Succede davvero di rado che un fatto, un avvenimento o una persona mettano tutti d’accordo. In particolare quando si parla di hip hop italiano. Eppure, stavolta è successo. Quando è arrivata la conferma che Maxi B era entrato ufficialmente nella scuderia della Tempi Duri di Fabri Fibra, c’è stato un unanime plauso da parte della scena: nessuna invidia, nessun commento malevolo, nessuna obiezione. Perché nessuno più di lui meritava questa opportunità. Ci sono rapper che cercano in tutti i modi di catalizzare l’attenzione su di sé, e altri che invece lavorano sodo per una vita intera, senza mai sbirciare né a destra né a sinistra per scoprire se gli altri sono più indietro o più avanti di lui, per poi un bel giorno ritrovarsi a tagliare il traguardo in silenzio, senza clamore, contando solo sulle proprie capacità e il proprio talento. Ogni tanto le cose vanno esattamente come devono andare.
Blumi: Innanzitutto, complimenti per questo tuo debutto sotto major…
Maxi B: Grazie! Ovviamente sono molto contento anche se, per essere del tutto onesto, sarei stato contento anche con un’indipendente: non sono di quelli che puntano a tutti i costi alla grossa casa discografica. La mia mentalità non è cambiata per niente: la musica la crei tu, gli altri possono intervenire in tuo aiuto solo fino a un certo punto. Sono felice della visibilità in più che mi dà questa nuova situazione, ma per il resto la vivo come una situazione professionale non troppo lontana dalle precedenti.
B: Com’è nata la collaborazione con la Tempi Duri di Fabri Fibra?
M.B.: Fabri lo conosco da diversi anni, per la precisione dal periodo di Basley Click (il terzo album di Fritz da Cat, uscito nel 2001, ndr). Più avanti ho anche fatto un featuring per Home di Nesli, registrato a casa loro a Senigallia, perciò la conoscenza si è ulteriormente approfondita. Sono stato anche tra i primi ad ascoltare Mr. Simpatia, ai tempi. L’anno scorso L’ottavo giorno della settimana era quasi terminato: mi mancava giusto un featuring per Troppo bello, e ho pensato che Fabri sarebbe stato perfetto. Ho provato a mandargli una mail, pensando che impegnato com’era non avrebbe mai avuto il tempo di leggerla. Contro ogni previsione, però, mi ha risposto nel giro di un quarto d’ora. Mi ha detto che era da un po’ che aveva voglia di fare una collaborazione di quel tipo: abbiamo registrato e chiuso il pezzo in tre giorni, e ne ho approfittato per fargli sentire anche i provini di tutto il progetto, per avere un suo parere onesto e per fargli capire in che tipo di album sarebbe finita la sua strofa.
B: E lui cosa ne pensava?
M.B.: Ha detto di fermare immediatamente tutto, perché il disco era una figata e sarebbe stato un peccato farlo uscire come autoproduzione. Mi ha chiesto se mi andava di provare a sottoporlo alla Universal tramite lui. A loro è piaciuto, così eccoci qui. È stato tutto molto naturale e spontaneo, insomma.
B: Tu hai sempre militato nell’underground, spesso autoproducendo i tuoi lavori: qual è la cosa che ti ha colpito di più, di questa dimensione super-professionale del music business?
M.B.: Io ho sempre avuto uno staff rodatissimo, che mi aiuta in studio, in tour e nella promozione. Abbiamo sempre portato avanti tutto in maniera molto accurata, insomma, quindi sono abituato alla professionalità. Quello che mi ha colpito delle major è soprattutto l’attenzione ai dettagli: tutto è studiato e pianificato, dai comunicati stampa alla foto della copertina, passando per l’ordine dei brani in tracklist. Nulla è lasciato al caso, anche perché c’è qualcuno che si occupa di ogni aspetto della questione. Artisticamente, invece, non mi hanno chiesto neppure una modifica. Mi hanno semplicemente consigliato di scartare un brano, Super, che poi ho inserito nel mixtape Cattivo, ma solo per motivi di ridondanza: trovavano che fosse troppo simile a altri pezzi, così me ne hanno fatto aggiungere un altro, ovvero la title track L’ottavo giorno della settimana.
B: Parlavi prima dei comunicati stampa. Una cosa che mi ha molto colpito è la biografia ufficiale che l’etichetta invia ai giornalisti, dove per la prima volta parli di elementi del tuo vissuto, che prima trasparivano da alcune canzoni ma non avevi mai reso noti in maniera plateale. Cito: “Perché faccio musica? Perché ho vissuto in mille case con mille famiglie diverse, poco con la mia. Con mia nonna, con mia zia, con estranei, a volte trattato bene, altre meno. Nessuno di loro mi ha mai fatto sentire a casa. Mai. Solo sul palco mi sento nel posto giusto al momento giusto.” Cosa ti ha spinto ha parlarne così apertamente proprio adesso?
M.B.: È stata un’idea mia, derivata anche da alcuni consigli che mi hanno dato Fabri Fibra e Paola Zukar (manager di Fibra e co-fondatrice di Tempi Duri con la sua Big Picture Mgmt, ndr). Ho sempre fatto fatica, specialmente quando mi trovavo a fare musica in gruppo, a tirare fuori la mia storia e la mia personalità, forse perché quando sei in una formazione le tue vicende private hanno meno importanza: ciò che esce fuori con più prepotenza è piuttosto la tua attitudine da rapper. Paola e Fabri mi hanno fatto notare che non raccontavo mai nulla di me stesso, e secondo loro era un peccato. Mi hanno definito l’anti-personaggio per eccellenza, e in effetti è vero: io ho vissuto alcune situazioni che, se le avessero vissute altri rapper, a quest’ora sarebbero diventate la loro bandiera. Sono stati proprio loro a incoraggiarmi a mostrarmi per quello che sono e a raccontare la mia storia per quello che è, senza esagerare o minimizzare, ma comunicando semplicemente la mia esperienza personale. Senza costruirmi un personaggio, appunto, ma essendo me stesso.
B: Infatti: tu sei sempre stato un rapper molto concreto, riservato, lontano da certe polemiche tipiche della scena hip hop. Non hai avuto un pizzico di timore ad associare il tuo nome ad un artista come Fabri Fibra, che volente o nolente è sempre al centro dell’attenzione per motivi che spesso non hanno a che fare con la musica?
M.B.: (ride) Fabri segue la filosofia per cui la vita è un palcoscenico, e ha una tale energia che riesce sempre a catalizzare anche le critiche e le polemiche in stimoli e carburante per la sua creatività. Non penso però che per me si verrà a creare la stessa situazione, anche perché credo che per me parlino le canzoni e non il gossip. E infatti, anche per questo disco mi arrivano decine di mail che commentano proprio le canzoni, i testi, il messaggio. È la cosa che mi interessa di più. Io per vivere scrivo: al di là della musica, anche per alcuni giornali e per la radio. Se la mia scrittura arriva, vuol dire che sto lavorando bene; tutto il resto – dissing, polemiche, pettegolezzi – lo lascio ai forum, che peraltro non bazzico neanche tanto.
B: Con questo tuo passaggio alla Tempi Duri acquisisci anche dei fan molto più giovani ed eterogenei, ovvero quelli di Fabri Fibra. Come ti trovi a rivolgerti a un pubblico così diverso dai tuoi soliti ascoltatori?
M.B.: Mi piace molto, perché la maggior parte di loro mi scoprono ora, come solista. Tutto quello che c’è prima di Invidia, il mio precedente disco in solitaria, non lo conoscono. La cosa mi fa un po’ sorridere, ma è anche molto piacevole: ai live vedo facce nuove e fresche, che sanno a memoria tutti i pezzi e creano vibrazioni molto positive. Ma ci sono anche i trentacinque-quarantenni che mi hanno sempre seguito e sono cresciuti con me. Non mi pongo comunque il problema di modificare il mio modo di scrivere per venire incontro a un’audience più giovane: sono un uomo e scrivo da uomo. È anche vero, però, che ho cercato di introdurre una nota un po’ più spensierata con quest’ultimo album, perché spesso la parte più oscura sovrastava quella più ironica. È uno dei motivi per cui mi faceva piacere collaborare con Fibra.
B: Hai cercato di sperimentare un mood diverso anche a livello di sound? Le sonorità di L’ottavo giorno della settimana sono molto diverse dai tuoi lavori precedenti…
M.B.: Sono un po’ stanco di seguire un percorso che sembra prestabilito e dettato dal destino, in effetti. Tutti si aspettano da me un certo tipo di atmosfera, che però non è necessariamente la mia. Per la maggior parte della mia carriera sono stato parte di un gruppo, e quindi spesso andavo incontro ai gusti degli altri: ho sempre preferito lasciare da parte le mie preferenze personali, perché quando faccio squadra, lo faccio veramente. Ora come ora, invece, ho deciso di fare il leader di me stesso: fin dal mio primo lavoro solista, ho cominciato a scegliere produzioni che si avvicinassero più ai miei gusti. Come tutti noi ho molto amato i Mobb Deep, Nas, il primo Jay-Z, ma adesso invece ascolto tutt’altro.
B: Ad esempio?
M.B.: Drake su tutti: adoro il suo connubio tra melodia e rap. Oppure un altro nome molto discusso da noi, ovvero Lil Wayne, che a parole tutti disprezzano, senza però accorgersi che buona parte degli album italiani in voga adesso prende ispirazione proprio da lui. Un paradosso tutto italiano, insomma. Tornando ai beat, comunque, anche Michel e dj C.I. hanno subito un’enorme evoluzione…
B: Infatti! A giudicare dalle reazioni che ho letto e sentito, è stato quasi uno shock.
M.B.: Lo so! (ride) Spero che da questo disco in poi il mio nome non sia più associato a Kaso e Maxi B o ai Metrostar. Non per cattiveria, ma proprio perché sono un rapper completamente diverso e anche Michel è cambiato molto, riguardo alle produzioni. Lui è un fanatico di Rick Ross, ma soprattutto delle sue ultime produzioni più fresh, piuttosto che di quelle classiche.
B: Cambiando leggermente argomento, in molti si sono chiesti il significato della copertina dell’album…
M.B.: Quella foto racchiude in sé tutto ciò che mi ha spinto a scrivere il disco. Io sono in primo piano, ma la mia immagine è poco nitida, per sottolineare che la vita è veloce e nessuno riesce mai a fermarsi per mettere bene a fuoco quello che sta succedendo. Dietro di me, invece, c’è un senzatetto che fa l’elemosina a un banchiere fresco di bancarotta: un’immagine surreale, qualcosa che potrebbe succedere solo l’ottavo giorno della settimana, appunto. Sullo sfondo, poi, c’è l’immagine che preferisco: una coppia, a rappresentare i rapporti interpersonali e la famiglia, che però si allontana sempre di più e va per la propria strada, perdendosi in lontananza.
B: Il riassunto perfetto del disco, che a tratti è una critica feroce a un certo tipo di società….
M.B.: Ci tengo a dire che la prima critica, più che verso la società, è verso me stesso. Io, ad esempio, ho spesso problemi con la mia famiglia, perché sono sempre in giro e mi dimentico di chiamare a casa. Mi capita di sentire i miei genitori una volta ogni due mesi, cosa che ovviamente provoca non poche discussioni con mia madre. E, malgrado l’impegno, non riesco a modificare più di tanto la situazione, perché la vita va talmente veloce che ormai è impossibile star dietro a tutto. Su un piano più sociologico, invece, visto che giro l’Italia in lungo e in largo per suonare, probabilmente mi è riuscito facile anche fotografare la situazione del nostro Paese e questa crisi di cui tutti parlano.
B: In effetti il tuo è un album molto intimista, in cui le canzoni che parlano di sentimenti abbondano. Era la direzione che volevi prendere dall’inizio, o è nato tutto in maniera spontanea mentre scrivevi?
M.B.: Si tratta proprio di una scelta, innanzitutto perché mi fa un po’ sorridere questa difficoltà dell’hip hop italiano di parlare di sentimenti in maniera autentica. A quanto si evince dai pezzi, la maggior parte dei rapper di casa nostra se ne fanno tre a botta… Che dire, i miei complimenti, perché fare musica e contemporaneamente tenere in piedi un harem non dev’essere facile! (ride) Personalmente, mi piace esplorare tutti gli aspetti della questione: in Controvento, ad esempio, racconto di essere stato tradito. Una cosa che non succede mai, perché sembra che in questo genere musicale i maschi siano tutti invulnerabili. Mi piacerebbe tanto essere una mosca per vedere cosa succede in casa loro e vedere se sono veramente loro che comandano oppure è la loro donna che li comanda a bacchetta. Io mi sento abbastanza forte da potermi permettere di dire la verità, ovvero che ho tradito ma sono anche stato tradito, che ho avuto storie d’amore e storie di sesso. E infatti parlo anche di quello: in Mia sono proprio un uomo che fa l’uomo, senza avere però un approccio maschilista. Credo che a una donna ogni tanto piaccia “appartenere” a qualcuno, avere dei ruoli ben definiti.
B: Nel periodo della tua svolta solista sei anche diventato papà. È cambiato qualcosa nel tuo modo di scrivere (vedi alla voce “Jay-Z che smette di usare la parola ‘bitch’ dopo la nascita di sua figlia”)?
M.B.: Mio figlio Morgan è anche nel disco: la sua voce è quella che apre la title track, L’ottavo giorno della settimana. Da quando è nato, ho scoperto che esiste davvero un amore che va oltre quello comune: è una cosa viscerale, mostruosa, che ti dà forza nei momenti più bui. Ho sempre pensato che la frase “Darei la vita per mio figlio” fosse più che altro un modo di dire, e solo ora mi rendo conto di quanto sia vera. L’aver scoperto un sentimento del genere ha influenzato senz’altro il mio modo di scrivere. Soprattutto, mi ha dato un maggiore senso di responsabilità: se prima scrivevo un testo anche di getto, ora cerco di riflettere il più possibile su quello che dico, sapendo che quelle parole prima o poi gliele lascerò in eredità. Cerco di cantare delle cose intelligenti, che rimangano.
B: Forse anche per questo gli storytelling sono molto curati, come ad esempio Niente di buono, in cui parli degli anni di piombo…
M.B.: Tra l’altro è una storia vera, che mi ha raccontato mio padre. E scrivere di realtà è molto più difficile che partire da una vicenda inventata. Si parla di due fratelli gemelli che vivevano in provincia, tra Milano e Varese: hanno preso strade molto diverse e si sonno incontrati di nuovo così come dico nella canzone. Nelle molte volte che me l’ha raccontata mio padre ha aggiunto e tolto dei particolari, e io sono arrivato a un punto di sintesi. Credo che fosse importante parlarne proprio adesso, perché mi sembra adatta all’Italia di oggi. In questo periodo storico i ragazzi non sanno bene cosa fare, non vogliono mettersi in gioco, non prendono l’iniziativa… E prendere l’iniziativa significa anche rischiare di fallire. Io ho girato l’Europa facendo i lavori più umili per mantenermi all’estero, alla ricerca di ispirazione e di nuove esperienze. Non si può più restare bambini fino a trentacinque anni. Proprio per questo io cerco di bombardare mio figlio di stimoli: ha già visto moltissimi miei live, gli faccio ascoltare un sacco di musica, l’ho portato all’acquario, al cinema, a diverse mostre, appena sarà abbastanza grande andremo anche a teatro.
B: A proposito di apertura mentale, sfidando la fatwa che poteva piombarti in testa da parte di molti ambienti conservatori del rap, hai campionato Vasco Rossi (nello specifico, Gli angeli) in un pezzo che oltretutto è anche più canticchiato che rappato. La canzone in questione, ovviamente, è Il testamento. Da dove viene l’idea?
M.B.: Quella è una canzone a cui tengo tantissimo. Premetto che prima ancora di campionare Vasco avevo rifatto Destra, Sinistra di Giorgio Gaber, con il benestare della sua famiglia. Insomma, mi interessa da sempre intraprendere un percorso che prenda spunto da tutta la musica italiana di qualità. In effetti l’idea de Il testamento arriva dall’omonimo brano di De André: l’ho riascoltato di recente e ho pensato che riprendere lo stesso formato in chiave rap potesse essere molto interessante, così ho scritto questo testo in cui lascio utopicamente parti di me e della mia vita in eredità a diverse persone. Mi piace l’idea che sia una canzone genuinamente italiana, ispirata da un grande artista italiano e ripresa per la prima volta dall’hip hop italiano; in questo contesto, affiancare le liriche a un beat che riprende un altro peso massimo della musica di casa nostra, ovvero Vasco, mi sembrava perfetto.
B: Progetti futuri?
M.B.: Abbiamo intenzione di produrre molti video a scadenze abbastanza regolari: si tratta solo di decidere quali e come. Nel frattempo il tour è già partito, le varie date sono sulla mia pagina Facebook ufficiale. Conduco anche un programma settimanale su Rete 3, la radio pubblica della Svizzera italiana, dal titolo Ghettoblaster (ogni mercoledì dalle 22.00, streaming qui). È una cosa che mi piace molto: ho la possibilità di trasmettere tutta la musica che voglio, con uno spazio in continuo aumento dedicato all’hip hop italiano. Ho anche un libro in uscita: è un un misto tra romanzo e biografia, che mi hanno chiesto per il mercato svizzero. So che è difficile da immaginare, ma io lì sono un po’ il Fabri Fibra della situazione, così mi invitano alle prime serate in tv e vogliono pubblicare la mia autobiografia, che è in preordine già da diversi mesi! (ride) Ho anche pronto un altro romanzo e una raccolta di racconti, che spero di pubblicare a breve. Quando si tratta di scrittura in senso letterario, sono un po’ bloccato: non riesco mai a convincermi a fare uscire la mia roba. Finalmente, però, sto cominciando a decidermi, perciò aspettatevi novità su quel fronte!