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Metal Carter: l’intervista

13-07-2014 Marta Blumi Tripodi

Metal Carter: l’intervista

Metal Carter è unico e irripetibile; la sua forza risiede proprio nel fatto che lo sa e che non farebbe mai nulla per assomigliare agli altri, anche se questo dovesse significare rinunciare a una fetta di pubblico che non ama l’orrore e la violenza, neanche quando sono una metafora. Fortunatamente per lui, però, una larga parte della scena rap italiana non solo lo capisce e lo apprezza, ma aspettava anche con ansia l’uscita di questo suo Dimensione violenza, fuori per Mandibola Records: per sua stessa dichiarazione, l’album più estremo che abbia mai prodotto. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere al telefono con lui per capire com’è nato questo progetto.
Blumi: Dimensione violenza arriva dopo qualche anno di pausa (almeno dai progetti solisti ufficiali, perché di mixtape e featuring ne hai fatti parecchi). Come mai così tanta attesa?

Metal Carter: L’ultimo album solista effettivamente è uscito nel 2008, se si esclude la raccolta Master of Pain 2003-2013, uscita appunto nel 2013, o l’album Società segreta, realizzato con Cole e Alien Dee nel 2011. A scriverlo ci ho messo un po’ più del solito (circa due anni, ma non è poi molto per un album di 15 tracce) anche perché sono stato un po’ più attento del solito: volevo fare uscire un prodotto che mi soddisfacesse al 100%. Sono un perfezionista, perciò al 100% in realtà non ci arrivo mai, però sono molto contento del risultato. È l’album che mi soddisfa di più, credo.

B: Perché ti soddisfa così tanto?

M.C.: Di base è abbastanza coerente col resto della mia discografia, ma ho estremizzato ulteriormente tutte le tematiche classiche della mia produzione, affrontandole anche da angolazioni diverse. Probabilmente è anche l’album più estremo che io abbia mai registrato, e uno dei più estremi in assoluto per il rap italiano.

B: In altre interviste, in effetti, hai spiegato che Dimensione violenza è un album ancora più aggressivo dei tuoi precedenti. Come mai questa svolta ancora più truce, se mi passi il gioco di parole?

M.C.: Era un periodo in cui ero particolarmente arrabbiato, più che altro per questioni personali. Le prime 5/6 canzoni le ho scritte di getto, e avevano in comune questa aggressività esasperata. A quel punto ho pensato di chiamarlo Dimensione violenza e, una volta scelto un titolo del genere, il resto del disco è venuto da sé. Mi sono attenuto al tema e ho proseguito per quella strada.

B: E a livello musicale, che tipo di lavoro hai fatto?

M.C.: Molti testi li ho scritti senza beat: porto sempre con me un foglio e una penna per potermi appuntare le idee, e se non ce l’ho me le segno sul cellulare. Solo in un secondo momento li ho adattati alla strumentale. Altre volte invece ho scritto sui beat che i miei producer mi mandavano, magari su mio suggerimento: capita che io per primo dia indicazioni ai beatmaker spiegando che tipo di atmosfera voglio.

B: Nel ritornello di Odio cieco dici “Se servisse parlare d’amore per cambiare il mondo/ lo farei ogni secondo”. Un verso che definisce molto bene la tua musica…

M.C.: Sì, spiega parecchio la mia filosofia, anche per quello ho pensato che fosse adatta per aprire il disco.

B: E sempre nello stesso pezzo, dici anche che non dobbiamo prendere troppo sul serio quello che dici, perché generalmente è falso. È un’iperbole?

M.C.: Beh, sicuramente non dovete prenderlo alla lettera, perché comunque sono uno che usa la fantasia, le metafore, e soprattutto un alter ego. Ci sono concetti che non riuscirei a esprimere, rimanendo il Marco di tutti i giorni. Con Metal Carter esce fuori il mio lato più oscuro e folle.

B: Curiosità mia: i tuoi testi, per tua stessa ammissione, sono molto personali, ma come fanno ad essere personali dei brani che tu scrivi incarnando Metal Carter, che in fondo è quasi un personaggio di fantasia, e non come Marco, te stesso?

M.C.: Non te lo so spiegare del tutto. Sono personali perché escono dalla mia mente e dalla mia penna: il personaggio c’è, ma comunque credo che in qualche modo mi rispecchi. Quando scrivo esce una parte di me oscura e folle che io ho, ma che in fondo tutti hanno dentro di sé. Anche per quello ho un buon seguito: parlo di cose che toccano un po’ tutti, chi più chi meno.

B: Cambiando argomento, spesso gli ascoltatori hanno l’impressione che il Truceklan preferisca concentrarsi più sull’impatto del proprio rap che sulla tecnica vera e propria. È effettivamente così?

M.C.: In realtà no. Anzi, uno dei motivi per cui ci ho messo tanto a scrivere l’album è questo: ho voluto rifinire e curare molto gli incastri, il flow e la metrica. Con questo disco ho cercato di dimostrare che so rappare, e che lo so fare meglio di un buon 80% degli mc che trovi in circolazione! (ride) In più credo che l’originalità dei miei testi mi permetta di affermare che sono il primo italiano a fare death rap, sia a livello cronologico che a livello di bravura. Ci sono un sacco di ragazzini che mi copiano, ma finora nessuno è arrivato a livelli competitivi.

B: A proposito di death rap, quali sono gli esponenti di spicco nel mondo, oltre a Necro?

M.C.: In America Necro è senz’altro il più bravo. Ce ne sono altri, ma la cosa che si nota di più è che non sono molto bravi a rappare. Ovviamente, quando ascolto rap, per me la cosa più importante è la capacità dell’mc, e questo è molto limitante. Non basta avere qualcosa da dire, altrimenti scrivi un libro. Anche per questo cerco di ascoltare roba diversa dal death rap. E inoltre non voglio cadere in quel cliché e rischiare di essere troppo simile agli altri. L’originalità è fondamentale.

B: Ad esempio, cosa ascolti di solito?

M.C.: Amo quelli che hanno un approccio diverso dal mio: roba golden age, tipo Kool G Rap, Mobb Deep, Nas, Wu-Tang Clan, Big L, N.W.A., Terror Squad, M.O.P., Psycho Realm, R.A. The Rugged Man, Eminem…

B: Eminem, tra l’altro, in certe sue derive un po’ macabre si avvicina abbastanza a quello che fai tu.

M.C.: Lui ha fatto da apripista per il rap bianco: credo che la differenza tra il rap nero e quello bianco si senta subito. I neri tendono più a essere coatti, gangsta, real. Eminem, invece, ha messo nella sua musica il suo vissuto problematico, ha sputtanato tutta la sua famiglia, ha parlato di voler uccidere la moglie… Si è messo parecchio in gioco e ha aperto la strada a tutti gli altri. Gente tipo Cage senza di lui non esisterebbe.

B: Restando in tema di ascolti, si dice in giro che tu ami molto anche il pop e le canzoni d’amore, in particolare Max Pezzali. È vero?

M.C.: Sì, è vero: se davvero vedessi tutto così nero come nei miei pezzi, probabilmente mi sarei già suicidato! Grazie a Dio riesco anche a percepire gli aspetti più positivi della vita, e ascoltare quel tipo di musica mi permette di esprimere quel lato di me.

B: Infatti: non ti viene mai voglia di fare musica diversa dal tuo tipico horror core? E se sì, come pensi reagirebbero i tuoi fan?

M.C.: Diciamo che di sicuro, dopo quest’album che ha toccato le vette più estreme della brutalità, nel prossimo vorrei rinnovarmi. Sinceramente, però, anche se dovessi mettermi a scrivere una canzone d’amore (che tra l’altro ho già, devo solo decidermi a tirarla fuori dal cassetto e registrarla), sarebbe una canzone d’amore alla Metal Carter, con un approccio personale, sofferto. Anche trovando nuovi argomenti, insomma, credo che rimarrei comunque riconoscibile.

B: Progetti futuri?

M.C.: Spingere l’album che è appena uscito e suonare in giro. Sto anche scrivendo nuove canzoni, ma per ora voglio soprattutto godermi il lavoro che ho fatto finora.

NB: trovate Metal Carter anche su Twitter, Instagram, Facebook e sul suo sito ufficiale.