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Speciale Fly Girls: intervista a Vaitea

16-06-2014 Marta Blumi Tripodi

Speciale Fly Girls: intervista a Vaitea

Mai come in questo periodo, il rap italiano al femminile gode di ottima salute. Ma c’è qualcuno che lo nutre, lo alimenta e lo rappresenta fin dai suoi albori nei primi anni ’90: si tratta di miss Vaitea, storica fly girl: cresciuta a Milano, vanta origini estremamente variegate (tant’è che rappa in tre lingue diverse). Come vi sarà facile constatare leggendo questa intervista, ha rappresentato realmente un pezzo di storia dell’hip hop italiano, e la sua carriera è a tratti appassionante come un romanzo. Di recente è emigrata a Londra in cerca di fortuna, e il suo primo album ufficiale Word citizen è la prova tangibile del fatto che chi non rischia non vince: la positività, la tenacia e il talento di Vaitea hanno reso possibili cose che in altre circostanze tutti avrebbero pensato irraggiungibili. Anche per questo motivo – ma soprattutto per il fatto che il disco è davvero godibile – abbiamo voluto scambiare quattro chiacchiere con lei durante la sua ultima, breve trasferta a Milano. Ecco che cosa ci ha raccontato.

Blumi: Sei una presenza storica negli annali delle fly girls italiane, ma magari non tutti hanno ben chiaro il tuo percorso e il perché sei così poliglotta. Ricapitoliamo un attimo la tua biografia…

Vaitea: Mio padre è francese, ma con origini polacco/siberiano/romene, mentre mia mamma è italiana. Quando mia madre era incinta di me stavano facendo il giro del mondo: dovevo nascere a Tahiti, da qui il mio nome che significa proprio “Acqua Chiara” in polinesiano, ma all’ultimo momento si sono spostati in Nuova Zelanda (e difatti la mia cittadinanza è franco/neozelandese). Sono cresciuta qui a Milano, ma bilingue, perché ho studiato alla scuola francese; ho sempre avuto molta facilità con le lingue straniere, e così l’inglese è arrivato successivamente in maniera quasi naturale. Dev’essere genetico: pensa che ho scoperto che il mio bisnonno rumeno faceva il traduttore e ne parlava addirittura dieci!

B: Già, perché tu parli anche inglese praticamente da madrelingua…

V: Non del tutto, anche perché ora che affronto quotidianamente l’accento britannico ho capito subito i miei limiti! (ride)

B: Come mai hai scelto di rappare in tutte e tre le lingue, e in particolare di fare un disco interamente in inglese?

V: Quando ho iniziato ad ascoltarlo io, l’hip hop in italiano c’era ancora poco. All’epoca ero molto piccola, ma già scrivevo poesie e canzoni e amavo moltissimo la musica: sono cresciuta con Michael Jackson, Madonna, Suzanne Vega, Tracy Chapman… Quando ho capito che il rap si poteva scrivere in tutte le lingue, ho deciso di provarci. Soprattutto perché sia francese che inglese si prestano molto bene, foneticamente parlando. L’italiano è un po’ più limitato, però dipende dai punti di vista, perché quando vai all’estero tutti ti dicono che la lingua italiana ha una melodia pazzesca!

B: Come dicevamo, tu sei in giro da tantissimo, fin dai primi anni ’90.

V: Esatto. Ho iniziato da giovanissima: la mia compagna di banco frequentava il muretto di Milano e mi raccontava spesso di questi ragazzi che si riunivano lì per ballare. È stata sempre lei a farmi ascoltare per la prima volta LL Cool J, e io che già ascoltavo parecchia musica sono rimasta folgorata dall’hip hop. Ho cominciato taggando, anche perché c’era già un gruppo di writer nella mia scuola, ma non so disegnare neanche l’omino del gioco dell’impiccato, quindi ho capito subito che non era roba per me! (ride) Al che ho cominciato a scrivere rime, e pian piano frequentando i luoghi di ritrovo della città ho cominciato a conoscere tutti quelli che sarebbero poi diventati i personaggi storici della scena milanese. Tanto per darti un’idea, io e Bean abbiamo praticamente cominciato a rappare nello stesso periodo, e insieme ci facevamo dei gran freestyle in piazza.

B: La domanda, però, sorge spontanea: Word citizen non è il tuo primo lavoro, ma è sicuramente il tuo primo album ufficiale vero e proprio. Perché ci hai messo così tanto a concretizzare un progetto discografico?

V: In effetti prima c’è stato uno street album, la Misstape (uscito nel 2008, è una sorta di raccolta di tutti i pezzi precedentemente registrati da Vaitea, ndr), che è andata molto bene ma che era totalmente autoprodotta e home-made. Diciamo che io sono sempre stata una freestyle mc: mi piaceva il fatto di andare alle jam, rappare e mettermi a confronto con me stessa e con gli altri. Per anni l’idea di registrare un album non mi è mai neanche balenata nella mente. Poi, però, ho cominciato a fare molti featuring, sia in Italia che all’estero, e così ho deciso di raggruppare tutti quei brani, aggiungerci qualche inedito e provare a fare la Misstape, appunto. Da lì ho capito che l’album SI-PUO’-FARE, come Frankenstein Jr! (ride) Però volevo trovare qualcuno che seguisse l’intero progetto e non riuscivo a trovare un produttore che riuscisse a sposarsi bene con la mia musica. Alla fine ho conosciuto Gyver Hypman e ho capito subito che lui era quello giusto.

B: Raccontaci di Gyver, allora!

V: L’ho conosciuto qualche anno fa a Parigi tramite un’amica in comune: era uno dei produttori della Saian Supa Crew. Come tutti sanno, in origine era un super-gruppo formato dai sette migliori membri di diverse crew francesi: lui faceva parte di una di quelle crew e ai tempi lavorava soprattutto con Sir Samuel. All’inizio la nostra era una frequentazione da semplici amici e non c’era l’idea di fare musica insieme, ma un pomeriggio mi sono ritrovata a casa sua e, mentre allattavo suo figlio con il biberon, abbiamo cominciato a lavorare a una canzone… Da lì è nato tutto. Insomma, Word citizen è proprio un progetto creato a cavallo tra l’Italia (dove sono cresciuta), Parigi (dove vive Gyver) e Londra (dove vivo io attualmente).

B: Infatti: un paio di anni fa sei andata via da Milano per trasferirti a Londra. Cosa ti ha spinto a lasciare quella che era sempre stata la tua scena di riferimento, dove già eri conosciuta e ti eri fatta un nome, per ricominciare tutto da zero?

V: Beh, chi non risica non rosica! (ride) Diciamo che ho deciso di trasferirmi per una serie di ragioni. Milano cominciava a starmi un po’ strettina: non vedevo l’ora di mettermi in gioco davvero. A un certo punto mi sono detta “O adesso o mai più”, perciò mi sono armata di coraggio e sono partita. Non sono mai stata una vera e propria rapper italiana, né volevo fare un disco solo in italiano, perciò la scelta era più facile per me. L’idea era quella di espandermi verso l’estero, pur restando comunque vicina all’Italia: ho scartato subito Parigi perché ci avevo già provato e purtroppo la Francia, in termini musicali, resta sempre molto limitata alla Francia, e così ho pensato a Londra, che mi sembrava un ottimo compromesso tra tutte le mie esigenze. Lì viveva già una mia cara amica, Donna Sasà, dj e creativa che poi è quella che si occupa dell’aspetto video e grafico del mio lavoro: quando sono arrivata, quindi, ci siamo messe subito all’opera.

B: Come sta andando, adesso?

V: Bene, direi! Faccio musica, organizzo serate, suono in giro come dj – solo vinile, per una serie di motivazioni che è facile immaginarsi – e promuovo l’album. Mi sto pian piano inserendo nella scena inglese. Tra l’altro, se passate da Londra, venite a trovarci al No Diggity!

B: E l’accoglienza com’è?

V: La scena inglese è un po’ come quella italiana, anche nei nomi: pensa che hanno perfino un tizio che si fa chiamare Jest e un altro Essa! (ride) Scherzi a parte, come da noi c’è la scena rap mainstream e quella underground, e parallelamente i breaker, i writer e i dj. È solo un po’ più grossa, visto che la popolazione è più vasta e l’hip hop è più diffuso. Ma non quanto si potrebbe pensare, perché essendo Londra molto caraibica, quando si parla di black music sono reggae e dub ad andare per la maggiore. Quando sono arrivata, ho cominciato a guardarmi un po’ in giro e – fortuna o destino – le due principali serate open mic erano entrambe a 500 metri da casa mia, quindi mi sono buttata subito nella mischia degli mc. Facevano dei contest molto carini in cui gli artisti si presentavano sul palco e, anziché fare freestyle, dovevano fare sei minuti di showcase. Quando ci ho provato, sono arrivata seconda: da lì ho conosciuto il dj che suona con me e poi, man mano, tutti gli altri.

B: Per te, tra l’altro, la dimensione live è sempre stata fondamentale, e molto più orientata al prendersi bene piuttosto che alla competitività…

V: Sì, suonare dal vivo mi fa star bene e fa stare bene. Adoro intrattenere la gente. Sono una giullara, confesso! (ride)

B: Oltre a rappare, spesso quando sei sul palco canti anche. E pure molto bene. Da dove arriva questa vena soul?

V: Ti ringrazio. Quando ero piccola, gli amici dei miei ci definivano una famiglia di canterini: in effetti cantavamo sempre e ci divertiva tantissimo, stile canta che ti passa. Insomma, lo facevo prima ancora di rappare, ma sicuramente mi sento più una mc che una cantante.

B: L’album sembra avere una struttura molto coesa e definita: non è una semplice raccolta di canzoni messe in fila…

V: Diciamo che molto dipende dal fatto che il produttore è sostanzialmente sempre lo stesso: è venuto fuori così man mano che ci lavoravo con Gyver. Lovesongs, il primo singolo, è stato l’unico brano registrato prima ancora di iniziare a collaborare con lui: è basato su una storia vera ed è l’unico pezzo dell’album che è basato su una mia melodia su cui poi è stato costruito il beat, da Mastermind. Però poi Mastermind ha perso i dati dell’hardisk che la conteneva, perciò lui e Gyver l’hanno prodotta da capo! (ride, per non piangere) Un altro fattore determinante per la coesione del suono è stato il lavoro che ha fatto Eddie Sancho, storico mixing engineer della golden age americana, che ha contribuito a creare il suono dei Gangstarr con dj Premier e ha un curriculum davvero impressionante.

B: Come ci è finita una ragazza italiana al suo primo album ufficiale a lavorare con una tale leggenda?

V: L’avevo conosciuto tramite Myspace, un sacco di anni fa. Quando ho finito il disco, che pure non aveva un suono prettamente golden age, ho pensato di provare a chiedergli comunque se aveva voglia di lavorare con me. Combinazione, l’anno scorso è venuto in Europa, perciò abbiamo avuto occasione di conoscerci personalmente. A livello umano ci siamo trovati bene e il progetto gli è piaciuto: da lì è nato tutto. Per me il suo è stato un apporto fondamentale, anche perché adoro lavorare con le hip hop head come me, che vivono e respirano le stesse sensazioni che vivo e respiro io.

B: Curiosità: tu sei in grado di rappare in tre lingue, ma Word citizen è sostanzialmente tutto in inglese. Come mai?

V: Il rapporto con la scena italiana è complicato: non proprio amore-odio, ma quasi. Non ho mai avuto una mia collocazione precisa, non sono mai stata affiliata a un gruppo, a una crew o a un’etichetta… Sono sempre stata una mina vagante, insomma. Anche per questo me ne sono andata dall’Italia: perché non mi aveva mai dato più di tanto riscontro. Ho fatto quest’album per farmi capire anche all’estero: preferisco sfruttare il rap in altre lingue in contesti diversi, ad esempio sul palco. Le altre lingue sono rappresentate soprattutto dai featuring; più avanti ho in mente di fare altre esclusive per l’Italia e la Francia, però.

B: A proposito di Italia, poco prima di partire per Londra hai lanciato il progetto (o meglio ancora, il collettivo) Fly Girls. Ce lo racconti?

V: Avevo già fondato una crew tutta al femminile negli anni ’90, insieme ad altre mie amiche: io rappavo, ma c’era anche una dj e due b-girl. Ai tempi avevamo suonato un po’ in giro, perfino in Germania, e anche per Match Music, ma alla fine non abbiamo più fatto granché. Due anni fa, poi, per il mio compleanno volevo organizzare un evento di beneficenza in cui fossero le fly girls della zona di Milano a esibirsi per raccogliere fondi per Haiti. Da quella serata si è poi creato un nucleo di alcune ragazze prese bene dal progetto (tra cui le dj Lady Harlem e Calamity Jade, la cantante Cecilia Stallone e la rapper Juggy, ma anche le writers Vicky e Jaden e la ballerina Alice LaScotti ndr), così abbiamo deciso di renderlo una costante: abbiamo cominciato a fare serate regolarmente al Barrio’s di Milano, ci siamo create un logo, abbiamo registrato musica insieme… Ciascuna di noi, però, ha sempre avuto i propri progetti solisti da portare avanti. Oggi come oggi, purtroppo, col fatto che vivo lontana è un po’ più difficile riuscire ad essere attive come crew, ma restiamo comunque molto legate.

B: Approfitto per farti la domanda più scontata della Terra: cosa pensi del rap al femminile in Italia?

V: Non riesco mai a fornire una risposta esaustiva su questo tema, probabilmente perché non c’è. Partiamo dal presupposto che l’hip hop è una cultura prevalentemente maschile: oggi c’è circa un 80% di uomini, ma anni fa si arrivava al 98%, e le donne che venivano alle serate erano guardate a vista perché erano le ragazze dei presenti, non delle potenziali mc… (ride) Penso che le donne che alla fine riescono ad emergere sono quelle che si fanno un mazzo così, le più toste, quelle che riescono a ritagliarsi un proprio spazio, a ritrovarsi in un discorso come il rap che può anche essere verbalmente violento. Il confronto è molto aggressivo ed energico, bisogna sapere stare a certi termini. Diciamo che se tra gli uomini per farti notare devi essere bravo, se sei donna probabilmente devi essere bravissima. Ma quello succede praticamente in tutti i campi, non solo nell’hip hop.