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Damir Ivic: l'intervista

11-02-2011 Marta Blumi Tripodi

Damir Ivic: l'intervista

Chiunque abbia più di 25 anni e ami l’hip hop è cresciuto con gli articoli di Damir Ivic, una delle firme principali di Aelle Magazine: per essere precisi, una delle più fuori dal coro. Si è sempre distinto dal resto dei giornalisti specializzati per la sua cultura musicale a 360 gradi: si è sempre occupato, con successo e soddisfazione, di molti altri generi, oltre che di black music. Forse proprio per questo, la sua visione della scena italiana è sempre stata molto diversa da quella degli altri: più aperta, forse anche più ambiziosa, mai troppo rassegnata allo status quo. Nel dicembre 2010 ha pubblicato per Arcana Storia ragionata dell’hip hop italiano, in cui torna al suo primo amore intervistando personaggi storici, analizzando e sviscerando il contesto, svelando retroscena. Come prevedibile, il suo libro ha generato sia grandi elogi che qualche elemento di discussione: abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui in proposito.

Blumi: Rubo a Sidney Shaw (la caporedattrice di XXL protagonista del film Brown Sugar, ndr) la domanda iniziale di tutte le sue interviste: quando ti sei innamorato per la prima volta dell’hip hop italiano?

Damir: Beh, l’idea di un hip hop in chiave italiana mi appassionava molto anche prima di scoprire che esisteva già. Il primo vero contatto, però, è stato ai tempi delle posse, quando iniziavano ad uscire i primi articoli a tema sul Manifesto. Invece, se ben ricordo, il mio primo concerto fu quello degli Isola Posse All Star, al Controcarnevale di Venezia, in cui il casino era tale che Stop al panico fu trasformata in Vai col panico… (ride) Un altro momento importante è stato quando ho conosciuto a Verona le Scosse Verbali (gruppo rap in cui militava, tra gli altri, anche dj Zeta, ndr), che successivamente divennero i Codice Rosso, in cui per un po’ ho rappato anch’io.

B: L’idea del libro, invece, quando è nata?

D: Ho sempre pensato che prima o poi avrei dovuto scrivere un libro sull’hip hop italiano, viste tutte le esperienze e le storie che ho accumulato in tanti anni nella scena. Sfortunatamente, tra un lavoro e l’altro non ho mai avuto abbastanza tempo libero da dedicare al progetto. A un certo punto, però, mi ha contattato Arcana, con cui avevo già pubblicato una raccolta di testi commentati di Eminem, proponendomi di scriverne uno per loro. La prospettiva magari non era particolarmente ghiotta dal punto di vista economico, ma visto che l’idea mi girava in testa da tempo, ho subito accettato.

B: La domanda è d’obbligo, vista la suscettibilità di alcuni personaggi della scena: da quando è uscito Storia ragionata dell’hip hop italiano, quante persone sono venute a farti brutto sotto casa e quante, invece, hanno inaspettatamente apprezzato?

D: Vorrei innanzitutto specificare che io ho molta fiducia nell’onestà del mio lavoro: le opinioni contenute nel libro possono essere certamente discutibili e discusse, ma non le ho mai espresse in malafede. Premesso questo, devo dire che non ci sono stati episodi troppo antipatici. Sono dispiaciuto e sorpreso dal fatto che Next One abbia contestato alcune parti del libro: secondo lui non ho valorizzato né la sua attività da beatmaker, né Dritto dal cuore di Next Diffusion. Mi hanno detto, invece, che Skizo ha molto apprezzato, cosa che mi fa davvero felice, perché è una persona dalle convinzioni molto forti e se è rimasto soddisfatto vuol dire che è stato fatto un buon lavoro. A maggior ragione perché le mie opinioni non coincidono sempre con le sue; ho fatto del mio meglio per riferire la sua posizione, che trovo molto interessante all’interno della dialettica dell’hip hop in Italia.

B: Entrando nel merito del libro, tu hai un’opinione ben definita sulle posse: secondo te potevano rendere unico l’hip hop italiano, ma l’hanno anche cannibalizzato dandogli una connotazione troppo politica. C’è stato un momento alla Sliding Doors in cui le cose potevano effettivamente cambiare?

D: Non c’è stato un momento preciso, no. O meglio, c’è stato un momento assolutamente perfetto: l’uscita di SXM dei Sangue Misto, in cui l’hip hop nelle sue forme originali si è fuso con l’hip hop delle posse in una sintesi perfetta. Ma è stato un episodio isolato. Purtroppo all’epoca il rap era ostaggio di giornalisti ottusi, che avevano creato e alimentavano un pensiero unico: quella era roba di protesta sociale, e basta. Secondo loro gli artisti italiani erano una specie di consociati dei Public Enemy, i quali a loro volta erano al servizio di qualche strano comitato politico guidato da Toni Negri… Per reazione a questa visione unanime (e sbagliatissima), si è creato un integralismo ancora più radicale a difesa dell’hip hop puro. Negli anni ‘90 si condannava qualsiasi contaminazione o tentativo di evoluzione, c’era un confine netto che distingueva ciò che era hip hop da ciò che non lo era.

B: Chi ha vissuto il periodo delle posse in maniera attiva condivide la tua visione?

D: In realtà, spesso chi militava nelle posse era molto meno integralista di chi difendeva l’hip hop “nelle forme originali” (ricordiamo che Hip hop nelle forme originali era anche il motto di Aelle, ndr). Hanno accettato tranquillamente che le cose si siano evolute in un’altra maniera; qualcuno ha trovato la sua strada, come i 99 Posse, qualcun altro ha semplicemente smesso di fare musica, forse perché non aveva una grande vocazione per il rap. Gli esponenti delle posse hanno sempre avuto un approccio più cerebrale rispetto alla fazione dell’hip hop puro, che era invece molto viscerale, quindi per loro è più facile accettare che le cose siano andate in una maniera diversa da quella che magari speravano.

B: A proposito: molti degli artisti che hai intervistato, li avevi già intervistati più volte in passato. Chi di loro è cambiato di più, e chi invece è rimasto tale e quale agli anni ‘90?

D: Siamo un po’ tutti ancora fermi agli anni ‘90: personalmente credo che il cambiamento più drastico sia quello tra l’Esa di Ragga no droga e quello di Gente Guasta, ma se ci pensi è un cambiamento che risale alla fine di quel decennio, visto che La grande truffa del rap è uscito nel 2000. In generale, le persone che ho intervistato portano tutte avanti con grande convinzione il loro percorso artistico, quindi non mi sembrano molto cambiati, e credo sia anche giusto e logico che non siano cambiati. La cosa è quasi ammirevole, visto che l’hip hop va ad ondate: la gente si avvicina per moda e quando la moda passa se ne va. In questo panorama, è bello trovare delle persone che restano ferme con coerenza sulle loro posizioni.

B: Ci sono, invece, degli artisti che avresti voluto intervistare per il libro ma che non sei riuscito a sentire?

D: Chiaramente sarebbe stato molto interessante fare due chiacchiere con Neffa, ma so che non gli fa piacere parlare ancora di hip hop, perciò ho usato del materiale di archivio dei tempi di Aelle, che è altrettanto significativo. Sarebbe stato bello anche intervistare Gruff, ma non credo avrebbe accettato, così anche in quel caso ho utilizzato un articolo d’annata di Aelle. Per il resto, avrei voluto parlare anche con Noyz Narcos, ma purtroppo non c’è stato il tempo: questo è l’unico vero rimpianto.

B: Quindi nessuno ti ha rifiutato un’intervista…

D: No, nessuno. Magari qualcuno si è pentito subito dopo, vedi ad esempio Next One; se è così, mi dispiace. Devo dire, però, che ho trovato una grande collaborazione da parte di tutti. Era scontato che persone come Esa o Caparezza fossero gentili e disponibili, mentre non era così scontato che altri lo fossero, ma colgo l’occasione per ringraziare tutti, perché i loro contributi sono stati preziosi e sempre meditati.

B: A proposito di Caparezza, nel capitolo che gli dedichi lui stesso spiega che non gli interessa tanto l’hip hop come movimento culturale, ma soltanto il rap come tecnica musicale. Ma allora, che ci fa una sua intervista in un libro dedicato alla cultura hip hop italiana?

D: In realtà non è vero che Caparezza non c’entra con l’hip hop, anzi, è lui per primo a spiegare che a un certo punto la sua carriera ha ripreso vigore proprio grazie ad esso. Nell’intervista racconta che si è staccato dalla scena perché non tollerava certi integralismi, ma è stata anche questa compattezza di vedute della scena ad aiutarlo a ricostruirsi un’identità artistica quando ne ha avuto bisogno (per liberarsi di Mikimix, suo vecchio pseudonimo, ndr). Secondo me, comunque, Caparezza è l’esempio di come potrebbe diventare l’hip hop italiano in mano alle persone “normali”, quelle che non si sentono soldati dell’hip hop puro. La sua è una storia emblematica e mi sembrava giusto inserirla nel libro.

B: Sì, ma perché inserire proprio lui e non altri personaggi che hanno usato lo strumento del rap nella loro musica?

D: Perché lui alle jam e alle gare di freestyle ci è andato davvero, mentre altri, come ad esempio Raiz degli Almamegretta, non lo hanno fatto, pur essendo magari bravissimi a utilizzare lo strumento del rap. Anche uno come Jovanotti non c’entra niente con il rap, nonostante tutte le baggianate sul suo essere Zulu King che circolavano agli inizi, quando la situazione era molto più confusa. Al di là di aver fatto aprire ai Cor Veleno i suoi concerti, la sua storia non si è mai intrecciata con quella della scena hip hop italiana.

B: Un’altra cosa che ha fatto molto discutere è la tua posizione nei confronti di Bassi Maestro, che citi più e più (troppe?) volte come un esempio da non seguire. Alcuni hanno pensato che il trattamento che gli riservi nel libro sia legato al vostro litigio ai tempi di Aelle, quando avevate discusso su un’intervista che gli avevi fatto…

D: Torniamo un attimo a quel litigio, chiariamo com’era andata. Dopo aver letto quell’intervista pubblicata, Bassi era infuriato: quando gli ho chiesto perché fosse così arrabbiato, visto che avevo trascritto con precisione tutto quello che mi aveva detto, la risposta è stata “Ecco, proprio questo è il problema”. Secondo lui, avrei dovuto cambiare certe cose e smussare alcune sue opinioni (Bassi ha senz’altro un’altra visione dei fatti, che ascolteremo e riporteremo volentieri se lui lo volesse, ndr). Trovo che questo sia un atteggiamento infantile, abbastanza emblematico dei problemi che in quel periodo l’hip hop italiano aveva: il rapporto che Bassi Maestro aveva coi media – perché in quel momento io rappresentavo una rivista, non me stesso – spiega questa situazione meglio di mille parole. E infatti, anche nel libro Bassi è semplicemente un simbolo di quel tipo di atteggiamento, non c’è un accanimento personale da parte mia. Ci tengo a sottolineare che per me lui è un personaggio fondamentale per l’hip hop italiano e ha enormi meriti, tra cui quello di aver portato avanti la scena quando ormai quasi nessuno se ne occupava più: nelle fasi più complicate è stato un punto di riferimento per tutti e da questo punto di vista ha tutto il mio rispetto. Allo stesso tempo, però, alcuni suoi comportamenti, adottati poi anche da molti altri, erano immaturi e hanno contribuito a rendere un po’ più immatura l’intera scena. Si può sicuramente non essere d’accordo con la mia visione, ma mi sembra un discorso molto onesto, lineare e ragionato, e non un’imboscata a Bassi o a chiunque altro.

B: Restando sulle posizioni scomode, non tutti sono d’accordo con la trattazione un po’ sommaria che hai fatto del periodo che va dal 2000 ad oggi: sembra quasi che tu sottointenda che sì, qualcosa è successo, ma non era poi così importante, almeno non rispetto agli anni passati. Faccio l’esempio dello Showoff, che all’epoca ha mosso e ispirato centinaia di persone, ma è citato molto brevemente…

D: Ammetto che questa può essere una sensazione legittima, ma mi difendo dicendo che, essendo questa una Storia ragionata dell’hip hop italiano e non una storia enciclopedica, ho preferito concentrarmi sul periodo in cui le cose sono davvero cambiate e si sono strutturate nella maniera in cui tutte le conosciamo. È una visione parziale, certo: sono giuste le critiche che mi muovono, però sottolineo che è una scelta assolutamente volontaria. Oltretutto, concentrandomi su un solo decennio di scena italiana il libro sfiora le 300 pagine: figuriamoci se avessi dovuto occuparmi di tutti e due! (ride)

B: Qual è stato, invece, il criterio con cui hai scelto i 20 album presenti nell’ultima sezione? Anche qui si potrebbe discutere all’infinito…

D: Venti album, ovviamente, sono pochi e per forza di cose molti titoli importanti restano fuori dall’elenco. Se avessi dovuto scegliere basandomi solo sulla qualità, ad esempio, avrei dovuto inserire l’intera discografia di Kaos, ma così avrei occupato già quattro posti… Se quello fosse stato l’unico criterio, insomma, probabilmente la selezione sarebbe stata molto diversa. Diciamo che ho cercato di prendere in esame i dischi più significativi dal punto di vista storico, quelli che permettono di raccontare ciò che è successo prima e ciò che è successo dopo. Se avessi inserito Dalla sede, per dire, avrei potuto parlare solo degli Otierre, mentre scegliendo La grande truffa del rap sono riuscito a parlare anche della loro trasformazione in Gente Guasta. Stesso ragionamento per Melma e Merda, che mi permetteva di scrivere sia di Kaos che di Sean e Deda.

B: Tornando per un attimo al presente: qualche mese fa, all’ormai famoso Place2Be di Bologna (vedi relativo articolo, ndr) lo spazio dedicato ai media è stato fagocitato da una discussione sul ruolo di Aelle, che ha chiuso i battenti quasi dieci anni fa. Tra l’altro, molti artisti che all’epoca non ne erano proprio entusiasti ora sembrano rimpiangerla. Che cosa ci dice questo sull’hip hop italiano di oggi?

D: Innanzitutto ci dice che a livello di informazione non esistono più simboli importanti come Aelle negli anni ‘90. Ci dice anche che non è mai stata fatta un’analisi vera e propria del ruolo di Aelle, né all’epoca né oggi. Molte persone non vogliono ancora affrontare a mente serena e in maniera razionale quello che è successo. Hanno senz’altro le loro motivazioni, non sto dicendo che abbiano per forza torto, la mia è solo una constatazione. Comunque, uno dei problemi degli anni ‘00 è proprio che non esiste nessun “Aelle bis” capace di suscitare tutte quelle passioni, nel bene e nel male. Nonostante tutti gli sforzi e i meriti che si possono attribuire a Groove, purtroppo non è mai riuscito ad arrivare a tanto.

B: In effetti la redazione di Aelle era avvolta da un alone quasi leggendario: negli anni ‘90 qualsiasi hip hopper sapeva recitarne i nomi a memoria, manco fosse la formazione della Nazionale. Un fenomeno del genere non si è più ripetuto…

D: Sarti, Burgnich, Facchetti… (ride) Diciamo che è anche cambiata la struttura dei flussi informativi: all’epoca una rivista rischiava di essere davvero l’unico punto di riferimento per la scena, perché Internet era ancora un fenomeno di nicchia e gli altri media non si occupavano granché di hip hop. Certo, c’è stato anche il periodo in cui Aelle parlava bene di tutti gli album di rap italiano in maniera totalmente acritica, cosa che ha creato una lunga serie di problemi, a noi e agli altri. Ma al di là di questo, ha avuto la fortuna di vantare dei giornalisti molto bravi: anche se non condivido i suoi gusti musicali, Paola Zukar scriveva davvero molto bene, e pure Silvia Volpato e David Nerattini, che hanno gusti più simili ai miei, erano professionisti eccezionali. Uno dei problemi di Groove, per citare il successore più noto, era che si è affidato principalmente a due firme. Uno era Andrea Teskio Paoli, una persona validissima e preparata, ma che aveva un background punk e non hip hop; l’altro era Rido, la cui occupazione principale non era scrivere, ma fare musica. Ai tempi di Aelle, si diceva “Che ne sai tu, che non fai rap? Non puoi recensire un album!”. Ecco, è un problema anche il contrario. Scrivere una recensione ha le sue regole e le sue difficoltà.

B: Siamo arrivati all’angolo del pettegolezzo. Se proprio vuoi, non fare nomi, ma vogliamo qualche chicca che non hai inserito nel libro per paura di scatenare l’inferno…

D: Oddio, questa domanda avrei dovuto prepararmela prima, ci sarebbe così tanto da dire! (ride) Aelle è una miniera di storie. Ad esempio, una volta organizzammo un Aelle Award, in cui i lettori compilavano delle schede allegate alla rivista e ce le spedivano, votando i loro nomi preferiti. In una categoria risultò vincitore l’artista X anziché l’artista Y: l’artista Y si presentò in redazione infuriato, urlando e picchiando sui mobili, accusandoci di aver truccato i voti per far vincere l’altro artista. Provammo a spiegargli che se voleva poteva ricontare lui stesso le schede, ma non ci fu verso: lui continuava a gridare ai brogli. Che altro raccontare… Beh, una serie di rapper e produttori, sempre senza fare nomi, pubblicamente disprezzavano Aelle, ma privatamente ci supplicavano di fargli scrivere qualche articolo. Poi scoprivano che scrivere articoli era difficile e puntualmente rinunciavano, ricominciando a insultarci. C’è stata perfino una persona, un artista piuttosto noto, che pur di ottenere una copertina ha finto di avere una malattia in fase terminale: era il suo “ultimo desiderio prima di morire”…

B: A proposito di queste pessime figure, se tu avessi un telecomando magico che ti permettesse di fare erase & rewind, che cosa cancelleresti e cosa salveresti di questi ultimi vent’anni di hip hop italiano?

D: Le cose sarebbero andate meglio se, finita l’esperienza delle posse, non ci si fosse rinchiusi nell’hip hop “nelle forme originali” in modo isterico. Ricordo, ad esempio, quando proposi ad Aelle la recensione di Entroducing di dj Shadow, e mi fu risposto “Non è un disco hip hop”, solo perché aveva avuto successo in un pubblico composto in maggioranza da non b-boy. Allo stesso modo mi sarebbe piaciuto che la scena non si fosse autoghettizzata così tanto, che avesse provato a scambiare delle esperienze con artisti che non facevano hip hop e a diventare più matura: mi viene in mente Kboard che, caso raro in Italia, per il disco degli Zona 45 andò a cercare l’aiuto di Gianluca Petrella, uno che oggi è considerato il più grande trombonista al mondo da gran parte della critica planetaria. Pensiamo a che scambio meraviglioso ci sarebbe essere tra i musicisti hip hop e la scena jazz italiana…

B: Ultimissima domanda: segui l’hip hop italiano oggi? Come andrà a finire, secondo te?

D: Continueremo a girare in tondo, probabilmente: fasi in cui l’hip hop sarà di moda e fasi in cui l’hip hop non se lo filerà nessuno, tanto meno il mainstream. In Italia il pubblico di riferimento dell’hip hop dovrebbe essere quello indie; quello dei lettori di Rockit, per intenderci. Perché il rap di casa nostra è musica italiana che non passa sui circuiti mainstream, esattamente come quel tipo di rock underground. Sarebbe utile anche che si alleasse con la club culture, come è successo in Inghilterra. Se mai l’hip hop italiano riuscirà a fare un fronte comune con queste due scene, avremo dei risvolti molto interessanti. Se questo non avverrà, invece, continueremo ad andare a ondate, come adesso, senza particolari risvolti stilistici. Il che renderebbe tutto molto noioso. Devo ammettere, comunque, che oggi ci sono molte meno realtà che risvegliano il mio interesse, perciò seguo meno di prima gli sviluppi della situazione.

B: Fine dell’intervista. Vuoi aggiungere qualcosa?

D: Mi ha sempre fatto sorridere la classica domanda finale da intervista hip hop: i saluti e gli shout out. Da una parte mi sembra una routine così obbligatoria e scontata che mi dà ai nervi, dall’altra risveglia in me un sentimento di passione e tenerezza, perché è uno dei modi in cui “riconoscersi” come parte della scena. Quindi non saluto nessuno, ma penso con affetto a quanti sarebbe bello salutare.