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Ensi: l’intervista

30-08-2017 Marta Blumi Tripodi

Ensi: l’intervista

C’è un motivo se film, libri, social e immaginario comune descrivono il periodo precedente all’uscita di un album come un momento epico: perché lo è. Soprattutto se la posta in gioco è alta, se è passato un po’ di tempo dal tuo ultimo disco, se sei abituato a dare tutto te stesso quando scrivi e registri un pezzo, e se sai di rappresentare qualcosa più che un semplice rapper su un semplice palco, ma l’integrità, i valori e il modo di pensare di un intero movimento. Non c’è da stupirsi, quindi, se quando incontriamo Ensi in un caldo pomeriggio d’estate, l’atmosfera sia incendiaria non solo per la temperatura esterna che sfiora i 40 gradi. V è un disco importante, in tutti i sensi: lo è per il diretto interessato, lo sarà per i seguaci dell’hip hop (che potranno ascoltarlo da domani, 1 settembre, giorno della release date) e lo è anche per noi che abbiamo già avuto occasione di sentirlo in anteprima per preparare questa intervista: anche se artisticamente Ensi ha piazzato l’asticella molto in alto fin dagli esordi, se possibile stavolta si arriva a vette ancora più elevate. Merito del sound, solidissimo ma contemporaneo, in grado di conquistare il cuore sia dei puristi che degli innovatori; di una abilità tecnica continuamente affinata; di argomenti che vanno ben oltre le punchline per cui è osannato da sempre. (Continua dopo la foto)

Blumi: Dal 2014, anno del tuo precedente album Rock Steady, nel rap italiano è davvero cambiato tutto. Com’è, per te che hai sempre rappresentato orgogliosamente la tradizione dell’hip hop, uscire con un nuovo disco in un periodo del genere?

Ensi: Com’è te lo saprò dire il 2 settembre, il giorno dopo la release date! (ride) Anzi, probabilmente ci metterò anche di più, perché per quanto le vite degli album ormai siano molto brevi, le somme si tirano dopo un po’. Posso dirti come mi sento adesso: c’è un po’ di tensione nell’aria, ma sono tranquillo. Penso che essere rimasto una persona coerente, sia musicalmente che a livello di valori, con il tempo mi stia premiando. È un momento particolare nella storia dell’hip hop italiano, c’è una nuova generazione che ha preso piede – ed è giusto e doveroso che sia così – che ha tanti punti di forza, ma anche tante carenze e tante lacune. Molti lamentano una povertà di contenuti e una scarsa attinenza con quello che da sempre è l’hip hop. E il mio disco spero che possa in qualche modo colmare quelle lacune. V non è un album backpacker, non mi sono seduto sul fatto di essere un personaggio già consolidato: avrei potuto farlo, ma quello non è il mio gioco. Il mio gioco è quello di essere competitivo nel 2017. E mi è riuscito relativamente facile, perché le sonorità che vanno per la maggiore oggi mi piacciono, quindi non è stato un “sacrificio”. Il risultato è un album piuttosto vario: c’è The Night Skinny con i breakbeat e le 808, ci sono i Ceasars con i sample strani e le batterie a 120 BPM, c’è Low Kidd con quello che tutti chiamano trap… Ma il filo conduttore resta il mio rap. Per me esiste solo un rap, quello fatto bene. Ed è quello che voglio continuare a fare.

B: Uno degli aspetti più riusciti di V, in effetti, è proprio il tuo restare te stesso nonostante i continui cambi di sound…

E: Quello è perché io sono un fan dell’hip hop, di TUTTO l’hip hop, e da lì non si scappa. Mi ascolto tonnellate di dischi, da Pusha-T a Travis Scott passando per Jay-Z e Nas. Lo faccio per informarmi, per fare una scrematura di ciò che vale la pena tenere. C’è un solo parametro immortale per me, ed è quello dell’hip hop: non cambierà mai, sarà sempre uguale anche tra vent’anni, non puoi spostarlo di un millimetro. Non parlo di sound o di un certo tipo di messaggio, ma di spessore, di contenuto, di valore artistico. Nel rap ci sono sempre state delle correnti, che arrivano e portano con sé delle novità: mi ricordo il crunk dei primi anni ’00, ad esempio, o l’ondata dubstep degli anni ’10. Basta non farcisi ingabbiare: guarda Salmo, molti pensavano che sarebbe rimasto intrappolato nelle sonorità della dubstep, e invece essendo un rapper con le palle quadrate ha saputo evolversi e creare un suo stile indipendentemente dalle mode. La cosa essenziale è quella, secondo me.

B: Ecco, a proposito: cosa ne pensi della febbre che sembra aver contagiato tutti (in positivo o in negativo) per l’ultima corrente arrivata in Italia, quella della trap?

E: La definizione “trap” non mi piace, anche perché non significa molto: in America se dici trap, come prima cosa ti chiedono se hai del crack da vendere! (ride) Se parliamo di sound, invece, raga, mettetevi l’animo in pace: quel suono è figo. E difatti io ho voluto fare diversi pezzi adottandolo – Mezcal, Mamma diceva, Noi, Tutto il mondo è quartiere – ma spezzandolo a modo mio. Sono molto soddisfatto di quello che ho fatto a livello musicale, perché non mi sono posto limiti. Se avessi preso solo beat che suonano hip hop nella sua forma più canonica, avrei fatto sicuramente contenti alcuni, che mi avrebbero visto come l’antagonista della nuova scena. Ma io non voglio essere l’antagonista di nessuno, io faccio la mia roba.

B: Questa cosa dell’essere antagonisti a volte appartiene più al pubblico che agli artisti: vedi il caso del Red Bull Culture Clash, dove sembrava che a patire la sconfitta dei Real Rockers, più che tu e gli altri Real Rockers, fosse quel pubblico di puristi a tutti i costi che voleva prendersi una rivincita sul nuovo che avanza…

E: Certo. Ma è normale, i cambi generazionali creano sempre questo tumulto. Quando io e i miei coetanei eravamo newcomer, la situazione era esattamente la stessa. Forse per me è stato un po’ diverso, perché fin da quando ero ragazzino sono stato tirato in mezzo da veri mostri sacri, ma comunque l’andazzo era quello. Detto questo, io non voglio assolutamente contrappormi alla nuova scena: anzi, ho speso più volte parole positive nei confronti di alcuni di questi ragazzi. Però, oggettivamente, io rappresento un’altra roba, gioco un altro campionato, ho un altro ruolo. Ma non mi tiro indietro di fronte al confronto. E la risposta che ho avuto dopo l’uscita di Mezcal e Tutto il mondo è quartiere credo sia una conferma. Per quanto ci sia un immaginario predominante in questo momento in Italia, evidentemente c’è anche tanta gente che sente la mancanza di qualcos’altro: di qualcuno che fa del solido hip hop, ma in maniera innovativa.

B: Qual è stato il motore che ti ha spinto nella realizzazione di questo album?

E: La fotta, che non avevo mai perso davvero, ma che forse si era un po’ attenuata in questi ultimi anni, per questioni personali e periodi difficili che mi sono ritrovato ad attraversare. Ora, invece, mi sento davvero gasato, tanto che sto già cominciando ad accumulare materiale per il prossimo album: non credo proprio passeranno tre anni tra V e il successivo. (Continua dopo l’immagine)

B: Analizzato dall’esterno, V sembra segnare una svolta in molti sensi: oltre al sound (e anche ai visual, che sono molto diversi da quelli a cui ci hai abituato) c’è anche il fatto che è il tuo primo disco da quando sei padre…

E: Sicuramente sono cresciuto e comincio a tirare le somme, ora che ho vissuto dieci anni di hip hop da protagonista e quindici da fan. Avevo tante cose da dire, e spero che si noti. Diventare padre e fare un po’ di detox dal mondo della musica mi ha dato nuova linfa: mi ha riportato su un piano della vita molto terreno. Ho trascorso molto tempo tra la gente comune, con orari normali, andando al parco, facendo la spesa… La mia penna è stata parecchio influenzata da tutto questo. Il nostro è un ambiente che spesso ti porta a imbruttirti, è un po’ malsano: va bene vivere rock’n’roll, va bene prendersi una rivincita sul destino, ma in fin dei conti questa roba è fuffa, quello che conta davvero è ben altro. In questo senso, è un album molto onesto.

B: In alcuni pezzi questo sentimento emerge più che in altri, ad esempio in Mamma diceva: è una presa di distanze, in qualche modo?

E: Diciamo che è la mia modalità di approcciarmi alle cose. Per questo lo reputo il mio disco migliore: perché forma e contenuto combaciano perfettamente. Mi sono preso del tempo, ho vissuto, mi sono sporcato: se non lo fai, finisci per fare magari dei grandi testi rappati su grandi basi, ma senz’anima. Il che è quello che spesso sta succedendo là fuori. Sia chiaro, non me la prendo con gli stili nuovi, ma con chi copia senza avere un’idea o uno spunto. Quando in Mezcal dico “Guardala dall’alto come i droni sul quartiere”, ad esempio, me la prendo con una tendenza sempre più diffusa: tutti, oggi, fanno video con i droni che sorvolano il quartiere. Ma quell’immaginario lì è già visto, già fatto, già detto, io voglio qualcosa di nuovo. Tolti i capostipiti – parlo dei vari Ghali, Sfera, Izi, Rkomi, Vegas Jones, Lazza… – che rispetto davvero anche se sono molto diversi da me, tutti gli altri si rifanno a un modello che ha lanciato qualcun altro. Non ce l’ho con loro, ce l’ho con la situazione in generale, con questo modo piatto e uniforme di fare musica-fotocopia. Sarà che ho più di trent’anni e quindi non me la bevo: molti di questi ragazzi sono troppo giovani per aver vissuto le esperienze di cui parlano, quelli davvero titolati a raccontare storie di strada sono pochi, pochissimi. E anche se lo sei, non mi colpisce più di quel tanto sapere quanti chili di erba muove il tuo amico, quante penne fai col motorino, quanta rivalsa ti sei preso mollando un lavoro del cazzo e facendo i soldi con il rap. Ma non mi colpisce neanche l’estremo opposto.

B: Cioè?

E: Preferisco i ragazzi nuovi che fanno robe nuove, piuttosto che i ragazzi nuovi che giocano a fare i vecchi facendo i nostalgici e appropriandosi di epoche che non hanno mai vissuto. Quelli mi stanno proprio sul cazzo. Non hanno quel background ed è impossibile che venerino davvero dischi e stili così lontani da loro: un conto è che li apprezzino musicalmente, un conto è che preferiscano ascoltarsi quelli rispetto a cose più in linea con la loro realtà. Se un ragazzino di sedici anni mi viene a dire che i Run-D.M.C. sono il suo gruppo preferito, c’è qualcosa che non va. Se sei cresciuto negli anni ’10 di questo millennio, come puoi prendere a modello artisti che sono cresciuti negli anni ’80 del secolo scorso? (Continua dopo la foto)

B: Tornando alla vita reale che ha ispirato molte tracce dell’album, non hai avuto paura di essere troppo “terra-terra” rispetto ai tuoi colleghi?

E: È una questione di imprinting. Il rap da cui ho imparato a fare rap, quello che mi ha cambiato la vita e mi ha fatto innamorare di questa cosa, era così. Non ho mai fatto una canzone tanto per fare, anche quando si trattava solo di punchline. L’hip hop mi ha parlato, mi ha fatto sentire parte di qualcosa. Sento l’esigenza, come artista e come persona, di fare musica in questo modo. Di fare qualcosa che rimanga. E infatti questo disco lo riascolto volentieri, credo che continuerò a esserne fiero negli anni.

B: Tu sei uno che si riascolta, di solito?

E: Non sempre. Con quest’album però mi è capitato spesso, magari per farlo sentire ad amici che sono lontani geograficamente. Mi ha sempre fatto un bell’effetto: com’è normale ci trovo dentro anche dei difetti, ma sono contento di come è uscito. È il disco di un trentenne che non gioca a fare il ventenne. Ero un ragazzino che non sognava neppure di fare il rapper per lavoro, o di fare un disco d’oro, o di arrivare da qualche parte con la musica. La massima ambizione, per noi, era vederti arrivare un Bassi Maestro o un Kaos a dirti che la tua roba spaccava. Forse, in questo senso, una delle cose più belle che mi è capitato di fare è stato la voce narrante del documentario Numero Zero: per chi, come me, arriva dalle ceneri degli anni ’90, è come un cerchio che si chiude. Il coronamento di più di dieci anni di sbattimenti.

B: E i prossimi dieci come te li immagini, invece?

E: Sicuramente a fare il papà, che è un’attività che mi piace e mi impegna molto. E sicuramente a rappare: se penso a Fabri Fibra, che ha quarant’anni e ancora fa il rap, credo di avere davanti almeno altri dieci anni di carriera al microfono. Poi chissà, magari mi rompo le palle prima e mi metto a fare tutt’altro! (ride) Un’attività che mi piacerebbe coltivare è quella di mettere dischi, già lo sto facendo ogni tanto.

B: Non hai mai la tentazione, come stanno facendo molti tuoi colleghi, di lanciarti in progetti paralleli al di fuori della musica?

E: In questo periodo storico differenziare il business è fondamentale, se fai due soldi dalla musica reinvestirli in qualcos’altro è un’idea saggia. E ogni carriera è ciclica, a meno di non fare il camaleonte e reinventarsi continuamente: non credo ci sarà un nuovo Vasco Rossi, perfino un Tiziano Ferro (per dire un nome vicino alla nostra generazione e validissimo) avrà difficoltà a raggiungere quel livello. Figuriamoci nel rap. Allo stesso tempo, però, vedo leggende dell’hip hop italiano come Kaos o i Colle Der Fomento raccogliere ciò che hanno seminato più adesso che negli anni precedenti, perciò non mi scoraggio. La scena sta crescendo, quindi la mia speranza è che continui ad essere florida permettendo a tutti noi di avere un futuro nella musica. Però non ho la sfera di cristallo: mi riesce già difficile pianificare le cose giorno per giorno, figuriamoci guardare così lontano. Cerco di essere concreto anche in questo: in fin dei conti il nostro mestiere è anche vendere dischi, e possiamo parlare dell’hip hop e della sua bellezza fino a domattina, ma se non arrivano i risultati anche in termini di numeri, rischiamo di chiudere tutti bottega.

B: A proposito di numeri e vendite, come ti rapporti al pubblico di oggi, che è completamente diverso da quello che era anche solo cinque anni fa?

E: Noi eravamo proprio su un altro pianeta. Eravamo in pochi, avevamo un codice, e un timore reverenziale nei confronti dei nostri idoli: dalla prima volta che ho incontrato Kaos alla prima volta che ci ho parlato saranno passati sei anni. Magari era eccessivo anche quello, però era normale, in un periodo in cui tutto ciò che ti arrivava dovevi essertelo scavato e coltivato da te. Compravo Aelle, mi duplicavo le cassettine dai miei amici, prendevo il treno e venivo a Milano per frequentare luoghi di culto come lo Showoff e la Fortezza delle Scienze, il mitico studio che aveva aperto Bassi, dove abbiamo registrato il nostro primo disco come One Mic con un’emozione pazzesca, perché era un tempio dell’hip hop. Non tutto era alla portata di tutti, c’era una specie di selezione all’ingresso. Anche perché essere come noi non faceva figo: dovevi avere un carattere forte e le mani che volavano svelte, per sopportare tutti i rompimenti di coglioni e le prese per il culo. Quelli come noi li riconoscevamo da come si vestivano, e allora timidamente ci avvicinavamo per fare amicizia, quasi in segreto. Sembravamo una community di drogati che stavano cercando una dose! (ride) Questo ci ha dato un grande senso di appartenenza, mentre la generazione di oggi gode del fatto che il rap è già sdoganato, ascoltarlo è la normalità.

B: Qual è il bilancio, quindi? Si stava meglio quando si stava peggio?

E: Difficile a dirsi. Da una parte per i ragazzi di oggi è tutto più facile, dall’altra è più difficile, perché c’è una sovraesposizione di ‘sta roba e se hai del talento devi sgomitare molto di più per emergere. Oppure devi sperare nell’aiuto di qualcuno più grande e famoso di te, che ti aiuti a venire fuori, altrimenti rischi di cadere nel dimenticatoio dopo poco o niente. Per me è bellissimo vedere tutto il seguito che ha la scena oggi, se ami l’hip hop non puoi non essere contento di come stanno andando le cose.

B: Pensi mai a diventare anche tu un mentore, uno di quelli già famosi che aiutano gli emergenti a venire fuori, appunto?

E: Negli anni credo di aver dato molto sostegno a persone che poi hanno fatto grandi cose. La prima volta che ho contattato Salmo Rancho della Luna era ancora praticamente sconosciuto, ma era già evidente quanto spaccava. Mi ero andato a cercare qualche info su di lui, e avevo trovato una cosa che aveva scritto: “Noi di Machete veniamo dall’hardcore, e lì è una pratica comune fare scambio di date. Nel rap se la menano tutti, nessuno vuole farlo”. Così gli ho mandato un messaggio chiedendogli il numero, l’ho chiamato e l’ho invitato a un evento che stavamo organizzando al Leoncavallo. Con questo ovviamente non voglio dire che l’ho scoperto io! (ride) Però nel mio piccolo ho sempre dato credito a chi davvero vale. Per tornare alla tua domanda, sì, potrei, se trovassi la lucidità e il tempo per farlo, ma per ora non ho questa velleità. Anche perché questa nuova generazione è molto autonoma: è raro trovare qualcuno che abbia davvero voglia di seguire i consigli di chi è più grande di lui. Difficile dar loro torto: oggi come oggi, appena hai un minimo di visibilità vieni bombardato da proposte di contratto con realtà enormi, perché dar retta ad altri? Non ho la presunzione di dire che so cosa è meglio per loro. Anzi, dal punto di vista della comunicazione forse è la mia generazione che dovrebbe imparare qualcosa da loro.

B: Ora che V sta finalmente per uscire, come la vedi?

E: Solita trafila: una lunga serie di instore, delle date dal vivo, la promo… E poi voglio proprio vedere cosa succederà, sono davvero curioso. Per ora vedo un grande hype rispetto ai primi singoli, ma uscire con un disco del genere nel 2017 è un bel salto nel vuoto. Da una parte mi sento molto sotto pressione, come se non avessi mai fatto un album in vita mia! Però me la sto vivendo bene, in maniera molto consapevole. Sono sicuro del valore di quest’album. Mi piacerebbe davvero che tutto quello che ho dato negli anni (in termini musicali, per la scena, per la cultura hip hop: non sono uno di quelli che ha guardato solo al suo orticello) mi tornasse indietro. Ma sono pronto a tutto, non c’è problema: ho i piedi per terra e le spalle larghe.