Vincenzo da Via Anfossi è uno di quei personaggi che tutti pensano di avere inquadrato, ma che in realtà nessuno coglie del tutto. Tra le altre cose è un pioniere della scena hip hop italiana, writer di spessore assoluto (la sua tag è Aken, la sua crew è la 16K, la stessa di Caneda e Tawa: fatevi un giro su Google, guardate qualche foto e poi sappiateci dire) e, last but not least, anche rapper, già da quindici anni prima del suo recente contratto con Universal (nel 1999 la 16K aveva infatti realizzato un album, Spiriti liberi, sotto il nome di Armata 16). Insomma, un curriculum di tutto rispetto, eppure c’è chi ancora lo identifica solo come uno degli esponenti della Dogo Gang dai trascorsi più burrascosi e gangsta. In occasione del suo nuovo album V.I.P. (Vera Impronta Popolare) abbiamo approfittato per scambiare quattro chiacchiere con lui, per parlare del suo nuovo album e della sua storia fino ad oggi.
Blumi: Nel 2008 ti avevamo intervistato in occasione dell’uscita de L’ora d’aria, e ci dicevi che quel disco non era neanche nei piani: avevi semplicemente cominciato ad accumulare rime, strofe, brani, finché a un certo punto non avevi deciso di raccoglierli in un disco. V.I.P., invece, sembra un progetto molto più pensato…
Vincenzo: Sì, esatto, il che è anche uno dei motivi per cui esce a cinque anni dal primo. In quel periodo ero molto più istintivo: non pensavo tanto a quello che volevo io, ma a quello che i miei fan volevano da me. Stavolta, invece, ho cercato di compiere un viaggio interiore: l’album ha un concept più introspettivo, ed è meno monotematico rispetto a L’ora d’aria. Quello faceva un solo lavoro: devastare e travolgere l’ascoltatore! (ride) Insomma, mi sono preso il tempo per lavorarci in un certo modo, ma non è che nel frattempo sia rimasto fermo: negli ultimi anni ho fatto moltissime collaborazioni, alcune più underground, altre più mainstream.
B: Ho l’impressione che il tuo sia un tipo di rap che forse in Italia ormai è rimasto poco, ovvero un rap non eccessivamente tecnico, più istintivo, che se ne frega di molte pippe mentali tipiche di certi mc. Ti ritrovi in questa definizione?
V: Partiamo dal presupposto che io non ascolto molto rap italiano, preferisco quello francese e tedesco (anche se, per ovvi problemi di lingua, devo andare a cercarmi le traduzioni dei testi). Personalmente credo che ci siano due modi di fare rap: quello che deriva dalle battle di freestyle e quello più scritto e ragionato. Io mi rifaccio al secondo. Mettere al primo posto la metrica e il flow per alcune cose funziona, ma secondo me quando devi scrivere un disco la priorità è il messaggio. Detto questo, non credo di fare così schifo tecnicamente, comunque! (ride)
B: Chi hai voluto accanto a te per collaborare in questo album?
V: I feat sono pochi per scelta, perché volevo che fosse un disco davvero mio: ultimamente ho ascoltato progetti in cui c’erano talmente tante collaborazioni che alla fine l’artista che firmava il lavoro non risaltava per niente. Ho voluto solo Gué Pequeno e Caneda per quanto riguardava il rap: il primo per ovvi motivi, il secondo perché è parte della mia crew 16K, e oltretutto si trovava casualmente nel mio stesso studio mentre stavo registrando quel brano. Oltre a loro ho chiamato anche Loretta Grace come cantante: oltre ad essere una mia cara amica, lei è favolosa, è la Beyoncé italiana. Riguardo ai beatmaker, invece, c’è innanzitutto dj Andry, che ormai è il mio producer ufficiale: è un ragazzo molto giovane che ho scoperto qualche tempo fa, ha un grande talento e mi rispecchio molto nelle sue sonorità. E ovviamente ci sono anche Shablo e Donjoe. Pochi ma buoni, insomma, e soprattutto molto vicini a me: io ho bisogno di avere attorno un’atmosfera molto familiare, quando lavoro.
B: Uno dei brani che colpisce di più, nel disco, è Carpe Diem, che in qualche modo potrebbe essere un inno generazionale per ragazzi molto più giovani di te, a cui il futuro riserva poche opportunità a meno che non provino a prendersele…
V: Ho cercato di non dare un messaggio troppo negativo, perché so bene che mi ascoltano molti ragazzi giovani e che quindi, essendo io più maturo sia di età che di testa, devo cercare di rivolgermi a loro nella maniera migliore possibile. Il punto è che bisogna cogliere l’attimo, ma nella maniera giusta. I ragazzi di oggi non hanno le idee chiare: scelgono il liceo in base a quello che gli suggeriscono i genitori, vogliono fare i rapper perché vedono che va di moda e pensano che così diventeranno subito ricchi e famosi… Bisogna credere in quello che si fa, affrontare le avversità, non accontentarsi mai. E soprattutto pretendere da se stessi il raggiungimento dell’obbiettivo, sbattendosi attivamente per arrivarci. Tra l’altro è un messaggio che passa anche dall’aspetto “tecnico” del pezzo: ci sono punti in cui canto, pur non essendo un cantante. Ho dovuto sbattermi tantissimo per trovare la nota giusta per quei passaggi. È un modo per dimostrare che non basta fare quello in cui sei bravo: devi sforzarti di andare oltre i tuoi limiti.
B: E in effetti il tuo percorso nell’hip hop lo dimostra: tu hai cominciato come writer, e solo in un secondo momento hai cominciato a fare il rap.
V: In realtà prima ancora ero un b-boy, nell’84: ero giovanissimo! Frequentavo il muretto, che all’epoca era la culla della cultura hip hop a Milano, così mi sono appassionato un po’ a tutte le discipline. Sono arrivato a fare cose molto importanti: come writer ero parte dei 16K, una delle crew più forti a livello nazionale, e come b-boy sono finito a ballare in posti pazzeschi, anche all’estero… E come rapper ho cercato di completare quel percorso. È una specie di evoluzione di concetto.
B: Ti aspettavi che l’hip hop ti portasse così lontano, come diceva Biggie?
V: Posso dirti una cosa? Quando ho visto il film sulla sua vita, ho trovato molte affinità tra la sua storia e la mia. Anche io ho avuto un’esistenza simile alla sua, e abbiamo fatto più o meno le stesse scelte – giuste o sbagliate che siano – anche in fatto di amicizie. La differenza, forse, è appunto che lui ha colto l’attimo, e anche se la sua carriera era iniziata un po’ per gioco (come è successo a me) ha capito che stava diventando una cosa seria e si è comportato di conseguenza. Poteva trasformare la sua passione in un lavoro, e di conseguenza ha investito su questo.
B: Un altro dei brani più riusciti dell’album è Settanta, in cui racconti l’esistenza della Milano popolare in quel decennio: cose che hai vissuto tu sulla tua pelle. Da dove nasce l’esigenza di scrivere questo brano?
V: Per me è il pezzo più importante dell’album, perché è la storia vera dei miei genitori. Ci ho messo un po’ a convincermi a scriverla, perché non volevo dare in pasto al pubblico qualcosa di così personale. Poi, però, ho capito una cosa: non volevo che V.I.P. fosse un album che si rivolgeva al classico pubblico 14-23 anni che di solito ascolta rap italiano. Volevo che arrivasse anche a gente della mia età, e il modo migliore per farlo era condividere le mie esperienze, cose che forse solo i miei coetanei possono capire. Magari non piacerà al mio tipico fan, ma piacerà a suo padre. E magari li aiuterà a intavolare un discorso. Tra l’altro i miei genitori, purtroppo, non ci sono più, quindi non hanno potuto ascoltarlo. È uno dei motivi per cui ci ho messo così tanto a scriverlo: ogni volta mi veniva da piangere. E poi c’è anche il fatto che non trovavo un beat che mi evocasse l’atmosfera giusta. Io sono così, cerco di non fare le cose a tavolino, ma di aspettare che arrivi l’ispirazione. Forse da fuori sembro un ignorante che se ne frega di certe sfumature, ma non è affatto così: ho fatto il liceo artistico, mi sono laureato in architettura… Un bagaglio culturale ce l’ho, e proprio per questo voglio fare qualcosa che abbia una valenza artistica vera.
B: Cambiando argomento, nei ringraziamenti dell’album citi in particolare Gué, dicendo che senza di lui V.I.P. non avrebbe mai visto la luce…
V: Esatto. Non nego il fatto che a volte ero demoralizzato, e mi chiedevo “Chi me lo fa fare, di mettere tutto me stesso in questo progetto?”. Ma poi, grazie ad alcune persone che mi hanno costantemente incoraggiato (Gué, ma anche mio fratello Memè), ce l’ho fatta. Gué, poi, mi ha praticamente fatto da produttore artistico, seguendo le registrazioni e dandomi consigli e supporto in ogni momento. Mi ha aiutato a tenere la linea che ci eravamo prefissati dall’inizio. Io e lui ci conosciamo da tantissimi anni, Dogo Gang a parte: ci vediamo continuamente, c’è un rapporto di amicizia molto solido. Comunque ci tengo a dire che nel booklet del disco ho ringraziato diverse altre persone, e anche il mio gatto! (ride)
B: Una curiosità: in Murcielago dici che hai solo due problemi, la velocità e la polizia di stato. Recentemente, però, girava su Instagram una foto in cui eri a bordo di una volante della polizia, al posto di guida. Ce la spieghi?
V: Quella frase l’ho presa proprio da un documentario sulla Murcielago che ho visto tempo fa. Ho pensato che si adattasse perfettamente a me; i miei problemi sono la polizia di stato perché sono allergico alle regole, e la velocità perché è passato un sacco di tempo tra il mio precedente disco e questo… (ride) Riguardo alla foto, invece, non preoccupatevi, era tutto in regola: l’abbiamo scattata sul set del mio prossimo video, in uscita a luglio. Visto che finora nelle volanti mi sono sempre seduto dietro, ho voluto provare il brivido di stare davanti, per una volta! L’ho postata come pensierino per tutti gli hater di Internet, volevo regalargli qualcosa di cui sparlare.
B: Cambiando argomento, qualche giorno fa c’è stata la reunion della true school del muretto, che come dicevamo è proprio il luogo in cui hai mosso i tuoi primi passi come hip hop head. Ci sei andato?
V: Purtroppo no, perché ero fuori Milano per girare un video. Ci è andato mio fratello, anche lui uno storico frequentatore del muretto, e ha detto che è stato un evento davvero incredibile. Il futuro e il passato si sono ritrovati in un luogo storico per la scena italiana: a giudicare dalle foto che ho visto si respirava un’atmosera pazzesca! Un vero tuffo nei vecchi tempi.
B: Restando in tema di passato, volevo approfittarne per farti una domanda un po’ più personale su un argomento di cui raramente parli nelle interviste, ma a cui hai dedicato anche un brano in passato: la tua esperienza in Somalia, dove da parà della Folgore sei andato in missione umanitaria dopo la sanguinosa guerra che ha devastato il paese…
V: È stata la prima di diverse missioni con l’esercito: sono stato anche in Bosnia e in Kosovo, per non parlare dei Vespri Siciliani (non quelli del 1200, evidentemente: si tratta di un’operazione di massiccio dispiego di forze che si è resa necessaria dopo gli attentati mafiosi a Falcone e Borsellino negli anni ’90, ndr). È una pagina della mia vita che resterà per sempre dentro di me, indelebile. Cerco di non parlarne tanto, però, perché penso che siano esperienze che non arrivano, se raccontate: bisognerebbe essere stati lì e averle vissute sulla propria pelle per capire davvero. Forse anche perché sono talmente personali e pesanti che chi non c’era preferisce non capire. Anche per quello non mi va di dare troppe spiegazioni sull’argomento: voglio che la gente ci ragioni sopra con la sua testa, magari partendo proprio dal testo di quella canzone.
B: Chiudiamo quest’intervista con una nota più positiva: progetti futuri?
V: Sto già lavorando all’album nuovo, a dire il vero! Ora che ho preso il ritmo con la scrittura, non riesco più a fermarmi. Ho già diversi pezzi pronti, che non ho voluto inserire in V.I.P. Naturalmente me la prenderò con molta calma, ma non ci sarà una lunga pausa come dopo L’ora d’aria: questo è il primo di una serie di 4/5 progetti che ho già bene in mente.