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Alvaanq: l’intervista

07-12-2017 Riccardo Primavera

Alvaanq: l’intervista

Nel corso degli ultimi anni, il made in Italy sta iniziando ad affermarsi nel mondo della musica internazionale, nello specifico dal punto di vista grafico. Artisti quali Corrado Grilli o Moab collaborano in pianta stabile con grandi realtà d’oltreoceano: i Migos, Westside Gunn, la Slaughter Gang, Ski Mask The Slump God e altri ancora. Talento, gusto artistico e grande versatilità li hanno resi apprezzatissimi all’estero, nonostante – come nel caso di Moab – la giovane età (21 anni all’anagrafe per lui). Oltre a loro, a Roma c’è un altro giovane illustratore – classe ’94 questa volta – che si è fatto conoscere grazie alle sue collaborazioni con Chris Brown, e che non ha intenzione di fermarsi a questo: il suo nome è Alvaanq . Ha già lavorato con alcuni artisti italiani, ma non intende assolutamente fermarsi; sono andato nella capitale ad incontrarlo. Con la meravigliosa architettura capitolina come sfondo, tra un Burger King e un caffè, ho scoperto chi e cosa si cela dietro Alvaanq.

Riccardo: Partiamo dal principio e sveliamo qualcosa in più su di te: chi si cela dietro l’alias Alvaanq? Quando e come è nata invece la tua passione per l’arte?

Alvaanq: Mi chiamo Alvaro Javier Cecchetti, sono nato in Venezuela da famiglia italiana. L’arte mi ha sempre appassionato, sempre, fin da quando sono piccolo. Ricordo ancora i disegni più buffi e cazzoni che si fanno normalmente quando si è bambini, già in quel momento ero rimasto folgorato da questa passione. Il percorso che sto intraprendendo ora, da artista diciamo, è nato da pochissimo; ho fatto un calcolo, sono circa due anni e mezzo. Mi sono ritrovato a fare tantissimo in poco tempo: nella mia vita infatti non ho mai studiato niente che avesse a che vedere con l’arte, ho studiato al liceo scientifico, quindi di fatto totalmente l’opposto. Però anche lì a scuola ho sempre capito che l’arte faceva parte di me, mi mettevo a disegnare caricature dei professori per cazzeggiare, sui banchi o sulle lavagne. Nel 2010 ho iniziato a fare qualche illustrazione che poi stampavo su magliette, giravo con i miei disegni addosso, quindi ho sempre avuto il pallino di fare qualcosa con l’arte che mi scorreva nelle vene. Qualche tempo dopo degli amici mi dissero “ma perché non inizi ad usare instagram?” – il social network allora era agli inizi, stava per esplodere ma era lontano da ciò che è oggi. Ho colto l’occasione al volo, ho iniziato a pubblicare un po’ dei disegni che avevo fatto, mantenendo però il mio profilo personale. Un giorno un artista che aveva collaborato con Chris Brown mi disse che un mio disegno secondo lui era figo, che il mio stile era figo – fu una grande iniezione di fiducia. Uscendo dall’università una sera, con Joey Badass nelle cuffie, decisi di disegnarlo: stavo prendendo l’autobus, quindi non potevo neanche tirare fuori quaderno e matita per disegnare al meglio. Ho tirato fuori il telefono e ho iniziato a disegnare con Sketchbook, arrivato a casa ho condiviso il disegno e mi sono addormentato. Al risveglio vedo che Badass aveva messo like al disegno e la Pro Era (l’etichetta di Badass, ndr) aveva ricondiviso il disegno sul profilo ufficiale. Lì per li ho pensato “minchia, che figata, addirittura 2000 like sul post della Pro Era!” – ero davvero entusiasta, la cosa mi ha convinto ad iniziare a disegnare in pianta stabile gli artisti che ascoltavo. Come ti accennavo prima (l’intervista arriva dopo una lunga chiacchierata personale tra me e Alvaanq, ndr), la mia non è ciò che molti definiscono “fanart”: come un artista che ascolti ti immerge nella sua musica, io lo prendo e lo immergo nella mia arte. Quindi si va aldilà della fanart, si tratta di una sorta di ringraziamento da artista ad artista, anche se tu sei un artista enorme. È il mio modo di esprimere ciò che ho provato ascoltando quell’album o quel singolo.

R.: Un qualcosa del tipo “tu mi porti nella tua arte, io ti porto nella mia”, giusto?

A.: Esatto! Poi c’è anche tutto il significato artistico: il fatto ad esempio che i miei personaggi abbiano sempre degli occhi luminosi e accesi, che gli sfondi siano sempre ipercolorati e particolari… Non è qualcosa che fanno in tanti, sfondi così pieni di colori, nuvole, fuoco, tanti altri elementi – è proprio per immergerli nel mondo in cui io li vedo. Gli occhi illuminati e colorati stanno proprio a significare che anche loro sono immersi nella mia arte, ecco perché l’ho denominata “Supreme Art” – anche prima che uscisse in Italia tutto quell’hype legato a Supreme come brand, non c’entra nulla. Anzi, in effetti sto iniziando a rivalutarlo come nome , perché ultimamente sta diventando troppo sputtanato; chi non mi conosce, o che magari in futuro mi conoscerà, farà subito il collegamento con il brand. Ai tempi però l’ho chiamata così perché la ritengo qualcosa di supremo, che va oltre il singolo concetto artistico di natura, paesaggio e soggetto. Un mondo totalmente mio, diciamo sopraelevato, che a volte neanche io so come raggiungere. La nascita di questo approccio mi ha portato poi a conoscere diversi artisti, nel mentre studiavo scienze e tecnologia per i media in università – fondamentalmente il connubio tra grafica e matematica, geometria e fisica. Non esattamente un corso di laurea leggerino, mettiamola così.

R.: Direi proprio di no! Volevo infatti chiederti qualcosa che si ricollega a questo: ne abbiamo parlato prima, però vorrei chiederti qualcosa di più riguardo al tuo ingresso “ufficiale” nel mondo dell’arte, avvenuto con Chris Brown. Mi viene da pensare, prima di allora, visto e considerato che abiti a Roma – città culturalmente tutt’altro che morta – non c’era stato nessun artista italiano a proporti di collaborare?

A.: Nessuno; cioè, nessuno che mi abbia proposto una collaborazione basata su un intero progetto, come hanno invece fatto all’estero. In questi mesi passati ho lavorato con artisti italiani, ma non si è mai trattato di dar vita ad un qualcosa di unico, indissolubilmente legato al mio nome e a quello dell’artista. Tutt’ora difficilmente un artista italiano viene da me e mi dice “lavoriamo, facciamo qualcosa insieme” come ha fatto Chris Brown. Questo perché la mia arte qui non dico che è poco apprezzata, piuttosto poco vista, soprattutto all’interno di un contesto italiano. Ecco perché la mia arte, affiancata alla musica e allo stile di Chris Brown, risulta particolarmente azzeccata. La connessione tra me e lui praticamente nasce nel momento di cui ti parlavo prima, mi ha detto culo sostanzialmente, posso essere sincero (sorride, ndr). Aver fatto un disegno che, tra migliaia e migliaia di altri lavori o di foto nelle quali lo hanno taggato, lo abbia colpito al punto da farglielo ricondividere… Lì ho iniziato a pensare “ok, allora c’è qualcosa che funziona in quello che faccio” – da lì artisti italiani hanno iniziato a notare la mia arte, ma senza sbilanciarsi nel proporre collaborazioni. Cioè, ho collaborato con Chris Brown, sono un “prodotto” italiano che sta piacendo all’America, eppure non c’è stato nessuno che abbia detto “cazzo, prendiamolo a lavorare con noi!”. Il mazzo quindi me lo sono sempre fatto da solo, non ho mai avuto un contatto in Italia che spingesse e mi aiutasse a valorizzarmi qui, ho fatto tutto da solo sempre e comunque. Da un lato mi è dispiaciuto, dall’altro no; mi è dispiaciuto soprattutto perché trovandomi qui, prendere un treno per andare a lavorare a Milano mi è decisamente più comodo che prendere un aereo per Los Angeles (ride, ndr).

R.: Insomma è mancato un po’ un riconoscimento da parte dell’Italia…

A.: Esatto, questo riconoscimento non c’è stato. Non c’è stato mai nessuno che, come artisti dell’estero hanno fatto, mi dicesse “la tua roba è fighissima, lavoriamo insieme”. Al massimo ti fanno i complimenti, ma finisce lì. Anche perché molti qui hanno l’etichetta discografia dietro, che ha il proprio grafico, che si occupa totalmente dell’aspetto visivo. In America funziona diversamente, ma anche all’estero in generale, è l’artista che decide di volere qualcuno a lavorare con lui e tutto il team lo segue e segue anche te. Qui in Italia devi prima farti vedere dall’etichetta, poi dal manager… È un percorso totalmente opposto. All’artista a volte ci arrivi per ultimo.

R.: Prima hai accennato una breve descrizione della tua Supreme Art, voglio chiederti qualcosa in più a riguardo. Hai avuto qualche tipo di ispirazione – che ne so, un singolo artista oppure una determinata corrente?

A.: L’ispirazione fondamentale in realtà parte dalla musica, non parte da un paesaggio, un artista che posso avere come riferimento o altro. Principalmente è la musica, ascolto soprattutto rap quindi l’ispirazione mi arriva da quel genere; ecco perché il soggetto principale delle mie opere è quasi sempre un rapper. Lavorando con questo metodo qui, è molto difficile per me cercare ispirazione in altri artisti. Molti riferimenti per me, a livello personale, sono stati illustratori; non della scuola tradizionale però, quanto più innovatori come McFlyy – illustratore e grafico americano. Anche i fumetti in generale rientrano tra le fonti d’influenza – manga, comics e quant’altro – cerco di mischiare quell’immaginario cartoon con delle atmosfere quasi horror a volte, cercando di creare qualcosa di mio, di unico. Le tonalità che caratterizzano l’esplosione di colori presente in una mia opera spesso vengono ispirate direttamente dal lavoro del rapper, in un certo senso affianco un colore all’artista e ce lo immergo. Punti di riferimento principali quindi McFlyy sicuramente, tra gli artisti un po’ più tradizionali invece ti direi, ad esempio, Gauguin – che a livello concettuale mi fa impazzire. L’arte che io faccio, rispetto al lavoro artistico di qualcuno che fa esibizioni nelle gallerie, è tutto un altro discorso. Io sono inserito in un ambiente più “social”, più moderno – secondo me è qui il futuro, un social network ti da l’occasione di sfondare come artista. Per come lavoro io non è la galleria a darmi questa chance; l’esibizione potrebbe essere un passo successivo, un livello più elitario che sicuramente mi piacerebbe concretizzare. Per chiudere il discorso quindi, molta ispirazione arriva dalla musica, non da altre forme d’arte. In un certo senso sono io stesso la mia fonte d’ispirazione, detta con un po’ d’egocentrismo (sorride, ndr).

R.: Anche perché, come dicevamo prima, l’arte non ha mai fatto parte del tuo percorso accademico – nasci sostanzialmente come autodidatta…

A.: Esatto, totalmente autodidatta, non c’è un percorso tradizionale di studi dietro. Io mi definisco un artista a 360°: ora come ora vedi che Alvaanq funziona con l’illustrazione digitale, però posso dirti che io lavoro anche con bombolette, con la matita, con la scultura… Anche con una sedia, raschiando i disegni dal pavimento (non c’è ironia nel modo in cui me lo dice, ndr). Qualsiasi cosa mi capiti tra le mani, io cerco di interpretarla a modo mio, portandola nel mio mondo artistico; ecco perché artista a 360°. Ultimamente sto lavorando con Photoshop, ma uso anche Illustratore, l’iPad Pro… Posso dirti che in tanti disegni – addirittura alcuni dei più apprezzati – c’è di mezzo Paint. Insomma, non ho uno schema fisso che mi porta ad avere un modus operandi fisso: se voglio usare prima Paint parto da quello, oppure da uno schizzo a matita scannerizzato, poi aggiungo Illustrator e via via. Questo in parte è dovuto proprio al fatto di non aver avuto una formazione accademica che mi guidasse all’approccio al lavoro – c’è molta improvvisazione sul pezzo. Di solito dedico alla progettazione di un lavoro – nel senso di pensare a come realizzarlo – circa una settimana o dieci giorni: una volta chiaro il concetto nella mia testa, posso realizzarlo e concluderlo anche in una sola giornata, in 7/8 ore. Non ho bisogno di due o tre mesi per una singola opera, anzi. Mi piace lavorare nell’immediato: una volta finito di pensare a come dargli vita, voglio buttarmi sul lavoro subito, anche perché in caso contrario la testa inizia a dirmi “ritocca questo, ritocca quello” e il lavoro perde di spontaneità. Quando sono carico a livello mentale, devo iniziare subito.

R.: Quindi per te la parte più impegnativa è l’elaborazione concettuale.

A.: Esatto, quella è senz’altro la parte più lunga del percorso. Questo perché metto il massimo sempre, in ogni lavoro: cerco quindi di pensarlo al meglio, di visualizzare anche cosa può piacere al soggetto, al cliente interessato. Prendo tutti questi ingredienti e cerco di realizzare un piatto in grado di soddisfare principalmente me come artista, ma anche il cliente. Sì, magari ci sono clienti che ti lasciano carta bianca e ti dicono “fai tu”; io però preferisco sempre incontrarli per capire le loro preferenze, dalle forme ai colori. Non dei paletti rigidi, ma qualche indicazione per farmi creare qualcosa che soddisfi anche te. Non deve piacerti solo perché porta la firma di Alvaanq e quindi deve andarti bene. A me piace unire entrambe le parti, sia l’artista che il cliente – per avere un filo rosso in grado di unire entrambi gli immaginari.

R.: Il fatto che tu abbia lavorato sia con italiani che con stranieri, e il modo in cui ne parli, mi fa capire che ci sono delle differenze sostanziali nel modo in cui si approcciano al tuo lavoro, e soprattutto il modo in cui questo viene considerato. All’atto pratico però, con chi ti trovi meglio a lavorare e per quali motivi?

A.: Guarda, in realtà mi trovo a lavorare bene con chiunque, perché la richiesta di un cliente – che sia straniero o italiano – ha sempre lo stesso fine, il mio approccio non cambia, cerco sempre di soddisfarla tramite la mia arte. Con l’estero c’è poi un altro discorso, mi ci posso trovare bene perché sono io il primo ad essere preso bene dal lavorare con un nome grosso, cerco di superarmi perché ci sono anche più possibilità che il mio lavoro giri in un circuito più grande, internazionale. In Italia invece, anche se la qualità è elevata, il lavoro rimane confinato sul territorio nazionale. A livello lavorativo l’artista italiano si rivela più puntiglioso: prova a contrattare, a scendere a patti, fino ad arrivare a volte a chiedere di rifarlo da capo, perché non rispecchia ciò che aveva in mente. Un po’ più cagacazzi, mettiamola così. L’artista americano invece – così come giapponese, coreano o più semplicemente estero in generale – è molto più alla mano, ti lascia a briglia sciolta, ti dice “fai tu”. Per questo prima ti dicevo che lavorare in Italia comporta belle difficoltà, devi sputare sangue, devi fare i salti mortali per poter piacere e arrivare in alto. All’estero c’è una meritocrazia diversa, del tipo “oh sei bravo, fammi questo lavoro, come lo fai mi piace”.

R.: Quest’attitudine un po’ più perfezionista che abbiamo in Italia, sa essere uno stimolo per migliorarsi?

A.: A me piace, assolutamente, ti porta non ti dico alla perfezione, ma a perfezionare ogni lavoro. Grazie all’esperienza ottenuta con i clienti italiani, a prescindere da chi sia il committente – estero o nostrano – tendo a ragionare molto di più sull’opera che devo realizzare, importando quindi questo modo di fare “made in Italy” anche nelle relazioni con l’estero. Se un artista americano mi dice “fai tu”, tendo ad arricchire il confronto per avere più dettagli, per capire meglio i suoi gusti, in modo da realizzare l’opera perfetta per le sue necessità. Funziona meglio, l’ho riscontrato parecchie volte. Qui sudi, sudi tantissimo, ma se riesci ad arricchire il tuo bagaglio di skills personali con questo tipo di approccio, una volta valicati i confini nazionali sei tu a far sudare gli altri, a mettere in difficoltà la concorrenza.

R.: Passiamo a quella che è probabilmente la domanda più spinosa di tutte: quanto è difficile vivere della tua arte?

A.: Ovviamente nel tempo c’è stata una bella crescita, passi dai lavori super-economici per committenti di qualunque livello a lavori decisamente costosi per clienti decisamente famosi. La crescita economica la noti giorno dopo giorno: la mia vita, detto sinceramente, è cambiata. Se inizialmente il tutto si riduceva a non chiedere più soldi in famiglia, sono arrivato ora ad un punto in cui sono completamente indipendente, un grande passo dal punto di vista personale; come te ho 22 anni, sai bene che essere indipendenti dai genitori a quest’età non è cosa da poco. L’arte può indubbiamente farti guadagnare molti soldi, però devi essere bravo a muoverti: devi saperti proporre, ti interfacci con persone che hanno più anni di te e soprattutto più esperienza; possono incularti da un momento all’altro se non sei pronto. Dal punto di vista personale e della capacità di relazionarmi lavorativamente, l’Italia mi ha formato alla grande – dal punto di vista economico però siamo ancora indietro, soprattutto nel mondo della musica. All’estero le cifre sono diverse e soprattutto si deve contrattare molto raramente. Da noi siamo molto più tirati, si cerca di grattare via il più possibile, ma anche in questi casi si tratta di esperienze che ti formano, perché ti confronti con professionisti che sono veri e propri squali del settore. Diciamo più che altro che ti costringe ad imparare e ad ingegnarti, perché nessuno ti insegna nulla in realtà. Io ho commesso molti errori dal punto di vista economico, nessuno ti regala nulla, anzi; però alla fine ho capito come e quando stare più attento.

R.: Diciamo quindi che se all’estero l’essere un bravo artista è di per sé un ottimo punto di partenza, in Italia devi essere anche un bravo manager di te stesso.

A.: Esatto, in Italia devi essere proprio un bravo manager di te stesso. All’estero nel momento in cui hai talento, vieni subito catalogato come artista e arrivano quindi i primi contatti. In Italia molto si basa sul passaparola – “io conosco quello che conosce quell’altro, quindi tu non mi servi perché ci pensa lui”. Tutto si lega ad un giro di persone e contatti, si tratta però di un modo di fare che non è circoscritto al panorama artistico, è proprio un modo di fare italiano. Il problema vero è che spesso questo tipo di raccomandazioni prescindono dalla qualità effettiva del lavoro, rendendo queste reti sociali più dannose che utili. All’estero invece viene prima la qualità; se non sempre, per lo meno la maggior parte delle volte.

R.: Se potessi invece scegliere due nomi con i quali non hai ancora lavorato – uno statunitense e uno italiano – quali sarebbero questi due artisti?

A.: In America sicuramente Travis Scott, senza dubbio. Per me rappresenta l’apice, anche se indubbiamente sarebbe molto difficile. Il suo immaginario si sposerebbe benissimo con la mia arte, però per il momento si sta muovendo sul filone della fotografia con effetto vintage/retrò, i fotografi si stanno prendendo tantissimo spazio nelle copertine, come succedeva agli inizi in realtà. Diciamo che scelgo lui per ammirazione mia, ha una cura nella creazione dell’immaginario legata proprio alle sue idee – per dire, Travis Scott cura, Drake è curato, giusto per fare un paragone. Sull’italiano invece mi metti in difficoltà, ce ne sono diversi; mi piacerebbe Salmo, ma per fare un cosa totalmente diversa da ciò che ha già tirato fuori, prima con Frenk e poi con Moab. Non vorrei collaborare solo ad un singolo, ma un progetto intero, una roba mai vista. Per dirti – puntando in alto eh – qualcosa come quello realizzato da The Weeknd con la Marvel, una fusione tra arte grafica e musica ai massimi livelli. Ecco, mi piacerebbe realizzare qualcosa di simile in Italia, con un rapper – principalmente perché la musica è la mia fonte d’ispirazione per eccellenza.

R.: Un altro nome che vedrei particolarmente bene legato al tuo stile è Achille Lauro, che ne pensi?

A.: Guarda, me lo dicono in tanti sai (sorride, ndr)? Vedremo, in realtà mi piacerebbe davvero lavorare con qualcuno che ormai è una vera e propria icona – ecco il perché di Salmo – se invece volessi legarmi a qualcuno in forte ascesa, indubbiamente Lauro sarebbe una scelta perfetta. In Italia però vedo una situazione tendenzialmente di stallo, non vedo nomi in fortissima ascesa dal nulla – forse Drefgold, ma onestamente perché lo stanno spingendo davvero tanto… Quindi resto con la mia prima opzione, Salmo, è un vero e proprio camaleonte stilistico.

R.: Ultima domanda: puoi spoilerarci qualcosa dei prossimi lavori che porteranno la tua firma?

A.: Guarda, ho staccato un po’ la testa dal mondo della musica, perché – come ti dicevo – il trend al momento è un altro, come artista non mi sento parte di quest’ultimo. Prossimamente quindi usciranno diversi lavori con Nike – nulla a che vedere con Nike Sportswear, sarà una collaborazione su Nike Running. Sto ampliando i miei orizzonti verso il mondo delle aziende, però ti dico che qualcosa legato al mondo della musica uscirà comunque, ma non posso spoilerare nulla per ora (sorride, ndr).