Destination Unknown, secondo album di dj Pandaj, è uscito già da un paio di mesi e non si può definire un lavoro canonicamente hip hop; anzi, ingabbiarlo in un unico genere musicale sarebbe impossibile. Ma chi di musica black e urban vive e si nutre non resterà assolutamente deluso dal progetto: vuoi per le radici solidamente hip hop di Pandaj, vuoi per i numerosissimi campionamenti da colonne sonore, vuoi per quel tipo di ritmica che tutti noi abbiamo imparato ad amare, vuoi per gli ospiti tra cui spiccano diversi nomi noti (Ghemon, Vaitea, Frankie Hi-NRG, ma anche personaggi più mainstream come Saturnino e L’Aura). Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il diretto interessato, per scoprire cosa succede quando il viaggio musicale di un artista parte dal rap e approda da tutt’altra parte.
Blumi: Tu fai il dj da ormai vent’anni, ma Destination unknown è il tuo secondo album, e il primo è uscito solo nel 2007. Come mai li centellini così tanto?
Dj Pandaj: Il mio primo lavoro, Herculaneum, è uscito dopo oltre 10 anni di lavoro da dj in Italia e all’estero. Era una prima sperimentazione di produzioni accompagnate da musicisti, ispirate a tutta la musica che avevo passato durante la mia carriera. Destination Unknown, invece, lo considero un lavoro più personale e completo. Sono molto meticoloso e cerco di puntare molto sulla qualità e la ricerca, elementi che comportano tempi di lavoro lunghi e intensi. In quest’epoca di fruizione culturale usa-e-getta, la musica spesso esprime concetti superficiali e di basso profilo: per me la musica è cultura, e in quanto tale portatrice di messaggi profondi. Mi piacciono i progetti che riascoltati a distanza di anni sono ancora attuali e in grado di raccontare qualcosa. Volendo potrei anche comporre un pezzo nuovo in una giornata, ma non verrebbe mai come quello che ho limato e perfezionato per settimane. Il fatto di metterci così tanto è anche una questione pratica dovuta agli impegni di chi collabora con me: quando chiedo un featuring a un artista molto impegnato come Ghemon, L’Aura o Saturnino possono passare anche dei mesi. Centellinare la produzione è anche una mia mania di perfezionismo, che non nascondo.
B: Hai iniziato con l’hip hop, sconfinando poi in molti altri generi. Qual è stato il tuo percorso?
D.P.: Ho iniziato a suonare per gioco, a una festa di compleanno di amici. Alla fine, visto che si erano divertiti tutti, ho pensato che forse potevo approfondire la cosa e l’ho fatto, da totale autodidatta. Studiavo gli altri dj: come toccavano i dischi, perché mixavano in quel punto del brano, come lo facevano. A un certo punto ho capito che all’estero la musica e il suo business sono diversi rispetto all’ Italia e, con l’avvento dell’Europa unita, ho pensato che anche da noi si sarebbero create opportunità. Mia sorella ha vissuto a Londra per anni, così andavo spesso a trovarla, approfittandone per scoprire e comprare tantissimi dischi, gli stessi che ora sono il fulcro della mia collezione. È stato a Londra che mi sono innamorato del club come contenitore di divertimento e della drum’n’bass, il genere ritmicamente più innovativo degli anni ’90. Partendo da lì ho iniziato a mixare dischi e creare dei flussi sonori che mi coinvolgessero, scoprendo man mano che coinvolgevano anche il pubblico. Ho dovuto combattere con la timidezza perché, come molti altri dj, non mi sentivo molto a mio agio sul palco, suonavo sempre in casa con la musica in cuffia… (ride)
B: E l’hip hop che ruolo ha avuto in tutto questo?
D.P.: Nel periodo in cui ero adolescente – fine anni ’80 – ebbi la fortuna di assistere alla diffusione di una nuova cultura chiamata hip hop. Per me è stato un punto di partenza. Compravo dischi cercandoli per mari e monti (in quegli anni uscivano Afrika Bambaataa, Run Dmc, Beastie Boys, Public Enemy…) per crearmi un background che esigeva suoni ricercati, testi socialmente impegnati e potenza sonora. Passata l’epoca delle posse, verso il 1995, nascevano in Inghilterra etichette come Warp, Ninja Tune, Mo’ Wax e tante altre, che amavano sperimentare mischiando breakbeat, hip hop, jazz, funk, colonne sonore ed elettronica basandosi sul virtuosismo del campionamento. È stato in quel momento che ho capito di voler seguire la via della produzione mescolando tutte le influenze possibili, recuperando vecchi vinili e dando spazio alla creatività. In Italia, a parte qualche eccezione, l’hip hop suonava ancora in maniera piuttosto tradizionale. Il fenomeno da noi è stato unico rispetto ad altri paesi: senza nulla togliere ai pionieri italiani, altrove in Europa e America erano già da un’altra parte. Proprio per questo, nel circuito hip hop di casa nostra, ho sempre trovato molta difficoltà a collaborare: c’era una grande chiusura, che poi peraltro è stata smentita dal tempo, visto che adesso molti artisti hip hop hanno “contaminato” le produzioni con l’elettronica. In generale, nella scena musicale italiana è molto difficile emergere, se vuoi proporre qualcosa di diverso.
B: Sarebbe a dire?
D.P.: Nella musica italiana esiste un business incomprensibile, ancorato su vecchi nomi e vecchi modi di lavorare. Contrariamente a realtà molto meno ricche di tradizioni musicali, l’Italia ha completamente escluso lo scouting e l’investimento su nuovi talenti. Il fenomeno dei reality show legati alla musica è un’illusione per tutti i partecipanti, alcuni dei quali sono davvero bravi, ma sono utilizzati come prodotti di massa usa-e-getta, come dicevo prima. In realtà, con Internet da qualche anno ormai si è sviluppata una rete di artisti che cura managerialmente la propria attività.
B: Tornando al discorso della contaminazione, mi viene in mente quello che diceva Simon Reynolds (critico musicale tra i più importanti al mondo, ndr) nel suo libro Hip-hop/rock: secondo lui, attualmente è più interessante quando la musica bianca contamina la musica nera, vedi il caso di Tv On the Radio, piuttosto che viceversa…
D.P.: Beh, effettivamente è in parte vero, però credo che l’importante sia innanzitutto avere il coraggio di mescolare musica nera e musica bianca. Penso alla tecnhno di Detroit, che è partita da una costola della scena hip hop locale, e poi ha trasformato quella stessa scena hip hop in una delle più sperimentali che ci siano. O all’acid jazz, nato proprio da dischi di musica black risuonati dai bianchi… Per me la cosa più interessante di tutto ciò è il far convivere naturalmente generi diversi con lo scopo di creare qualcosa di nuovo.
B: Un disco recente che ti è piaciuto davvero tanto?
D.P.: Recentemente ascolto davvero di tutto, soprattutto musica del passato, ma per spezzare una lancia in favore dell’Italia cito due dischi. L’ultimo di Kaos, Post scripta, è davvero interessante: riesce a portare l’hip hop italiano a un livello superiore, sia riguardo ai contenuti che alle sonorità. Il nuovo album di Ghemon, Qualcosa è Cambiato, è un tassello per l’evoluzione della musica hip hop nostrana, e non solo in termini di qualità: lo dimostrano le prime posizioni nella classifica di vendite su Itunes. Sulla scena internazionale ascolto molto il filone di Flying Lotus, Freddie Joachim, dj Mitsu, Nicolay… E i soliti dj Shadow, Amon Tobin, Mos Def, Talib Kweli, la Stones Throw e più in generale chi fa della ricerca la propria attività principale.
B: Parlando invece del tuo album in particolare, qual è stato il processo produttivo?
D.P.: Destination Unknown è un album ricco di campionamenti e parti suonate: ho cercato un suono fresco e potente. Il disco è stato interamente preprodotto a casa mia, senza software, con un semplice campionatore Akai MPC 1000 e un giradischi. Quando ho conosciuto Ezra, fondatore della No.Mad Records di Torino, ci siamo subito trovati in sintonia, sia umanamente che artisticamente. Lui si è occupato della produzione artistica, aiutandomi ad arricchire il progetto con strumenti suonati e synth: alla fine delle registrazioni avevo quasi più contributi del necessario. La scena torinese è molto aperta, in questo senso: prevale la voglia di suonare e di collaborare con artisti diversi mettendo al primo posto la creatività, piuttosto che quella di monetizzare tutto subito, come invece spesso succede a Milano.
B: Viste le sonorità internazionali del disco, la mole di lavoro per produrlo e il fatto che molti brani sono cantati in inglese, altri al posto tuo avrebbero preferito puntare sul mercato estero, piuttosto che su quello italiano…
D.P.: Probabilmente è un mio limite! (ride) Scherzi a parte, Internet mi permette di essere in tutto il mondo, e come cittadino del mondo devo comunicare nella lingua più diffusa. In passato alcuni miei brani sono stati apprezzati dalla Ninja Tune ed inclusi nei celebri Solid Steel (show radiofonici mixati che l’etichetta pubblica anche in webcast, ndr) di Coldcut e Dj Food, quindi non escludo che in futuro possa succedere qualcosa. Però io ho un po’ il pallino dell’Italia. Vuoi per il grande background musicale, vuoi per mille altri fattori… emergere qui è molto più difficile, ma allo stesso tempo è una sfida affascinante frutto di tenacia, alchimie e colpi di fortuna.
B: La parte più eminentemente italiana del tuo album, forse, è la lettera di Plinio il Giovane che Frankie Hi-NRG rappa in latino, Herculaneum, già contenuta nell’album omonimo e qui in versione remix…
D.P.: La lettera di Plinio Il Giovane a Tacito è un documento di immenso valore storico, conosciuto in tutto il mondo. Sono state scoperte moltissime cose, leggendo questa lettera: la prima testimonianza di un’eruzione vulcanica scritta ai posteri, le abitudini quotidiane dei latini, come si curavano e tanto altro. Lavorare con Frankie Hi-Nrg Mc mi ha permesso di dare voce ad un documento molto importante, interpretato dall’ artista più sensibile al linguaggio che io conosca. In questi anni di totale sfacelo culturale ho pensato di insistere e riproporre il brano in una nuova versione affidata a Ezra. L’Italia è un paese pieno di cultura, spesso ignorata da chi ci vive: provo rabbia e vergogna vedendo che gli scavi di Ercolano e Pompei cadono a pezzi e nessuno se ne cura. Eppure in passato la cultura era una parte importantissima della nostra vita sociale e dell’economia nazionale: penso al teatro, a Cinecittà, al cinema degli anni ‘60, le cui colonne sonore mi hanno ispirato tantissimo…
B: A proposito di questo, una volta eravamo un’eccellenza mondiale nel ramo delle colonne sonore: i grandi compositori erano quasi tutti italiani ed erano talenti da esportazione. Poi, più niente. Cos’è successo, secondo te?
D.P.: Sono molti anni che sentiamo parlare di tagli alla cultura. Mancano i fondi per valorizzare il cinema italiano, mancano investitori: le colonne sonore, sono le prime a pagarla. In pochi ormai possono permettersi di ingaggiare un compositore di prim’ordine e un’intera orchestra appositamente per un singolo film. I software hanno sostituito le orchestre, Cinecittà è stata in gran parte venduta. Paesi come Ungheria o Bulgaria tornano a creare piccole cittadelle per il cinema, e noi invece le chiudiamo… In questo modo non nascerà mai un nuovo Morricone. C’è anche una problematica culturale che riguarda la fascia popolare degli spettatori, che nei film vogliono sentire le hit da classifica anziché colonne sonore originali.
B: Stai suonando parecchio in giro per presentare l’album. Gli ospiti di Destination Unknown, però, sono molti e tutti geograficamente distanti e impegnatissimi: come funziona, nella pratica, un tuo live?
D.P.: Solo nella presentazione che ho fatto a Milano sono riuscito a radunarli tutti. Per le altre performance, insieme al team di vj olandesi Soft Fusion, abbiamo filmato tutti i featuring realizzando dei videoclip ad hoc. È un modo per rendere visibili tutti i guest dell’album e coinvolgere gli spettatori in un’esperienza sia audio che video, sbirciando nel backstage della realizzazione di ogni brano. Un espediente che rende più ricco perfino un concerto hip hop, di solito povero di allestimenti. In generale, ho impostato una performance versatile a seconda dei locali in cui mi esibisco, uno show che riflette il mio modo di sentire e vedere la musica oggi.
B: Progetti futuri?
D.P.: Prossimamente uscirà una colonna sonora che ho registrato con Saturnino, per un film del quale non posso ancora parlare. Nel frattempo continuerò a fare spettacoli con Frankie Hi-Nrg, a produrre musica nuova e a portare in giro Destination Unknown.