Abbiamo avuto modo di intervistare il grande veterano Brusco, un vero e proprio pezzo di storia del reggae romano e italiano che, a quanto sembra, continuerà a stupirci con la sua musica ancora per lungo lungo tempo. Un’intervista fiume che parte dai suoi esordi fino alla situazione della musica reggae oggi in Italia e nel resto del mondo. Senza dimenticarsi il suo nuovo disco Tutto Apposto. Vediamo cosa ci ha raccontato l’artista.
Haile Anbessa: quale è stato il primo ricordo musicale della tua vita?
Brusco: ne ho sicuramente moltissimi e parecchio variegati. Da piccolo certamente canticchiavo alcune sigle di cartoni animati giapponesi ma in giapponese! (ride). O meglio io cantavo qualcosa che pareva giapponese ma non so bene cosa cantassi. Questo è certamente il primo di cui mi ricordi.
H.A.: parliamo ora dei tuoi esordi ai tempi della Vatican Posse. Mi parli di quel periodo, di quel contesto, di quel momento della tua carriera artistica?
B.: innanzitutto ti dico che mi è sempre piaciuto cantare e suonare. Fin da quando avevo dodici anni suonavo la chitarra. Poi a partire dalle scuole medie e ancora di più al liceo ho fatto parte di diverse band, anche di generi diversi. Facevamo sia cover che qualche pezzo scritto da me. Il reggae e soprattutto il raggamuffin invece ho iniziato ad ascoltarli e quindi ad appassionarmici all’età di quattordici anni circa, quando un caro amico cominciò a portarmi qualche cassetta e 45 giri dalla Giamaica. L’anno dopo, in seguito alla sua bocciatura, capitò in classe mia il mio grande amico Paolo, oggi noto come Chef Ragoo. Decidemmo così di iniziare a fare qualcosa insieme, cantando in italiano pezzi scritti da noi in maniera molto tranquilla e amatoriale. A quei tempi ogni giovedì c’era One Love che organizzava serate al Forte Prenestino con Lampadread ai controlli e il microfono aperto a tutti coloro che avessero voluto cantare. Stiamo parlando ormai di 22 anni fa. Il “nostro” debutto andò molto bene perché ricevemmo parecchi forward e da là non mi sono mai fermato. Siccome io mi chiamo Giovanni e lui Paolo e in Giamaica molti artisti si chiamavano Papa abbiamo optato per il nome Vatican Posse. Nel 1992 invece è nata la Villa Ada Posse e siccome Paolo preferiva atmosfere più hardcore, suonando anche la batteria e prediligendo il rap mentre io adoro la dancehall, ho deciso di aggregarmi a loro. Siamo cresciuti assieme nelle stesse zone di Roma, amici di lunga data quindi anche se un po’ più grandi di me.
H.A.: in un futuro prevedi la possibilità di fare qualcosa ancora sia con Chef Ragoo che con Villa Ada?
B.: abbiamo già fatto una grande festa per i vent’anni della Villa Ada Posse. Eravamo in tantissimi anche perché Villa Ada non sono solo Raina, Ginko e Flavia. Quando ci cantavo io c’erano almeno quindici persone che suonavano. Eravamo una vera e propria band e anche quando sono uscito dal gruppo erano presenti ancora tutti. Col tempo poi ci sono state ulteriori separazioni ma per questa festa abbiamo tentato di esserci proprio tutti. Un’impresa titanica anche perché ognuno ha intrapreso le proprie strade e quindi i punti di vista si possono anche essere polarizzati. Credo comunque che ha fatto piacere a tutti rivedersi e quindi l’atmosfera è stata sicuramente piacevole.
H.A.: recentemente hai rilasciato il singolo Cassetta & Vinile con un video molto genuino. Prendo spunto dalla tematica della traccia per chiederti come vedi la situazione della musica reggae attualmente in Italia…
B.: il video è stato volutamente casereccio. Pensa che avevo l’intenzione di girarlo tutto con il cellulare ma mi è stato impedito. Sono riuscito a utilizzarlo sono per alcuni spezzoni. Chiudendo la parentesi e rispondendo alla tua domanda posso dirti che c’è parecchio da dire, preparati. Il reggae non è come il rap perché in molti lo ascoltano ma in pochi si cimentano nel provare a prendere un microfono in mano quindi il talento in questo caso è più rarefatto. Questo secondo me accade perché, essendo il reggae fortemente legato a determinati valori, la voglia di protagonismo è inferiore rispetto ad altri generi. Molti giovani hanno talento come ad esempio Boomdabash o Gioman e Killacat anche se definirli giovani mai è improprio perché sono da molti anni sulla scena anche se anagraficamente giovani. Ci sono altri che si faranno sicuramente perché hanno stoffa e proprio per questo motivo io tento di dare il mio contributo tenendo dei corsi a Roma completamente gratuiti con il mio Brusco Music Lab per formare giovani che hanno il desiderio di cantare il reggae. Ci incontriamo due o tre volte al mese e sono proprio contento di questa iniziativa perché ho avuto modo di incontrare un sacco di belle persone ancora prima che ottimi artisti. Il reggae in questo senso è ancora un’isola felice come ho modo di vedere durante ogni serata in cui canto. Il mio consiglio principale a questi ragazzi è quindi sempre quello di portare avanti ciò che differenzia il reggae rispetto agli altri generi ossia un certo tipo di valori. Io sono il primo che fa canzoni più leggere e spensierate intendiamoci però è importante sempre veicolare degli ideali che fin dalla nascita del reggae in Giamaica e in Italia sono stati legati a questo genere musicale. In Italia penso che questo fenomeno sia ancora più forte perché il reggae è nato e si è diffuso proprio all’interno dei centri sociali o in occupazioni. Attenzione non parlo di politica nel senso lato del termine quanto più di attenzione per il sociale e di partecipazione. Il reggae oggi si è spostato da questi luoghi perdendo magari un po’ della propria identità. Anche dalla Giamaica ad esempio, nonostante il fatto che al giorno oggi si possano sentire delle liriche da fare accapponare la pelle per alcune tematiche trattate, ancora escono alcune canzoni così profonde che non si possono sentire in nessun altro genere musicale e universalmente valide. I giovani si devono approcciare al reggae nella maniera più indipendente possibile per avere una propria identità in cui la gente si possa riconoscere. Questa è una cosa che nessuna radio o nessuna etichetta potrà mai darti. Bisogna essere sempre semplici e assennati in qualsiasi cosa si desideri trasmettere.
H.A.: parlando di questa esplosione del reggae negli anni Novanta, dobbiamo notare come tu sia stato un assoluto protagonista di questa trasformazione con un pezzo come la tua cover di Abbronzatissima che all’epoca divenne un vero e proprio tormentone. Come li hai vissuti quei momenti? Qualcuno all’epoca ti ha mai chiesto di scendere a compromessi per quanto riguarda i tuoi testi?
B.: sai il mio discorso precedente era maggiormente collegato alle attività dei live piuttosto che alla produzione artistica. Parliamoci chiaro: se il reggae passa alla radio è tutto di guadagnato per noi tutti. Se Sciamu a Ballare dei Sud Sound System va in heavy rotation è una cosa positiva per tutti, l’importante è che l’ambito reggae non si sposti da luoghi accessibili a tutti a locali esclusivi ed elitari dove ti chiedono venti euro d’ingresso. Per quanto riguarda l’esperienza legata ad Abbronzatissima, mi ricordo che stavo registrando un disco, a mio parere per niente radiofonico, e in mezzo c’era anche questa traccia. L’etichetta indipendente L9 con cui registrai mandò il disco a un avvocato per un parere legale riguardo agli inserti della voce di Edoardo Vianello nella canzone. In questo modo la canzone fu notata da etichette discografiche più o meno grandi che fecero a gara per accaparrarsela. La canzone finì quindi in radio e divenne il tormentone che tutti abbiamo conosciuto. Per quanto riguarda le limitazioni è capitato un paio di volte che il direttore artistico dell’etichetta avesse delle rimostranze ma essendo io all’epoca più piccolo, avevo venticinque anni, non ci mettevo molto a prenderlo a male parole. Sul discorso del marketing, anche se non ero molto ben disposto, non ho mai messo bocca e ho lasciato fare loro in maniera libera. La promozione e i soli due video girati si sono svolti secondo i loro canoni anche se io mi sentii parecchio a disagio in molte delle serate che scaturirono dal successo di quell’album. Per due o tre mesi infatti mi ritrovai in queste esibizioni con trenta artisti in cui ognuno fa una sola canzone e mi sentii parecchio frustrato e limitato. Senza forward o come again, che sono la mia ragione di vita artisticamente parlando, mi avvilisco! Fu così che decisi di andarmene da tutto questo e perciò come secondo disco presentai del materiale talmente impubblicabile che le nostre strade si separarono. Certamente oggi questo tipo di ingerenze sono molto più pressanti rispetto a un tempo. Io credo che la musica non sia mai un lavoro o quantomeno non l’ho mai vissuta in questo modo. Ritengo che qualora ci si metta a creare una canzone non si debba mai avere in mente il concetto di business, quantomeno io non ci sono mai riuscito. Il reggae deve essere fatto solo per il piacere di farlo perché raramente verrà considerato dalle radio. Se una cosa è bella ed è fatta bene poi farà la sua strada. Ce ne sono molti di gruppi meritevoli ad esempio ma in quest’occasione ti cito i Mellow Mood che reputo bravissimi e credo proprio ad esempio che loro sono destinati a grandi cose. Stesso discorso per i sardi Train To Roots. Bisogna fare le cose per passione mai per svoltare.
H.A.: a te riesce bene anche cantare in inglese, come ad esempio nel materiale che hai prodotto con Gappy Ranks. Hai pensato di “espanderti” cantando di più in inglese? La situazione che hai descritto finora l’hai riscontrata anche all’estero?
B.: guarda secondo me la musica, come molte altre cose, ha un aspetto ludico molto spiccato e quindi anche io per gioco ho scritto delle canzoni in inglese, anche se in Italia non era ancora molto diffusa. Il risultato mi ha lasciato abbastanza soddisfatto e così sempre per gioco ho deciso di mandare queste canzoni ad alcune radio giamaicane. Non avevo alcuna aspettativa perché è difficile che un prodotto europeo, fatti salvi i casi eccezionali di Gentleman e di Alborosie che comunque oramai è un giamaicano a tutti gli effetti e merita tutto il successo che sta raccogliendo, possa sfondare sull’isola caraibica. Queste canzoni però hanno colto nel segno e sono cominciate a girare in vari mixtape fino ad approdare su Irie Fm, un sogno ad occhi aperti. Fui perfino invitato in Giamaica a esibirmi insieme a molti altri mostri sacri e essermi preso dei forward davanti a 30.000 giamaicani lo ritengo il momento più bello della mia vita, artisticamente parlando. Io pur adorando anche artisti recenti come Aidonia o Assassin e quindi non facendone un discorso esclusivamente di sonorità, credo che il reggae abbia perso qualcosa anche in Giamaica, tentando di scimmiottare gli americani in tutto e per tutto e avendo perso la spensieratezza originaria del genere rimpiazzata dal gangsta style.
H.A.: quali sono i tuoi artisti preferiti della foundation?
B.: guarda è molto difficile rispondere a questa domanda anche perché come ti ho già detto io sono un fanatico della dancehall. I miei artisti preferiti in assoluto, perché in tutti questi anni mi hanno accompagnato con una marea di hit, sono sostanzialmente cinque: Buju Banton, Beenie Man, Bounty Killer, Capleton e Sizzla. Penso che questi cinque artisti, per uno come me che fa deejay style, siano i più importanti sulla scena degli ultimi vent’anni e i più significativi per hit sfornate ed energia dal vivo. Tra gli artisti moderni, di quelli che sono bravi sia in studio ma anche e soprattutto dal vivo, apprezzo Charlie Black, Chris Martin, Aidonia, Assassin e Busy Signal che con l’ultimo disco Reggae Music Again ha dimostrato come il reggae debba sempre mantenere un’identità propria. Della foundation roots ti citerei Jacob Miller, Dennis Brown e U Roy.
H.A.: al di fuori del reggae cosa ascolti?
B.: ascolto molte cose anche se nessuna mi appassiona come il reggae naturalmente. Ascolto molta musica brasiliana, alcune cose della musica cubana e latina, canzoni con forti influenze arabe, tutto il soul e il materiale Motown, Ella Fitzgerald, Otis Redding, i cantautori italiani del passato da Dalla a Venditti a Rino Gaetano fino a Battisti. Un gradino su tutti però ci metto Bruce Springsteen che nei primi dieci anni di carriera ha fatto cose realmente incredibili.
H.A.: vedo che sei molto attivo sui vari social network. Come vivi il rapporto con i fans attraverso questi strumenti?
B.: lo vivo (ride). Io ritengo che tutte le tecnologie odierne, in qualsiasi campo, vengono messe in circolazione prima ancora che se ne conoscano gli effetti. Anche i social network quindi si possono conoscere a fondo solo vivendoli. I social network fanno parte della vita di tutti i giorni e non è possibile non conoscerli. Credo ad esempio che uno psicologo al giorno d’oggi non possa ignorare Facebook o Whatsapp perché le dinamiche sociali sono proprio cambiate. Un tempo per conoscere una ragazza dovevi aspettarla fuori dal portone di casa, oggi basta un tag su una foto del suo profilo. Questi strumenti quindi ti avvicinano con chi ti segue ma al contempo ti espongono maggiormente a critiche feroci. Un tempo gli artisti erano visti come qualcuno di irraggiungibile mentre oggi non è più così. A me personalmente è sempre piaciuto avere un contatto diretto con le persone per avere spunti di riflessione. I social network inoltre mi permettono di gestirmi personalmente le serate senza alcun tipo di intermediario.
H.A.: ora una curiosità personale. Vorrei soffermarmi infatti sul testo della tua canzone Rasta Non Casca in cui canti: “ci sono forze troppo grandi che non spieghi fino al giorno in cui le senti e capisci che ci credi”. Nella tua vita è successo qualcosa di particolare che ti ha fatto cambiare prospettiva a questo proposito?
B.: guarda adesso mi viene un po’ da ridere perché in realtà sarebbe molto più ampio ma rispetto a questa canzone in particolare un aneddoto preciso c’è eccome. In generale penso che uno dei bisogni primari degli esseri umani sia quello di avere una qualche forma di spiritualità che oggi è completamente assente, soprattutto da noi in occidente. La Chiesa purtroppo risponde male o non risponde proprio a questo tipo di bisogno e per questo nascono i fanatismi. Sono convinto però che nelle prossime decadi la situazione cambierà e tutto questo così come le vecchie ideologie verranno superate in favore di qualcosa di migliore. La fede oggi viene prevalentemente utilizzata esclusivamente nei momenti di necessità e quindi rappresenta un qualcosa molto individualista, anche per come viene praticata. Torniamo però all’aneddoto legato a Rasta Non Casca (ride). Il titolo è letterale perché la scrissi in seguito a una disavventura aerea in cui su un volo per Cuba un motore prese fuoco. L’aereo fortunatamente non cadde e da qui Rasta Non Casca.
H.A.: parlami ora del tuo nuovo disco Tutto Apposto?
B.: Tutto Apposto è il mio nuovo disco con i Roots in The Sky, la band con cui lavoro dal 2005. Un album tutto suonato, abbastanza distante dai miei soliti canoni, che tenta di tornare come spiegavo prima alle origini del reggae, alla stessa stregua dell’ultimo lavoro di Busy Signal. Ci sono anche fiati e cori dei Funkallisto e quindi invece che fare un disco che strizza l’occhio all’hip-hop piuttosto che all’elettronica come succede spesso oggi va alle radici del reggae, in modo da dare anche largo spazio ai miei amici musicisti. Tutto Apposto si proietta verso un futuro che è possibile affrontare solo col sostegno dei legami affettivi costruiti negli anni e al tempo stesso recupera nelle sonorità e nei testi l’autenticità e la credibilità indispensabili per un musicista al giorno d’oggi. In un panorama musicale che punta sempre più sull’immagine, trascurando contenuti e creatività, disorientato dall’inevitabile crollo di quello che era divenuto ormai un mercato alla stregua di tutti gli altri ma incapace di contrastare l’evoluzione della tecnologia, ci si aggrappa alle sole armi su cui si è sempre potuto fare affidamento: la voce, un basso, una batteria, una chitarra e due tastiere, per continuare a fare ciò hanno sempre fatto…semplicemente musica. Il disco è stato anticipato dal singolo Bruggisco. Il brano è un vero e proprio ruggito in difesa delle creature che, al pari dell’uomo, popolano questo mondo ma non hanno “voce” per difendere il proprio diritto alla vita. Ironia e metriche serrate dipingono un inno alla bellezza degli animali contrapposta all’arroganza e alla cecità degli esseri umani.