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Moder: l’intervista

19-12-2016 Marta Blumi Tripodi

Moder: l’intervista

Nella carriera (e nella vita personale) di un artista, ci sono dischi che pesano molto più di altri. Dischi che magari nascono quasi per caso, come se fossero già scritti nel destino; dischi capaci di cambiare il corso di un’intera carriera e la percezione che abbiamo di quell’artista. E’ il caso di Moder, da sempre considerato uno dei rapper più solidi della penisola, ma che forse finora aveva faticato a trovare la sua dimensione e a emergere con la sua personalità distinta in un panorama affollato da colleghi altrettanto bravi. Con 8 dicembre, però, ha spiccato il volo e si è alzato di diverse spanne rispetto a gran parte della concorrenza: e questo perché ci ha messo tutto se stesso, la sua storia, la sua anima: lacrime e sangue, letteralmente. A partire dal titolo, perché l’8 dicembre è sia il compleanno di Moder che la data in cui suo padre è morto, quando era ancora giovanissimo. Insomma, non c’è nulla di scontato o banale in quest’album, sia per quanto riguarda i temi che la lavorazione: lo abbiamo raggiunto al telefono nella sua Ravenna per parlarne.

Blumi: Un disco come 8 dicembre, nella forma e nel contenuto, era abbastanza inaspettato da parte tua: come nasce l’esigenza di un progetto così?

Moder: Nasce abbastanza casualmente: non sono uno da concept album, anzi, faccio musica in maniera istintiva, anche se la mia scrittura è molto meditata. Si può dire che nel processo di realizzazione di quest’album io abbia abortito almeno altri otto dischi, comunque… (ride) All’inizio avevo provato a fare un Sottovalutato parte 2, ma non trovavo mai la quadra, perciò ho deciso di abbandonare l’idea e di limitarmi a scrivere i pezzi che mi sentivo di scrivere. Un giorno è venuto fuori Mauro e Tiziana, ed è stata quella traccia a cambiare tutto. Dopo quella ne ho scritte altre 35, e in ognuna ci infilavo involontariamente dentro qualche cosa che richiamava a Mauro e Tiziana, come atmosfere o come contenuto. A quel punto ho deciso di seguire il flusso: ci ho messo un po’ (l’album l’ho realizzato in tre anni) ma credo fosse la cosa giusta. Mi sento come se fosse il mio primo disco sia in termini di ansia che in termini di fotta, per certi versi mi sento tornato ai tempi del Lato Oscuro della Costa: è stato come chiudere un cerchio rispetto al mio percorso fino ad ora. Anche la presenza di musica suonata è da leggere in questo senso: per il tipo di lavoro che faccio (Moder gestisce il Cisim, uno dei più interessanti laboratori culturali e aggregatore di eventi della zona di Ravenna, ndr) ho sempre fatto il fonico, e ho anche lavorato a un precedente progetto teatrale con molti strumentisti. La musica suonata fa parte del mio mondo, sia artisticamente che nella vita di tutti i giorni, era normale che rientrasse in questo disco.

B: Com’è stato buttare fuori questioni così intime e personali del tuo passato, che come abbiamo imparato dall’ascolto del disco è stato molto difficile? Non tutti l’avrebbero fatto a cuor leggero…

M: Quando ho scritto Mauro e Tiziana avevo talmente tanto bisogno di registrarlo che sono corso in studio la mattina dopo: quell’urgenza mi ha in qualche modo alleggerito, perché in quel momento non pensavo ad altro. Naturalmente, però, dopo è scattata la produzione vera e propria del disco, che consisteva nel riascoltare i pezzi mille volte, limarli, scegliere l’arrangiamento e il mix… Man mano che risentivo i pezzi cresceva l’ansia, perché in effetti mi stavo esponendo molto. L’ho scritto anche nel booklet: dicono che i dischi oggi siano solo biglietti da visita, ma nel mio caso 8 dicembre è una carta d’identità completa di fotografia. Poco prima della pubblicazione ero molto teso: ero sicuro di volerlo fare uscire, però mi chiedevo se magari non avessi esagerato. Poi però l’ho fatto sentire a mia mamma per la prima volta: non mi ha detto niente ma aveva le lacrime agli occhi, era felice. E in quel momento finalmente mi sono rilassato! (ride)

B: Cosa penserà secondo te tua figlia, invece, quando crescerà e ascolterà l’album?

M: Chissà! Spero che le serva per capire meglio suo padre. A me sarebbe molto piaciuto parlare con il mio babbo, sapere com’era e cosa faceva: purtroppo non posso più farlo. In compenso parlo sempre con persone che lo hanno conosciuto bene, e mettendo insieme i pezzi viene sempre fuori un insieme di personalità diverse, che cambiano a seconda dell’interlocutore. Con questo disco, invece, mia figlia avrà per sempre una fotografia molto chiara che rappresenta chi sono stato in questo periodo della mia vita.

B: Tra l’altro, il tuo modo di scrivere è cambiato da quando hai avuto una bambina (ad esempio, essendo lei femmina ti poni più problemi a usare un certo tipo di linguaggio, come è capitato a molti altri tuoi colleghi)?

M: Un figlio ti cambia sicuramente in tutti i modi. Chiaramente per un maschio è sempre un po’ strano avere una figlia femmina: ne sei davvero innamorato! (ride) Però credo che il mio modo di scrivere sia ancora lo stesso. Qualcos’altro è cambiato, però: mi sto impegnando mille volte di più nel rap rispetto a quanto facessi prima – e già prima lo facevo parecchio – concentrando le cose e rispettando le scadenze, perché tutto il tempo che passo fuori casa deve avere un senso. Se devo stare lontano da lei per suonare o per stare in studio, dev’essere per qualcosa di importante e dev’essere per il minor tempo possibile.

B: Tornando all’album, in copertina c’è una fabbrica: cosa rappresenta per te?

M: È il famoso polo petrolchimico di Ravenna. Per me è come un monumento, mi ha sempre affascinato molto, anche perché non essendo originario di qui, quando mi sono trasferito attorno ai 15 anni è stata la cosa che mi ha colpito di più. Soprattutto il contrasto con la natura intorno, perché una fabbrica che produce nerofumo e ammoniaca circondata da paludi incontaminate non si vede tutti i giorni. Ci ho anche lavorato un’estate mi ha aiutato a capire quello che volevo dare nella vita. Se ho iniziato il mio percorso artistico lo devo molto anche a quei tre mesi passati lì dentro non ero tagliato per quel lavoro ma parlavo la stessa lingua di chi ci lavorava: stando lì entri a contatto con un’umanità che normalmente non vedi, un’umanità reale, con cui ho molto a che fare. Per tanto tempo non ho capito e ho odiato quel mondo ora in qualche modo ci ho fatto pace.

B: Restando sempre sulla copertina, hai voluto esplicitare anche lì che tutto l’album era stato creato in collaborazione con Duna…

M: L’ho fatto in maniera molto spontanea: a fine lavorazione, quando avevo già le grafiche pronte e la tracklist definitiva, l’ho riascoltato tutto e mi sono ritrovato a ripensare a come era nato. Duna è stata la persona che mi è stata accanto in ogni fase, aiutandomi a trovare il suono giusto, a riarrangiare ogni singolo beat, a concepire il progetto. Sono dieci anni che collaboriamo, anche se finora aveva firmato gli album solo come fonico: questa volta però aveva fatto molto di più e mi sarei sentito in torto se avessi scritto che era solo farina del mio sacco. Senza la sua mano e la sua mente, il disco non sarebbe senz’altro uscito così.

B: In effetti 8 dicembre sembra il frutto di un lavoro molto complesso…

M: Mi sono circondato da una squadra di persone che mi hanno consigliato durante tutta la lavorazione dell’album, e che mi hanno aiutato a tradurre le mie idee in musica (purtroppo non so suonare nessuno strumento). Anche in questo caso, Duna è stato fondamentale: quando gli ho portato i provini definitivi mi ha fatto notare che c’era ancora qualcosa di incompleto. “Se vuoi fare un demo, vanno bene così. Se invece vuoi fare un album, perché non lo facciamo davvero?”, mi ha detto. Sostanzialmente è stato un lungo lavoro di continui aggiustamenti in corsa, e credo che continuerò con questo metodo anche per i miei prossimi progetti, perché mi sono trovato molto bene. Non mi piace quando un producer ti impone un suono: preferisco quando mi propongono degli input che posso personalizzare a modo mio. Altrimenti è solo mettere una strofa su un beat, e non fare musica. Dobbiamo iniziare a pensare al rap come a un genere musicale che ha degli stilemi, ma che va declinato in vari modi a seconda dell’mc.

B: Come si traduce un disco del genere nella dimensione live, tra l’altro?

M: Mi sarebbe piaciuto moltissimo portare dei musicisti con me, ma purtroppo al momento non c’è il budget per farlo, quindi andrò in giro con dj 5L, che è un mostro dei giradischi (è membro di Alien Army, ndr) e con cui nel tempo sono sicuro che costruiremo un live massiccio e compatto. Il sogno vero sarebbe poter affiancare a lui anche un batterista e un bassista, ma c’è anche un problema logistico: chi organizza eventi hip hop tende ad andare in crisi se aggiungi qualcosa in più rispetto al solito assetto voce + dj. Non c’è la cura e la conoscenza per gestire altri generi musicali, i fonici di sala sono spesso improvvisati…

B: Ecco, visto che tu vivi la situazione da entrambi i lati, gestendo anche un locale: che consigli daresti a chi organizza live hip hop?

M: Ce ne sarebbero una marea! Il concerto hip hop è per sua natura una cerimonia che prevede una grande interazione con il pubblico, quindi nelle grandi città, dove non ci sono problemi di affluenza, è più facile che riescano bene, anche se magari gli impianti non sono granché. I problemi più grossi si riscontrano in provincia, che dovrebbe specializzarsi nella qualità della proposta, non avendo il pubblico. Curare la qualità del suono, perché è inutile andare a sentire un concerto se si sente male e se l’atmosfera non sarà coinvolgente; diversificare l’offerta, creare un cortocircuito tra artisti differenti… E evitare assolutamente di organizzare i live in discoteca: le discoteche, per come sono costruite, non vanno bene per i live hip hop. Meglio un bar, a questo punto.

B: A proposito di realtà di provincia che hanno sempre funzionato benissimo: hai pubblicato di recente una tua foto con Godblesscomputers aka Nada, e la didascalia era piuttosto misteriosa. Se uniamo questo al fatto che Il Lato Oscuro Della Costa è più volte nominato nell’album, la domanda sorge spontanea: non c’è per caso qualcosa che vuoi svelarci in anteprima?

M: Sì, in realtà abbiamo fatto una cosina insieme. Del Lato Oscuro solo io, lui e Max Penombra abbiamo continuato a fare musica, in forme diverse: Gavo fa il tatuatore e Polly fa un lavoro di tutt’altro tipo. Con Max ci vediamo sempre, perché lavoriamo insieme, mentre con Nada ci sentiamo a distanza: è stato uno dei primi a cui ho mandato il disco e gli è piaciuto tantissimo. Volevamo assolutamente inventarci qualcosa insieme, e ce la siamo inventata: potete ascoltarla sul sito di Redbull. Non svelo di più!

B: Tornando all’album, la prima traccia si intitola John Fante, che a questo punto diventa ufficialmente uno degli scrittori preferiti dei rapper italiani (già Marracash aveva intitolato uno dei suoi brani più belli Chiedi alla polvere, in omaggio a uno dei suoi libri preferiti di Fante). Perché?

M: John Fante, secondo me, lo capiscono meglio gli italiani degli americani. È uno scrittore che mi è piaciuto molto sotto un sacco di punti di vista: amo il suo rapporto non bukowskiano con l’alcol, le sue complesse figure paterne, il suo rapporto con le radici italiane… Nella vita faceva lo sceneggiatore, ma lo considerava un lavoro di serie B: il suo vero obbiettivo era scrivere romanzi. E aveva un modo pazzesco di approcciarsi al destino e alla religione, quasi al limite della bestemmia: in uno dei suoi racconti incontra una ragazza sfregiata e dice “Dio, vieni giù che ti ammazzo”, un’immagine fortissima. I suoi non sono romanzi cinematici, ma sono intricate storie di vita di una persona che vuole fare lo scrittore e nell’inseguire il suo sogno si trova in mille situazioni diverse. Non è un romanziere spigoloso e attento alla descrizione, ma è capace di sfornare immagini piene di significato, che ti trasportano immediatamente da tutt’altra parte. La stessa cosa che aspiro a fare io con il mio rap.

B: Altra curiosità: nell’album c’è un pezzo che si intitola La volpe e l’uva, che vede la partecipazione di dj West. Sempre dj West aveva collaborato anche a La cicala e la formica, pezzo di Claver Gold e Murubutu. Entrambi prendono il nome da due favole di Esopo, entrambi hanno il featuring dello stesso dj: c’è una connessione o è una casualità?

M: Nel mio caso il titolo è stato totalmente casuale, anche perché di solito i titoli li scelgo (con fatica) come ultima cosa. Di solito li invento basandomi su una barra del pezzo, e così ho fatto anche stavolta. Il mio pezzo non riprende la favola alla lettera, a differenza di quello di Claver: io parlo di quelle persone che rinunciano ai propri sogni per non chiedere troppo alla vita. Però devo dire che ci ho pensato anch’io alla connessione, anche se a posteriori: probabilmente è un tributo inconscio! (ride) Ammiro molto sia Claver che Murubutu e ascolto sempre quello che fanno.

B: A proposito, il suono di questo album non è assolutamente quello che va per la maggiore in Italia in questo momento (così come non lo è né quello di Claver Gold né quello di Murubutu). Cosa pensi della piega che ha preso il rap italiano ultimamente?

M: Il disco è un tributo a tante mie esperienze; si apre con un omaggio sonoro alla Bologna anni ’90 e si chiude con un finale – che non considero Buonanotte, perché quello è un remake di Buonanotte paranoia, ma È arrivata – che reinterpreta la trap alla mia maniera. Insomma, non mi spaventano i suoni nuovi, mi spaventa l’omologazione. La trap americana non mi dispiace, soprattutto quando è fatta da rapper davvero capaci. Cerco di badare alla canzone in sé e non al genere, e non credo sia sbagliato sperimentare anche cose diverse, purché tu lo faccia mettendoci sempre il tuo tocco personale. Il problema subentra quando i rapper si fanno definire dal suono che hanno, anziché essere loro a definirlo.

B: In che senso?

M: La cosa che più mi spaventa al momento, e lo vedo succedere parecchio tra i giovanissimi, è che se esce una cosa che funziona tutti la inseguono e cercano di rifarla uguale. È un problema molto italiano, quello di sperare che ci sia una corrente di successo che possa trascinarti con sé: qualcosa di facile e immediato che possa evitare di farti fare il lavoro vero. Tutti cercano un modo per essere popolari, e nessuno impara come si fa musica davvero. Non parlo solo di chi fa trap, ma di tutta una mentalità che spinge la gente a sedersi subito sugli allori: da quelli che vincono due battle di freestyle e quindi si sentono arrivati, a quelli che sono bravissimi a fare rap ma poi fanno i dischi male perché pensano che la loro bravura a rappare basti a spaccare. Bisogna cercare di evolversi, di migliorarsi costantemente: lo dico pubblicamente, il giorno in cui non avrò più voglia di migliorarmi smetterò, perché vorrà dire che non ho più voglia di fare musica.

B: Insomma, non ce l’hai con la nuova scena trap…

M: No, non ce l’ho con la nuova scena trap: mi colpisce il fatto che collaborino sempre e solo tra di loro, e allo stesso tempo rispetto il fatto che alcuni di loro facciano trap da sempre. Però non apprezzo la ricerca del successo fine a se stesso che spesso è legata a quell’ambiente, e penso anche che dovrebbero seriamente considerare un’evoluzione, prima o poi. Prendi il crunk, che era la grande ondata precedente alla trap che sembrava dovesse cambiare per sempre il suono dell’hip hop: tra gli artisti crunk americani, l’unico ad essere invecchiato bene è Lil’Wayne. Gli altri ormai sono superati. Questo dovrebbe far riflettere.

B: Che succede ora che il disco è fuori?

M: Come sempre usciranno altri video e diverse sorprese, e ci saranno molte date live. Non voglio più fermarmi per troppo tempo, comunque: con 8 dicembre ho finalmente trovato il filone giusto e ora voglio portarlo avanti. Il che non vuol dire che farò sempre e solo cose simili a quest’album, però mi sento più consapevole e sicuro di me: ho riscoperto la passione di fare musica anche in studio, e non voglio più rinunciarci.