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Speciale under 21: intervista a Rocco Hunt

30-06-2013 Marta Blumi Tripodi

Speciale under 21: intervista a Rocco Hunt
L’ho fatto perché non voglio sentirmi inferiore a nessun altro rapper, e perché voglio mettermi alla prova.

L’età è solo un numero, diceva Aaliyah quando ha pubblicato il suo primo, strepitoso album a quattordici anni. Impossibile non pensare la stessa cosa ascoltando il nuovo lavoro di Rocco Hunt, Poeta urbano, uscito per Sony Music (leggi la recensione su Rockit): sfornare un lavoro del genere a diciott’anni – ed è solo uno street album, figuriamoci cosa riuscirà a tirare fuori per il suo debutto ufficiale! – è un’impresa che necessita di un talento fuori dal comune, enormemente più grande della sua giovanissima età anagrafica. In effetti forse non è neppure corretto inserirlo nello speciale under 21, anche perché la gran parte dei “vecchi saggi” della scena lo ritengono un loro pari e non certo un artista emergente. Eppure Rocco è ben consapevole di essere all’inizio di un percorso: è un ragazzo umile, concreto, volenteroso, uno di quelli che s’impegnano ogni giorno a trasformare la propria vocazione in un mestiere. Parlandoci non puoi fare a meno di pensare che se qualcuno si merita un successo fragoroso e dilagante, quello è proprio lui, a cui brillano gli occhi perché si trova per la prima volta ospite di un albergo a quattro stelle a Milano per parlare della musica che lo ha portato fin qui. Lo abbiamo incontrato nel lussuosissimo bar di suddetto albergo e questo è il fedele resoconto della nostra chiacchierata.

Blumi: Lo dici anche in una rima del disco, a diciott’anni hai portato il vero rap in major. Come ci si sente, visto che oltretutto molti veterani ti considerano il futuro del rap italiano?

Rocco Hunt: Sono onorato del fatto che mi considerino il futuro del rap italiano, soprattutto perché non è un complimento che mi attribuisco da solo: se c’è gente che lo pensa davvero, non posso che esserne felicissimo, perché è davvero una grande emozione e soprattutto un grande onore. Nonché un’enorme responsabilità: vedo artisti old school e new school riporre le loro speranze in me per ciò che hanno seminato finora, e non voglio deluderli.

B: Visto che queste sono le tue prime interviste “serie”, approfittiamone per fare un recap: cos’hai fatto finora? E soprattutto, come consideri i tuoi lavori del passato, quelli precedenti alla tua prima uscita discografica ufficiale?

R.H.: I miei lavori precedenti sono i mattoncini con cui ho costruito la mia storia fino ad oggi, perciò non li rinnego, anzi, li riascolto molto volentieri, perché mi fa un po’ tenerezza vedere com’è cambiata la mia concezione della vita crescendo. Sono molto affezionato a Spiraglio di periferia, soprattutto, che per me era un progetto nato per divertimento, ma che si è rivelato uno street album di spessore e ha raccolto molti consensi; è stato un buon punto di partenza, insomma, un’ottima base su cui cominciare a lavorare per il mio primo album vero e proprio.

B: Si parla spesso del fatto che la discografia in Italia non è molto favorevole all’uso del dialetto (vedi precedente intervista con Ntò). Anche tu ti sei sentito costretto ad abbandonare in parte il napoletano, che è comunque molto presente in Poeta urbano?

R.H.: Innanzitutto ci tengo a dire che il mio album è per il 50% in dialetto e per il 50% in italiano, e questa è una scelta esclusivamente mia. Anzi, quando ho portato il master alla Sony il mio discografico ha detto testuali parole: “Ho un dubbio. Non è che ci sono troppi pezzi in italiano?”. (ride) Comunque non l’ho fatto per allargare la base dei miei ascoltatori, ovviamente. Piuttosto, l’ho fatto perché non voglio sentirmi inferiore a nessun altro rapper, e perché voglio mettermi alla prova. Per me è come rappare in un’altra lingua e ripartire da zero: parole diverse, slang diverso… È una vera sfida.

B: Tu tra l’altro sei forse l’unico che è riuscito a mantenere il proprio flow naturale inalterato sia in napoletano che in italiano: non si percepisce nessuna forzatura, quando passi da una lingua all’altra…

R.H.: J Ax mi ha fatto lo stesso identico discorso che mi stai facendo tu adesso: secondo lui, a differenza di altri, non faccio notare la differenza tra l’italiano e il dialetto. E questa è una bella soddisfazione, perché vuol dire che ho lavorato bene sull’italiano.

B: Qual è il tuo segreto, quindi?

R.H.: Essere me stesso fino in fondo, in entrambe le lingue. Non bado a come fare, bado a fare: è una cosa che viene spontaneamente. Ma ovviamente prima di arrivare a questi risultati mi sono applicato molto: ho provato e riprovato, cestinando parecchi testi. È una questione di allenamento, forse.

B: Restando in ambito di music business, in Fatti, non parole critichi molto il sistema discografico attuale per cui non conta quanto è forte l’mc, ma quanto venderà. Secondo te attualmente chi meriterebbe di avere un contratto, ma non ce l’ha? O chi ti piacerebbe produrre in prima persona, se avessi il budget per farlo?

R.H.: Credo che ogni mc che fa rap in Italia oggi abbia una sua collocazione e sia quella giusta per lui. Potrei farti l’esempio di Mezzosangue, che rappresenta un tipo di rap indipendente e underground al 100% e proprio per questo ha lavorato a lungo con Blue Nox, che ha pubblicato il suo primo mixtape. Fedez, invece, che fa una proposta molto più “popolare”, è sotto major, cosa che è perfettamente in linea con il suo concept. La cosa positiva, al momento, è che ciascuno riesce a ritagliarsi un suo spazio nella fascia che più gli compete. E comunque, se dovessi produrre qualcuno, in questo momento credo che produrrei me stesso! (ride)

B: Entrando nello specifico di Poeta urbano, il tono del disco è a tratti un po’ cupo, malinconico, arrabbiato, il che è strano per un ragazzo della tua età…

R.H.: Io sono convinto che l’hip hop nasca dal disagio: è un modo di esprimere la propria rabbia. L’hip hop esiste per cambiare qualcosa, per dare voce a chi la voce non ce l’aveva. È parlare di quello che si vorrebbe avere, e non di quello che si ha. Non voglio fare il purista, è giusto sperimentare anche altre tematiche, ma io ci tengo a fare hip hop, e non solo a fare rap: quel tipo di argomento è fondamentale, per me. Paradossalmente, Poeta urbano è il primo album che faccio che contiene anche testi più allegri. Anzi, in un mio testo ancora inedito c’è una rima che dice più o meno “Tutti mi chiedono: ma perché non fai nu testo allegro?/ Ma come faccio se devo descrivere tutta la merda che vedo?”. E visto che di disagio ne ho davanti parecchio, mi viene spontaneo parlare di quello.

B: Capocannonieri, Atleti… Come mai tutte queste metafore sportive nei titoli dei brani?

R.H.: Era un po’ il mio sogno, fare l’atleta. Purtroppo attualmente il mio fisico non segue la tracklist! (ride) Da piccolo ho giocato a calcio per un po’, però non ho continuato.

B: Restando in tema di sfide, in una delle rime dell’album dici che i contest di rap in tv sono per i bambocci. Era una punchline un po’ provocatoria o è davvero quello che pensi?

R.H.: Purtroppo devo constatare che il pubblico delle battle televisive è un pubblico ignorante, nel senso che ignora i fondamenti del genere. E quindi porta alle stelle artisti che non hanno niente di speciale, a parte il fatto che fanno freestyle in televisione, rallegrando i pomeriggi degli italiani. Se prendi uno dei ragazzi che fa freestyle in piazza dalle mie parti, probabilmente è più forte di quelli che vedi in tv. Spesso dal teleschermo esce un’immagine un po’ distorta delle cose: chi ne capisce veramente, il freestyle di sicuro non lo cerca schiacciando un tastino sul telecomando.

B: Nel tuo pezzo L’occhio del massone parli di teorie del complotto e situazioni simili. Ci credi davvero e, soprattutto, cosa pensi di chi è convinto che anche nella musica ci sia la mano degli Illuminati?

R.H.: Credo che nella musica chi dice di essere un Illuminato è sicuramente l’ultimo ad esserlo davvero. Se uno è membro di una loggia o di una setta segreta, di certo non viene a dirlo a noi. Secondo me, comunque, esistono senz’altro poteri forti che influenzano l’andamento della storia e che sanno molto più di quanto sappiamo noi. Ma ovviamente, sono realtà silenziose: chi esibisce triangoli, compassi e simboli strani lo fa a scopo pubblicitario, ma non c’entra niente con la vera massoneria.

B: Per curiosità, cosa pensi invece di quelle teorie che vorrebbero che alcuni musicisti celebri (Michael Jackson, Amy Winehouse, Tupac) siano stati uccisi proprio dagli Illuminati?

R.H.: Oggettivamente Tupac combatteva in maniera aperta contro le logge segrete (vedi Killuminati): ha anche rilasciato diverse interviste in cui spiegava che si sentiva in guerra con loro, e che loro volevano ucciderlo. Penso che solo lui sappia come sono andate le cose, comunque. O forse non lo sa neanche lui.

B: Cambiando argomento, hai dedicato il brano Io ci sarò al tuo fratellino, che ha più o meno un anno. Che tipo di futuro ti auguri per lui?

R.H.: Quando sarà più grande gli impedirò sicuramente di avere a che fare con l’hip hop, o meglio, con lo show business che c’è dietro, perché non sopporterei l’idea che qualcuno possa lucrare su di lui e sfruttarlo per vivere di luce riflessa, giusto perché suo fratello è già conosciuto. Per lui mi auguro quelle soddisfazioni scolastiche che nella mia famiglia purtroppo mancano: io sono l’unico diplomato, o meglio, quasi diplomato, visto che a giorni farò l’esame di maturità. E gli auguro un futuro migliore di quello che ho avuto io, perché prima che iniziassi a lavorare (ovviamente si riferisce al rap, ndr) a casa mia non c’era granché. È solo grazie alla musica che oggi possiamo toglierci un paio di sfizi in più. Quando nella canzone dico “Io ci sarò, tornerò con qualcosa in tasca” mi riferisco proprio a questo: al fatto che, anche se non ci vedremo tutti i giorni, un giorno potrò tornare da lui e potrò sdebitarmi della mia assenza permettendogli di crescere in maniera un po’ più agiata, come merita.

B: Da quello che racconti, immagino che a casa tua il tuo contratto con un gigante della discografia come Sony sia stato festeggiato alla grande…

R.H.: Certo, ovviamente. È diventato il nostro spiraglio di speranza: un bel sollievo. E comunque, a prescindere dal fattore economico, è stata una grande soddisfazione. Dove abito io, a 18 anni un ragazzo comincia a portare a casa i primi guai e le prime denunce; io ho portato a casa un contratto con una multinazionale della musica. I miei non potevano che esserne contenti!

B: A proposito di ragazzi un po’ inguaiati, hai tenuto un corso di rap nel carcere minorile di Airola. Un’esperienza ancora più forte, dato che i tuoi allievi erano praticamente tuoi coetanei…

R.H.: Esatto. Nelle carceri minorili sono presenti ragazzi dai 14 anni fino ai 21; i più grandi stanno finendo di scontare una condanna inflitta quando erano ancora minorenni, e allo scoccare dei 21 anni vengono trasferiti in una prigione più grande, se la pena non è ancora finita. Il corso lo abbiamo tenuto io e diversi altri rapper campani, tra cui Lucariello, per due estati di seguito, spiegando cos’è il rap, come funzionano i quattro quarti, come si scrivono le rime… Alla fine del corso registravamo un EP con le loro canzoni; alcuni hanno addirittura partecipato a dei concorsi istituiti dal comune di Napoli. È stata un’esperienza molto intensa: i ragazzi che seguivo erano dentro per diversi tipi di reato, dalla rapina all’omicidio. Li ho messi tutti sullo stesso piano, che era quello dell’amicizia, e insieme abbiamo cercato di costruire qualcosa. Devo ringraziare la dottoressa Rosa Vieni, una delle educatrici del carcere, che ha avuto l’idea e ci ha permesso di vivere questa esperienza. Quei pochi mesi trascorsi a fare il corso mi hanno cresciuto tantissimo e mi hanno fatto capire quanto è dura vivere in un certo modo. Prima di allora non ero mai entrato in un carcere: ci andavo ogni giovedì, entravo alle 9 e uscivo alle due del pomeriggio. E ogni volta, immancabilmente, pensavo a quanto ero fortunato ad essere fuori, mentre i ragazzi che mi lasciavo alle spalle dovevano rimanere lì un’altra settimana, in attesa del giovedì successivo per distrarsi. Loro continuavano a ripetere che grazie a Dio c’era il corso di rap, perché pure se non ne capivano niente almeno potevano staccare per qualche ora ed evadere con la mente da quel posto…

B: A questo punto non mi resta che chiederti dei tuoi progetti futuri, maturità a parte.

R.H.: Innanzitutto spero di iscrivermi all’università. Non ho ancora deciso la facoltà, ma la maturità di ragioneria mi dà accesso a varie opzioni. Naturalmente la prenderò con calma, visti i miei ritmi di lavoro, ma spero di riuscire a laurearmi in futuro. Vorrei anche aprire un mio studio di registrazione a Salerno o a Napoli, però entro l’inverno conto di trasferirmi definitivamente a Milano, per poter lavorare con più determinazione e impegno ai miei progetti che man mano si spostano in misura sempre maggiore da queste parti. Prossimamente sarò anche in giro per i vari instore, una cosa molto nuova per me; anzi, a dire il vero sono anche un po’ emozionato, perché so che molte Feltrinelli in cui parlerò di solito ospitano scrittori e persone altolocate, e io sono sì un poeta urbano, però con tutte le licenze poetiche della periferia, che a volte comprendono anche qualche errore grammaticale! (ride)

B: A proposito, Poeta urbano è uno street album: si sa già quando uscirà l’album ufficiale?

R.H.: Ancora no, dobbiamo ancora iniziare a lavorarci su. Abbiamo già cominciato a buttare giù qualche idea, però: sicuramente sarà fuori nel 2014.