti a casa mia o nell’iPod dei beat di Teddy: siamo molto innamorati dell’idea di creare tutto insieme, partendo da un’idea o da una semplice intuizione di uno dei due, come fanno le band tradizionali.

LS: Quando dici “Salva quest’uomo, portami le cuffie e fammi impazzire da solo”, mi fai pensare a quei dischi che sono perfetti per essere ascoltati da soli in cameretta, con le cuffie e nient’altro (ognuno ha i suoi, per esempio uno dei miei è Like Water for Chocolate di Common). Ecco, secondo me i vostri dischi hanno un pregio simile: sono intimi. Secondo te c’è ancora spazio, in un’epoca di condivisione dove un disco dura una settimana, per avere un rapporto di intimità per un disco? Riesci ancora a dedicare tanto tempo ad un solo album, fino a saperlo a memoria?

S: Io ci riesco, sempre. Con il rischio di rimanere indietro sulle novità, e recuperare magari album bomba mesi dopo la data di uscita. I dischi che mi piacciono io li ascolto tantissimo, li studio proprio. Sono cresciuto con i CD: quando compravo un CD, dovevo conoscerne ogni sfumatura, prima di passare ad ascoltarne un altro. E mi piace che tu pensi che la nostra musica abbia bisogno di un approccio del genere: è l’approccio che avrei io con la musica di Soulcè & Teddy Nuvolari se solo non fossi Soulcè, damn! (ride)

LS: “C’è chi non sa come fa, una galera in cinque righe e quattro spazi a darti libertà”. Riesci a vedere un futuro in cui la musica diventi il tuo lavoro? Al di là della difficile attuazione dell’idea in Italia, pensi che saresti in grado di goderti la musica allo stesso modo, di trovarci la stessa libertà?

S: Sarebbe bello se la musica ci desse delle soddisfazioni tali da trasformarsi in un lavoro vero e redditizio, questo è innegabile. E ci stiamo sforzando per mantenere il livello delle nostre autoproduzioni alto e competitivo. Perché abbiamo voglia di imporci e di farci sentire da tutti. Ma ti dico senza pensarci su due volte che qualora dovessi perdere la libertà nel fare la musica, perderei anche la voglia di farla. La domanda è: quando la musica diventa un mestiere, c’è qualcuno che limita la libertà dell’artista? Questa è una delle migliaia di cose che non so, ma siccome mi stai prendendo in un momento positivo, ti dico: ehi, col cazzo che mi faccio dire cosa devo fare e come devo farlo! (ride)

LS: Recentemente hai partecipato al cortometraggio “Le fils de l’homme”, diretto da Francesco Maria Attardi, che sarebbe anche il regista di tutti i tuoi videoclip. Come vedi il proseguo della tua carriera da “cantattore”, come ti sei più volte definito?

S: Più passa il tempo, più riuscire a conciliare le due cose diventa difficile: il teatro mi impegna molto e occupa gran parte delle mie giornate, il resto è completamente inghiottito dalla musica e dalla scrittura, e di continuo la vita mi pone di fronte delle situazioni in cui devo decidere tra l’una e l’altra cosa. Riesco più o meno a organizzarmi sempre, sognando sempre lo spettacolo finale, in cui queste due cose diventino, finalmente, una sola.

LS: “Noi costanti solo a guardarci le serie”. In pratica hai obbligato tutti a chiederti che serie guardi. Hai finito Breaking Bad? La seconda stagione di House of Cards l’hai cominciata? E soprattutto: le tue serie preferite?

S: Con le serie TV ho un rapporto fottutamente conflittuale. Mi piacciono da morire ma mi mettono moltissima ansia, perché se mi appassiono a una serie rischio realmente di annullarmi e di dimenticarmi che esiste anche altro. Il verso che hai citato (oh, hai citato tre dei miei versi che preferisco: vuol dire che li ho detti bene!), infatti, è abbastanza chiaro, e non a caso si trova in una canzone che si chiama “La marcia della noia”. Le mie serie preferite? Dato che si parla sempre di serie straniere, andrò in controtendenza e ti dirò che una delle mie preferite di sempre è “Romanzo Criminale”, di Stefano Sollima, con il mio compagno di Accademia Francesco Montanari che fa il Libanese (Daje, Cì!).

LS: In questi giorni hai condiviso la foto di un tuo vinile di Blu, in cui ti dicevi molto felice di riuscire a vederlo dal vivo (il 20 aprile, a Lecce con il fido Exile). Se dovessi chiederti i concerti più belli a cui hai mai assistito, tra italiani e stranieri?

S: Il vinile di Blu è di Teddy (ma glielo ruberò!), e prende benissimo andarlo a sentire dal vivo dopo aver consumato i suoi dischi. Concerti fighi ne ho visti molti, ma il primo che mi viene in mente è quello degli Hocus Pocus, che ho visto a Londra qualche inverno fa. Una band che adoro e che mi ha ispirato moltissimo. Tra gli italiani, il concerto di Vinicio Capossela al Teatro Sistina di Roma è stato uno degli spettacoli più intensi e magici che ho visto in vita mia.

LS: A dicembre è uscito “Pentadrammi”. Poche settimane fa avete rilasciato su Youtube un brano intitolato Febbraio. Sapete già cosa viene dopo?

S: Sappiamo qualcosa. Stiamo lavorando al nostro secondo disco ufficiale, “SCTF”: abbiamo già sei o sette canzoni pronte, e ne stiamo scrivendo altre. Vediamo che cosa tireremo fuori dal cilindro, stavolta.