Alla fine è successo ciò che tutti avevano ampiamente previsto fin dalla sua prima apparizione sul palco dell’Ariston: Rocco Hunt ha vinto il festival di Sanremo, sezione nuove proposte. E non perché, come dicono in tanti, “questo è l’anno del rap”, ma perché il suo incredibile talento ha letteralmente eclissato quello dei suoi avversari. La canzone Nu juorno buono è una sintesi perfetta tra melodia tradizionale e hip hop, senza per questo risultare stucchevole: Rocco è riuscito a seguire l’esempio del suo amato Nas – che non smette mai di citare in tutte le interviste e le conferenze stampa, mentre i giornalisti pop lo guardano interdetti – che di brani più melodici e leggeri ne ha sfornati parecchi, vedi alla voce I can, Street dreams o If I ruled the world. Ma una canzone da sola non basta, bisogna anche trovare il modo di convincere il difficilissimo e annoiatissimo pubblico del festival. E Rocco c’è riuscito, dominando quel palcoscenico come nessun altro, senza snaturarsi e senza farsi scimmiottare, travolgendo tutti con la sua incredibile energia. È riuscito perfino nella quasi impossibile impresa di conquistare il cuore della sala stampa, che fino all’ultimo lo ha punzecchiato nella speranza di tirare fuori lo stereotipo del rapper cattivo e maleducato. Non ci sono riusciti.
Tutti parlano del festival di Sanremo, ma pochi sanno cosa vuol dire nella sostanza parteciparvi. Per due settimane si va a letto ogni notte alle tre, ci si addormenta alle sei con l’adrenalina che pompa ancora in circolo, e ci si risveglia di buon mattino per una giornata di prove e soprattutto interviste, decine di interviste al giorno, con giornalisti che nella migliore delle ipotesi sono ignoranti (nel senso che ignorano la materia) e nella peggiore sputano sentenze al vetriolo. Negli spostamenti tra il punto A e il punto B c’è l’assalto di fan e freak pronti a tutto per recuperare un autografo, una foto, cinque minuti di attenzione. Un contesto del genere tira fuori il peggio da chiunque, figuriamoci da un ragazzo di diciannove anni alle sue prime esperienze fuori dalla scena rap: e invece da Rocco Hunt ha tirato fuori il meglio. In questa prima trasferta sanremese (sia per noi che per lui) lo abbiamo visto serissimo, positivo, professionale, assolutamente carico. Un solo particolare tradiva la sua tensione: ogni volta che si sedeva muoveva nervosamente le gambe avanti e indietro, come spesso fanno i ragazzi sotto il banco durante l’esame di maturità. La sua emozione era davvero sincera e genuina, e c’è poco da stupirsi se all’annuncio della vittoria è scoppiato in un pianto liberatorio ed è corso ad abbracciare i suoi genitori vestiti da gran sera in prima fila; quegli stessi genitori che, come racconta, quando il figlio affermava che nella vita voleva fare il rapper si facevano il segno della croce e lo raccomandavano a padre Pio.
Chi ha avuto occasione di conoscere Rocco Hunt, o anche solo di incontrarlo per cinque minuti, sa che oltre ad essere un giovanissimo grande artista è un ragazzo umile, simpatico, alla mano, cresciuto “con valori cristiani” in una famiglia umile in cui è il primo di tre figli (l’ultimo ha quasi due anni). La sua gioia nel vincere quello che è – piaccia o non piaccia – il più importante riconoscimento attualmente disponibile nell’industria musicale italiana è ovvia e normale. E non va scambiata per furbizia e opportunismo. Mi permetto di rubare una frase che mi ha detto off the record in questi giorni (l’intervista che abbiamo realizzato con lui prima della gara, invece, la trovate qui): “Un giornalista mi ha chiesto perché sembro sempre così allegro, perché secondo lui i giovani dovrebbero essere incazzati e avere voglia di spaccare tutto. Io gli ho risposto che sono incazzato e a volte avrei voglia di spaccare tutto, ma ho due fratelli piccoli e devo essere un esempio per loro: se mi vedono incazzato nonostante tutte le fortune che ho, che cosa faranno loro?”. Meditate, gente, meditate.