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Microspasmi: l’intervista

04-07-2016 Marta Blumi Tripodi

Microspasmi: l’intervista

Ci sono dischi che fanno bene al cuore, oltre che alle orecchie: è il caso di Come 11 secondi, che fin dal titolo ti ricorda che anche se ci si perde per qualche anno, quando ci si ritrova possono anche essere passati undici anni, ma la sensazione è che siano durati solo pochi istanti. E vale sia per chi il disco lo ha fatto che per chi il disco lo ascolta, sia chiaro La sintonia musicale (e l’amicizia) tra Medda e Goedi è sempre stata leggendaria, ma sembra che in questo album l’abbiano affinata ancora di più, forse proprio perché hanno avuto molto tempo per crescere individualmente e trovare una chiave per far emergere bene entrambe le loro personalità nel progetto: Goedi è ormai un nome affermato della scena elettronica milanese, Medda non ha mai smesso di far parlare di sé in ambito rap. C’è voluto un percorso lungo e tortuoso per arrivare fin qui: una strada in salita, fatta di deviazioni senza scorciatoie, che però li hanno portati a rincontrarsi quasi per caso a un bivio, per poi decidere di proseguire insieme con la consapevolezza che il passato è quello che li ha resi quello che sono, come ben spiega il testo di Rifarei tutto. Insomma, una bella favola a lieto fine, quella dei Microspasmi, a maggior ragione ancora più lieto perché Come 11 secondi è una piccola bomba, che unisce l’originalità del sound di Goedi alla solidità del rap di Medda in una combinazione che ha fatto scuola per chi iniziava a seguire l’hip hop a fine anni ’90 e – se questo mondo fosse giusto ed equo – dovrebbe farla anche per i ragazzi di oggi. Li abbiamo incontrati dopo le registrazioni del loro live a Babylon (Radio2), che andrà in onda domenica 10 luglio e potrete ascoltare in streaming e podcast da qui.

Blumi: Partiamo dalla domanda che tutti vi avranno ormai fatto: perché vi siete presi undici anni di pausa?

Goedi: Ci siamo separati poco dopo l’uscita di 16 punti di sutura, ma con grande serenità: musicalmente volevamo intraprendere due strade un po’ diverse, perciò di comune accordo abbiamo deciso di mettere momentaneamente in pausa il progetto Microspasmi. Ovviamente, poi, la vita va avanti e tutti abbiamo i nostri impegni: passano i giorni, i mesi, gli anni, e in un attimo quella breve pausa si è trasformata in uno stop definitivo, anche se ovviamente siamo rimasti amici. Un paio di anni fa mi è capitato di accompagnare Bassi a un suo live dalle parti di Magenta, che è vicino a dove vive Salvatore (Medda, ndr). Gli ho scritto chiedendogli se gli andava di passare e berci una cosa: è arrivato, abbiamo fatto quattro chiacchiere e abbiamo scoperto che tutti e due avremmo avuto piacere di lavorare ancora insieme.

Medda: È stata una cosa molto naturale, non l’avevamo progettato: l’idea è stata “Iniziamo a buttare giù qualcosa, vediamo come va, senza fretta”.

G: E alla fine è andata bene, eccoci qui! (ride)

B: In questi ultimi anni molti veterani che tornavano con un album dopo parecchi anni sono stati bersagliati da un giudizio poco simpatico: “Tornano adesso perché il rap è di nuovo sulla cresta dell’onda”… Voi non avete mai smesso di fare musica, in realtà, ma non avete avuto paura di essere etichettati allo stesso modo?

M: Non avendo mai smesso di fare musica, come dicevi tu, non ci sentivamo toccati dal problema. Il ritorno di Microspasmi, per me, rappresentava solo la voglia di farmi produrre di nuovo da un amico.

G: Comunque chi conosce la storia dei Microspasmi sa che, volenti o nolenti, siamo sempre stati molto distanti da una sfera mainstream, che peraltro non è una cosa negativa a prescindere, sia chiaro. Siamo stati un gruppo di culto, di nicchia, che ha fatto scuola per un sacco di cose. Quindi, se mai qualcuno avesse fatto un commento del genere, l’unica risposta possibile sarebbe stata “Oh zio, ce la fai? Ti pare che possiamo essere tornati solo per i soldi?”. (ridono entrambi, ndr)

B: Tra l’altro, curiosità: perché nei titoli dei vostri album c’è sempre un numero?

M: È una cosa nata con 13 pezzi per svuotare la pista. Voleva essere una battuta, ma ha un’ambivalenza: erano pezzi che svuotavano la pista da ballo, ma allo stesso tempo svuotavano anche la scena dagli scarsi che dopo aver ascoltato quel disco dovevano ritirarsi dal rap.

G: Stessa cosa con 16 punti di sutura: erano 16 bombe, volevamo un nome che richiamasse anche la copertina in stile ospedale horror (e ancora più horror era il booklet: il sangue che vedete è il vero sangue di Medda, che gli avevano prelevato prima dello shooting).

M: Tra l’altro in quel periodo io avevo appena dovuto fare un’operazione d’urgenza, quindi mi girava in testa il concetto dei punti di sutura, anche perché avevo rischiato grosso. Rielaborando tutte queste cose è nato il titolo del secondo disco. A quel punto, per il terzo non potevamo che mantenere la tradizione.

B: La copertina di Come 11 secondi, oltretutto, è un chiaro omaggio a quella di 16 punti di sutura, giusto?

M: Certo, siamo noi invertiti, come si vede anche dai due camici di colori diversi: prima il disperato ero io, adesso è lui! (ride)

G: Il concetto è che per noi sono passati davvero 11 secondi e non 11 anni dalla copertina precedente: ci siamo teletrasportati fuori da quella sala operatoria. Era un modo per ribadire che per noi non è cambiato niente, che il nostro suono è sempre quello di prima, sempre un passo avanti.

B: Ecco, a proposito del suono dell’album: è decisamente all’avanguardia, ma non per questo è il tipico suono stereotipato che va tanto di moda in questo periodo…

M: È assolutamente voluto. Abbiamo sempre cercato di distinguerci, di non essere forzatamente “di moda”, perché sennò poi finisci per essere messo nello stesso calderone con altri centinaia di dischi e nessuno emerge davvero. Può sembrare un modo per tirarsi fuori con eleganza dalla competizione, ma non è così: a noi essere originali piace. Il processo di creazione del disco, comunque, anche in questo caso è stato molto spontaneo. All’inizio abbiamo cominciato facendo delle prove, cercando di aggiustare il tiro, ma a un certo punto ci siamo detti “Sai che c’è? Facciamo un po’ quel cazzo che ci pare!”. E visto che Diego fa anche tanta musica elettronica (Diego Montinaro, che poi sarebbe il vero nome di Goedi, è una delle figure più rispettate della scena clubbing milanese, ndr) abbiamo deciso di utilizzare questa sua vena meno tradizionale. Anche perché, qual era l’alternativa? Metterci a fare le trappate?

G: Musicalmente quello che va adesso si rifà parecchio all’hip hop americano, come è sempre stato: negli anni ’90 andava la golden age e quindi tutti cercavano di replicare quel suono, così come oggi tutti cercano di replicare la trap. Io, invece, tendenzialmente ascolto altro: Flying Lotus, la Stones Throw, Dam-Funk, la Eglo Records, Floating Points, Fatima, Flako… E di conseguenza le mie influenze sono diverse. Il risultato è un suono molto futuristico che senti a L.A. o a Londra, all’interno di piccole realtà all’avanguardia, ma magari non senti a New York o a Chicago dove l’influenza è prettamente hip hop. Sono due sport diversi, come dire.

B: La particolarità del sound è data anche dal fatto che poi si sposa a un rappato molto massiccio, classico e solidissimo: quello di Medda, che non ha modificato il suo flow per adattarlo ai beat, ma ha fatto in modo che i beat calzassero bene sul suo flow…

M: Devo dire che mi sono proprio divertito a unire le due cose! C’è un pezzo in particolare, Nell’occhio del ciclone, che era stata proposta da Goedi anche ad altri rapper , ma hanno tutti avuto qualche difficoltà a scriverci sopra per via dell’originalità e della particolarità del beat: io, invece, l’ho vissuta come una sfida molto stimolante. Un po’ come il progetto di Flying Lotus con i brani di Kendrick Lamar: amo quell’effetto di contrapposizione tra due stili diversi. Altrimenti, che noia fare sempre la solita cosa sui soliti beat. È poco stimolante.

B: A proposito, vi capita ancora di ascoltare rap italiano?

G: Molto raramente.

M: Difficilmente mi ascolto un disco intero: o meglio, magari nel tempo lo sento tutto, ma non subito. Mi basta poco per capire se qualcosa mi piace oppure no. Salmo o Jack the Smoker spaccano, punto: non ho bisogno di ascoltarli mille volte prima di capirlo. Il poco tempo libero che ho cerco di impiegarlo ascoltando cose straniere che possano stimolarmi ( anche perché c’è sempre il rischio di farsi influenzare troppo ascoltando i colleghi italiani), tipo il già citato Kendrick, J Cole o Schoolboy Q, il mio preferito. Mi ha letteralmente mandato fuori di testa.

B: Cambiando argomento, il mercato discografico italiano sembra convinto – e in effetti molti dati lo confermano – che il rap sia un fenomeno per ascoltatori giovanissimi. Di questa cosa si sono convinti anche molti rapper tradizionalmente più adulti, che cercano spesso di “svecchiare” il proprio stile proprio in virtù di questo. Voi vi siete posti il problema, quando avete cominciato a lavorare al disco?

M: Io all’inizio un po’ ci ho pensato – anche perché è evidente, non si può far finta di nulla. In Italia tutto viene filtrato dall’informazione generalista, che fa appunto passare l’hip hop per un fenomeno di costume per giovanissimi. Poi, però, mi sono detto che era meglio lasciare andare le cose per il loro verso. Come 11 secondi, probabilmente, è l’album più istintivo che io abbia mai scritto.

G: In America l’hip hop è una cosa che respiri fin dalla nascita perché lo ascoltano i tuoi fratelli maggiori, i tuoi genitori (in alcuni casi addirittura i tuo nonni). Ci sono veri e propri passaggi di consegne tra generazioni, c’è un’eredità musicale. In Italia questo ancora non succede e quindi i fatti parlano abbastanza chiaro: la maggior parte dei rapper di casa nostra si rivolgono soprattutto a ragazzi molto giovani. Forse l’unico caso è Salmo, che alza l’asticella anche a livello anagrafico: i suoi dischi sono lavori maturi, possono essere apprezzati anche da un pubblico più adulto, eppure non per questo viene penalizzato quando si tratta di fare grandi numeri tra i teenager. Certo, poi quando emergono certi fenomeni ti viene da rivalutare tutto: tipo quello YouTuber che impazza adesso, Fabio Rovazzi… Quella roba lì è evidentemente rivolta ai bambini.

M: I miei figli la cantano sempre, Andiamo a comandare! Sembra tragico, essendo loro figli di un rapper, ma è buffo: la prendo un po’ come se fosse Il coccodrillo come fa, però in versione rap… (ride)

B: Quanti anni hanno i tuoi figli, per curiosità statistica?

M: Cinque mesi, quattro anni, sei anni e dieci anni! (Seguono esclamazioni di sorpresa della sottoscritta nell’apprendere che Medda può mettere su una squadra di calcetto con i suoi bambini, ndr) Ma è normale che la cantino, non hanno le orecchie foderate di prosciutto: vanno a scuola, la sentono in giro… E il rap è molto scimmiottato, da sempre, non c’è da stupirsi che succedano queste cose.

B: Cosa succede adesso a Microspasmi? Quest’album era un evento una tantum o continuerete a fare musica insieme?

G: Lo diciamo a bassa voce perché non si sa mai, ma direi di sì. Siamo presi molto bene all’idea di fare altre cose…

M: Tutti e due, senza metterci d’accordo prima, ci siamo detti che è giunto il momento di cominciare a pensare a roba nuova.

B: E nel frattempo state anche pensando di rimettervi in pista a livello solista, per caso?

(in coro): No!

Microspasmi: Per adesso vogliamo concentrarci sui Microspasmi. Siamo molto contenti dei riscontri che abbiamo avuto finora, ma siamo soprattutto curiosi di vedere quale sarà la reazione della gente quando cominceremo a portarlo in giro dal vivo. La prima data è il 9 luglio al Magnolia di Milano, quindi non manca molto!