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Ensi: l’intervista

28-08-2014 Marta Blumi Tripodi

Ensi: l’intervista

Come spesso capita quando si intervista un artista prima dell’uscita del suo album, siamo andati ad ascoltare Rock Steady nella sede della sua casa discografica, la Warner (il disco esce su etichetta Atlantic il 2 settembre). Per chi non avesse familiarità con la procedura dei preascolti, sostanzialmente ti chiudi in una stanza in compagnia di un discografico – che nel frattempo continua a fare il suo lavoro, si limita a controllare che tu non rubi il disco uscendo dalla finestra – e, con le cuffie in testa, ascolti l’album per la prima volta. Di solito si cerca di mantenere un contegno, visto che c’è un testimone che ci osserva, ma in questo caso non ci siamo riusciti granché: ci è letteralmente venuto il torcicollo a furia di muovere la testa e una paresi facciale a furia di sorridere. E questo perché quello di Ensi non è l’ennesimo disco rap fatto con lo stampino, ma un lavoro che trasuda un vero, profondissimo amore per la cultura hip hop. Un amore che, ve ne accorgerete, traspare in ogni sua risposta, oltre che nella sua musica e nelle sue azioni. Rock Steady è un progetto solido, genuino, carico della passione e della fotta che tutti noi ci portiamo dentro fin da quando abbiamo scoperto quella che sarebbe poi diventata la passione di una vita, e che probabilmente vi farà riaffiorare ricordi ormai sepolti di zaini carichi di bombole, baggy jeans, camerette invase dai poster di Tupac e Biggie, jam in location improbabili e negozi di dischi da saccheggiare non appena arrivava la paghetta. La scena italiana sarebbe un posto migliore se anziché rinchiuderci nel nostro cinismo tutti facessimo come Ensi e non ci vergognassimo, anzi, rivendicassimo con orgoglio, di essere in fondo le stesse persone che a tredici anni sono stati travolti da quel treno perennemente in corsa che è l’hip hop. Ecco quello che ci siamo raccontati in questo nostro breve incontro.

Blumi: Per questo disco hai scelto di lavorare con un unico produttore, Symone. Come mai?

Ensi: Avevo l’esigenza di creare un sound che mi caratterizzasse davvero, che fosse riconoscibile come mio. Negli anni ho fatto praticamente di tutto, non mi sono mai fossilizzato su un unico tipo di produzione, però a un certo punto sono arrivato a chiedermi “Cos’è che piace veramente a me? Se devo scegliere d’istinto, qual è il tipo di beat che mi rappresenta di più?”. La risposta è proprio in Rock Steady: un sound ricco di groove, in cui l’uso dei breakbeat è spropositato, con un sapore assolutamente classico e golden age che però non trascura affatto la componente musicale. Un po’ la stessa cosa che fanno alcuni dei miei artisti preferiti, come Nas e Jay-Z, che scelgono produttori coi controcoglioni e contemporaneamente si fanno affiancare dai migliori arrangiatori. Symone è la persona con cui negli ultimi due anni ho condiviso di più, a livello musicale; inoltre, cosa non da poco, c’è molta stima reciproca tra di noi anche a livello umano. Abbiamo una visione molto simile, le stesse origini (lui è di Catania, come mio padre) e siamo anche praticamente coetanei (io sono nato nell’85 e lui nell’86). Insomma, le cose che ci legano sono davvero moltissime.

B: Molti hanno scoperto della sua esistenza dopo aver ascoltato la tua Numero uno, il cui beat è firmato da lui, ma in realtà è in giro da parecchio…

E: Il suo è un percorso molto particolare: ha iniziato anche lui come rapper e negli anni è diventato un produttore. Si è fatto conoscere soprattutto nell’ambiente della musica dance, con ottimi riscontri sia a livello italiano che internazionale, basti pensare che la sua Buyakasha è usata da Major Lazer come intro per tutti i suoi concerti. La sua mentalità è molto legata al diggin: si può dire che ha la knowledge dell’hip hop ma le competenze tecniche dell’elettronica. È anche per questo che mi trovo così bene con lui: entrambi conosciamo, rispettiamo e capiamo la storia dell’hip hop. E seguiamo il corso naturale della sua evoluzione, senza rinnegare il passato ma con gli occhi puntati sul futuro. Lo conosco da tanti anni, ma ci eravamo persi di vista per un po’: quando è tornato a vivere a Milano abbiamo fatto insieme il viaggio fino a Bologna per andare a vedere il concerto dei De La Soul e strada facendo mi ha raccontato tutto quello che aveva fatto nel periodo in cui non ci eravamo frequentati. Sono rimasto davvero impressionato. Da lì è nata l’idea di collaborare, inizialmente solo per alcuni brani di Era tutto un sogno e poi in maniera più continuativa. È un beatmaker davvero atipico: se lo chiami per una base, lui non ne ha nessuna già pronta. Ti prende da parte, parlate, capisce dove vuoi andare a parare e poi te ne costruisce una fatto apposta per te, in base alle tue esigenze. Proprio come fanno i veri produttori.

B: Come dicevi tu, il sound di questo disco è in tutto e per tutto classico e senza tempo. E, di conseguenza, è completamente diverso dal 99% delle produzioni mainstream in circolazione al momento. Durante la lavorazione dell’album non ti è mai venuta la tentazione di buttarci dentro qualche sonorità un po’ più accattivante e attuale, giusto per seguire il trend?

E: No, per niente. Anzi, è proprio il contrario: come ti dicevo prima, capisco l’hip hop e so che si evolve e si evolverà sempre, ma sono convinto che, se quello che faccio piace e convince me, più facilmente piacerà anche agli altri e li convincerà. Inoltre, credo che il disco sia un ottimo compromesso tra passato e futuro: non suona 1994, suona 2014, anche se senz’altro le atmosfere restano fedeli a quella linea. In Rock Steady lo dico anche chiaro e forte: un classico schiaccerà sempre e comunque un trend. L’hip hop è stato un trend all’inizio, ma poi è diventato un classico, proprio perché ha creato uno standard: perché snaturarlo? Solo per suonare più fresh? Non mi va di strizzare l’occhio alla trap o di usare il drop così, tanto per sport. Ci sono tempi, modi e contesti per fare certe cose: nei dj set che faccio con Symone, ad esempio, mi diverte un sacco suonare pezzi come Turned down for what: fa parte dello spirito party della situazione. Ma nel mio disco non volevo adattarmi alla moda discografica del momento. Non fraintendermi, io amo molto anche le sonorità più attuali: Pusha-T, Kendrick Lamar, J Cole, ma in tutti loro senti la verità, l’attaccamento alle radici. Quello è il loro modo di rendere omaggio all’hip hop, il mio è un altro: è questione di visione e coerenza, e ora che ho la possibilità di affacciarmi davvero nel mainstream ho scelto di non rinunciare né all’una né all’altra. Perché buttare via tutto quello che ho costruito fino ad ora? Solo per il piacere di avere una canzonetta in classifica? Io voglio glorificare e rendere giustizia alla cultura che mi ha partorito.

B: Restando in tema di hip hop, parlando della tua carriera in Eroi dici “Ho fatto questo per amore/ non perché sapevo di arrivare fino a qui/ l’ho fatto senza nemmeno sapere come/ questo era il piano B, l’ambizione”. Eppure tu a diciassette anni eri già famosissimo in tutta Italia, la gente ti glorificava come uno dei migliori freestyler della nostra generazione… Davvero non te lo aspettavi, di arrivare fino a qui?

E: Ovviamente non sono uno stupido, e mi sono accorto immediatamente che avevo raggiunto alcuni traguardi importanti. Nella scena, in effetti, sono diventato famoso molto giovane: a diciassette anni ho vinto il mio primo contest importante (la finale del Tecniche Perfette contro Mondo Marcio del 2003, ndr) e praticamente subito dopo mi sono ritrovato catapultato al 2theBeat. Le sfide andavano a estrazione e per puro caso mi sono ritrovato a scontrarmi con Tormento, uno dei miei idoli: era come se avessi fatto un anno alle giovanili e poi mi avessero immediatamente spedito a giocare nel Real Madrid. Un impatto fortissimo. Insomma, senz’altro alcuni risultati li ho portati a casa molto presto, e questo me lo riconoscono tutti, però davvero non mi aspettavo tutto questo, così in grande. Sono cresciuto in un periodo di buio totale dell’hip hop italiano, in cui i Club Dogo venivano in trasferta a Torino e facevano cinquanta paganti. Ai miei tempi non si vendevano i dischi e col rap non si campava: mai avrei pensato che avrebbe potuto diventare un mestiere.

B: Tutto il contrario di oggi, insomma: il rapper è un mestiere gettonatissimo…

E: Sì, oggi è diverso. Tutto quello che ho fatto io, non l’ho fatto per diventare famoso, ma per un desiderio viscerale, perché mi faceva stare bene, perché mi rendeva felice. È anche difficile da spiegare: come glielo racconto ai ragazzini di oggi, o comunque a un pubblico che magari non c’entra niente con il rap, che una cultura che in Italia era seguita da quattro gatti mi ha cambiato la vita? Già solo farlo capire a mia madre è stato un casino, figurati agli altri! (ride) Chi non c’era, o più in generale chi non fa parte del nostro ambiente, probabilmente non potrà mai comprendere del tutto come questa roba ti avvolge, ti assorbe, ti cambia per sempre. La riscossa dell’hip hop italiano è un’ottima cosa, ma è arrivata solo dopo, e anche se non fosse arrivata per me sarebbe stato lo stesso, perché l’amore per questo genere musicale non è influenzato dalla sua attuale popolarità. Una popolarità che, ripeto, proprio non mi aspettavo. Ho assistito, prima da spettatore e poi da protagonista, a un’esplosione che non aveva precedenti. O meglio, mi correggo, i precedenti ce li aveva eccome, perché negli anni ’90 l’hip hop era a un livello tale che per noi è ancora intoccabile: i numeri che facevano ai tempi, noi non li faremo mai.

B: Sempre nello stesso pezzo, Eroi, hai anche ripreso una rima de Il mare se ne frega, che avevi pubblicato insieme ai Onemic nel 2011. Come mai?

E: Innanzitutto perché Onemic rimane la mia storia, la mia scuola. Inoltre quello, secondo me, ancora oggi è un pezzo molto forte. Al di là del fatto che è molto personale, essendo dedicato alle nostre madri, contiene alcune rime molto incisive, tipo appunto quella che cito: “Il mondo mi vuole forte, veloce e in gamba/ e il mare se ne frega se non resto a galla”. La frenesia in cui viviamo ci porta tutti all’indifferenza: oggi ci sei, domani non ci sei più e la gente non se ne accorge neanche. Siamo egoisti, guardiamo solo al nostro orticello, e chi non è all’altezza viene tagliato fuori. Questo è molto difficile da digerire, per me, perché io stesso non sono sempre all’altezza. Nessuno di noi lo è.

B: A proposito di tua mamma, tu e i tuoi due fratelli fate rap a tempo pieno, ormai. I tuoi genitori sono felici o magari speravano che qualcuno di voi intraprendesse una carriera un po’ più tradizionale?

E: Ci tengo a dire che prima di riuscire a mantenermi con il rap ho sempre lavorato sodo. Anzi, si può dire che ho fatto più lavori delle Barbie: c’è stato l’Ensi elettricista, l’Ensi muratore, l’Ensi piastrellista, l’Ensi manutentore di macchine laser… (ride) Mio padre, che è il classico meridionale emigrato al nord, è molto pragmatico: ci ha inculcato un grande senso di responsabilità e del dovere. L’unica domanda che ci ha fatto, quindi, è stata “Ma ci fai i piccioli?” (traduzione dal siciliano, riesci a tirarci su due soldi?). Mia madre, invece, dopo un iniziale periodo in cui non capiva bene che cosa facevamo e perché, oggi è quasi più informata di me: sa quanti milioni di click ha fatto quel video, chi ha fatto un disco con chi, quale live è stato il più affollato. Per lei siamo l’orgoglio di casa, come è normale che sia. Alpignano è un posto minuscolo, tutti la conoscono, va dal panettiere e le chiedono di noi…

B: Per finire, tornando ai brani dell’album: in L’alternativa parli della scena hip hop italiana e la conclusione del tuo ragionamento sembra essere che, cito testualmente, era meglio prima. È una provocazione o in un certo senso lo pensi davvero?

E: Entrambe le cose. È un pezzo scritto apposta per noi che facciamo parte della scena: vorrei che la smettessimo di osservare le formiche con la lente d’ingrandimento e di annusarci il culo come i cani, se capisci cosa intendo. Non porta da nessuna parte. Nel pezzo dico proprio “Potrei aggiungere una voce al coro e dire che era meglio prima”, ma a conti fatti invito gli altri a mettersi in gioco e essere l’alternativa a tutto quello che non va, piuttosto che sprecare energie nelle critiche: cosa che io per primo cerco di fare. Dico anche “Per ogni domanda c’è un’offerta”, perché in effetti credo che la gente sottovaluti questo aspetto. Ti piace il rap più meditato? Ascolta Ghemon o Johnny Marsiglia. Ti piace la roba hardcore? Ascolta Noyz o Salmo. Vuoi un immaginario diverso da tutti quelli citati prima? Ascolta i Dogo. Ciascuno può trovare qualcosa di suo gradimento nel rap italiano, e allora perché focalizzarci solo su quello che non ci piace? Perché cerchiamo continuamente appigli per creare una faida? Perché critichiamo tanto i ragazzini fanatici del rap, se noi stessi da ragazzini eravamo più fanatici di loro? Se continuiamo così, riusciremo a distruggere la scena dall’interno. Quindi sì, è vero che la scena per certi versi era meglio prima: la mentalità che c’era una volta è senz’altro una cosa che mi manca molto. Allo stesso tempo, però, non è tutto da buttare. Vorrei solo che facessimo tutti un passo indietro e la smettessimo di pensare all’hip hop come a una potenziale fonte di guadagno o fama. È giusto celebrare i propri successi, soprattutto se arrivi al traguardo dopo una gavetta di dieci anni, però non dimentichiamoci di chi eravamo, del perché abbiamo iniziato, delle motivazioni che ci spingevano ad andare avanti. La nostra energia, la nostra vera forza, sta nel fatto che siamo sopravvissuti e abbiamo continuato a lottare per questa musica anche quando sotto il palco non c’era nessuno.