Il secondo disco è sempre il più difficile nella carriera di un artista, diceva Caparezza, ma a quanto pare la regola non vale per Coez. Niente che non va in realtà non è il suo secondo disco in senso stretto, ma è il secondo che pubblica dopo l’addio al rap e la svolta canora: e possiamo dire senza timori che tra tutti i rapper che si sono recentemente riconvertiti in cantautori, lui è senz’altro quello che ci è riuscito meglio. La voce è in fase di costante perfezionamento ma c’è tutta, e quanto ai pezzi, c’è stata una significativa evoluzione da canzonette a canzoni, il che è ben più di quello che sono riusciti a combinare molti suoi colleghi del pop. Insomma: si può fare, come diceva Frankenstein Junior. Passare dal fare musica hip hop al fare musica e basta non è semplice, è una strada tutta in salita, ma con tanto studio, tanto talento e soprattutto tanto, tanto sbattimento (“Non basta sbattimento se non c’hai talento, ma se c’hai talento serve sbattimento”, diceva invece Piotta) i risultati possono essere davvero sorprendenti. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Coez in occasione della sua ultima trasferta milanese.
Blumi: Dal momento della tua rinascita come non-rapper, è stato più difficile fare il primo disco o il secondo?
Coez: Entrambi, ma le difficoltà sono state diverse. Con il primo non ero abituato a quel tipo di produzione, a passare così tanto tempo in studio: Riccardo Sinigallia (il produttore di Non erano fiori, ndr) è famoso per essere molto meticoloso. Su questo disco, invece, c’è stata più una difficoltà mia a livello creativo: a metà lavorazione ho avuto un momento di blocco. Avevo molti pezzi pronti, potevo fare uscire l’album già così, ma mi sono reso conto che non ero del tutto soddisfatto del materiale, così mi sono messo di nuovo all’opera. Anche mentre stavamo chiudendo il disco, io continuavo a scrivere pezzi nuovi…
B: A proposito di Sinigallia, con chi hai lavorato per Niente che non va?
C: Su questo disco ho lavorato con Ceri, che tra l’altro nel disco precedente è stato anche uno dei compositori di Siamo morti insieme. Sull’aspetto musicale lui è preparatissimo, ma credo che non sarei riuscito a fare quest’album se prima non avessi lavorato con Sinigallia: è grazie al suo occhio critico che sono riuscito ad acquisire una maturità e un’autonomia sui testi. E infatti Sinigallia è presente anche nei ringraziamenti dell’album, proprio perché ha seguito tutta la fase di scrittura e in maniera molto schietta mi ha sempre detto se secondo lui c’era qualcosa che non andava in qualche canzone. Nella mia esperienza, ha ragione circa il 99% delle volte.
B: Entrando nello specifico, sugli arrangiamenti si sente una grande differenza tra Non erano fiori e Niente che non va: stavolta ci sono molti più fiati e in generale un’atmosfera più pop-soul…
C: Ceri non viene dal rap, ha studiato al conservatorio. Gli piacciono molto il rap e l’elettronica, ma è di mentalità aperta, ascolta molti generi diversi e li rielabora a modo suo. Prendi ad esempio un pezzo come Ti sposerai, in cui è riuscito a infilare influenze hawaiiane e kalimba. Quando eravamo in studio non avevamo uno schema fisso, su ogni pezzo decidevamo con grande libertà e senza paura del giudizio altrui cosa fare, che strumenti inserire e che direzione dare alla cosa. Ci siamo trovati davvero bene.
B: Anche nei testi, come accennavi prima, si nota una grande evoluzione: meno canzoni d’amore, più varietà e profondità nei temi, passaggi più incisivi e maturi… Concordi?
C: Penso che sia l’album precedente che vada preso come un progetto a sé: in quel periodo avevo bisogno di comunicare certe cose con urgenza e non mi importava tanto della forma che stava prendendo il disco, né di parlare troppo d’amore. In testa avevo quello, avevo la necessità di sputarlo fuori. Una volta finito, ho capito immediatamente che era un capitolo chiuso e che non avrei più fatto nulla di simile. Il ragionamento che la gente di solito fa è “Il disco d’esordio di Coez è così, e quindi anche quello dopo e quello dopo ancora saranno simili”, ma in realtà preferirei che ogni album venisse valutato singolarmente, come se fosse solo una tappa del mio percorso.
B: Il primo singolo si intitola La rabbia dei secondi, che è un sentimento molto comune anche tra chi fa musica (soprattutto musica rap). È una canzone in qualche modo autobiografica?
C: No, non lo è. Il rap effettivamente è una musica molto egoriferita, quindi visto che vengo da quel mondo si potrebbe pensare che nelle mie canzoni io parli soprattutto di me: in questo disco, però, ci sono parecchie canzoni in cui allargo lo spettro di ciò che racconto. Nel caso di La rabbia dei secondi, parlo di una sensazione comune: a tutti, nella vita, capita di sentirsi secondi a qualcuno, e spesso è proprio quello l’incentivo che ci spinge a cercare di fare meglio. Ma è anche una canzone che cerca di far luce sulla malattia di voler essere primi per forza, a rischio di passare sopra ai propri princìpi e di essere infelici pur di arrivare.
B: Una delle canzoni che sono meno egoriferite è senz’altro Niente che non va, la title track, che in fondo parla di tutti e di nessuno. Com’è nata?
C: Avevo fatto serata ed ero distrutto, ma ero comunque andato in studio perché stavamo lavorando a Ti sposerai e volevamo chiuderla. Stavo scrivendo la terza strofa, ma ero talmente a pezzi che mi sono addormentato sul divano dello studio. Stefano (Ceri, ndr) stava suonando un pezzo al pianoforte, e io nel dormiveglia ascoltavo la melodia. A un certo punto l’ho interrotto e gli ho chiesto cosa stava suonando: lui mi ha risposto che stava componendo un pezzo. Non era assolutamente vero, stava suonando When I was your man di Bruno Mars! Ai tempi non ci conoscevamo benissimo, ci avevano presentati solo quando avevamo cominciato a lavorare al disco insieme, perciò si vergognava un po’ a farmi capire che stava cazzeggiando… (ride) Per pararsi un po’ il culo ha cominciato a improvvisare e ha suonato le prime note di quella che poi sarebbe diventata Niente che non va: quando abbiamo definito il loop di piano ho sentito un groppo in gola, mi veniva da piangere – quando fai serata sei sempre un po’ emotivo – e ho iniziato a scrivere. È stato solo in fase di registrazione e mixaggio, però, che ci siamo resi conto che sarebbe diventato un gran pezzone. Penso che diventerà un mio classico, uno di quei pezzi che suonerò a ogni concerto fino al mio ultimo giorno da musicista.
B: Oltre a pezzi rivolti alla collettività, per così dire, in quest’album ci sono anche brani molto più personali, come Con le tasche leggere, che parla del tuo (non) rapporto con tuo padre. È stato difficile esporsi in questo modo?
C: Sì: quello è stato l’unico pezzo per cui ho avuto qualche remora, ero indeciso se farlo uscire o no. Però alla fine ho deciso per il sì, perché escluderla avrebbe significato lasciare un tassello mancante all’interno dell’album. Il mio primo disco da rapper si intitolava Figlio di nessuno (uscito nel 2009 per La Suite Records, ndr) e affrontavo l’argomento in un altro modo; la prima volta che ne ho parlato in una canzone avevo 24 anni. In un disco intitolato Niente che non va una canzone così, scritta con la testa di un trentunenne, che mette un punto e chiude un capitolo, ci stava alla perfezione. Mi sono detto: “Se non le faccio io, queste cose, chi le fa?”. Mettere la mia vita in piazza è il mio ruolo, in fondo.
B: Costole rotte è un brano altrettanto doloroso, ma per motivi diversi: parla delle violenze della polizia…
C: Non avevo mai fatto un pezzo del genere, è un tipo di tematica che non mi ha mai riguardato da vicino. Ma è come se mi fosse uscito da solo. Avevo il ritornello in testa già da un anno e passa, e quando è uscita la notizia dell’assoluzione di massa delle persone accusate di aver ucciso Stefano Cucchi, ho cominciato a scrivere a raffica: sei ore dopo la canzone era finita. Non è dedicata a lui nello specifico perché non ho voluto fare nomi, potrebbe essere la storia di chiunque, ma il suo caso mi ha molto colpito. Essendo di Roma, come molti miei colleghi ho vissuto con molta partecipazione tutta la storia.
B: Per chiudere in maniera più allegra: qualche mese prima di pubblicare Niente che non va hai partecipato al disco di Marracash con A volte esagero, uno dei pezzi più sboroni e divertenti dell’album, in cui è presente anche Salmo. Visto che non fai più rap, ma canzoni serie, ti manca un po’ fare quel tipo di banger un po’ cazzaro?
C: Tantissimo! La cosa che mi manca di più in assoluto del rap è proprio la goliardia. L’autocelebrazione nel rap va assolutamente salvaguardata, è una caratteristica propria del genere, un po’ come gli assoli di chitarra nel rock o il doppio pedale nel metal: quel pezzo è talmente estremo che diventa inattaccabile, perché è chiaro che nessuno di noi si stava prendendo sul serio quando l’ha scritto… (ride) Chissà, magari troverò una chiave per fare le stesse cose anche nel pop e nel cantautorato. È da un po’ che ci penso: potrebbe essere una bella sfida anche quella.