In questi ultimi giorni si parla spesso di Inoki, soprattutto per i controversi dissing che ha lanciato all’indirizzo di diversi suoi colleghi. Vorremmo mettere subito in chiaro, però, che in questa intervista non si parla di questo, anche perché è stata registrata diversi giorni prima che scoppiasse la polemica. In questa intervista, piuttosto, si parla della sua carriera nel rap game e soprattutto del suo ultimo disco L’Antidoto, che potrà piacervi o non piacervi, ma che resta un lavoro diverso da tutti gli altri, particolare, con rimandi alle posse e alla old school ma allo stesso tempo molto attuale. Insomma, una contraddizione in termini, un po’ come Inoki stesso, che (anche qui, piaccia o non piaccia) è uno dei rapper più spontanei e meno costruiti attualmente in circolazione nel panorama italiano. Quello che pensa, lo dice, senza pentirsene subito dopo e senza rimuginarci troppo su, tant’è che, in una scena in cui i rapper chiedono sempre di rileggere la trascrizione dell’intervista e ti cambiano anche le virgole per paura di essere male interpretati, lui afferma che non vuole neppure dare un’occhiata alla bozza, perché tanto non ha detto nulla di cui debba vergognarsi e si fida di noi. E noi ricambiamo questa fiducia trascrivendo il più fedelmente possibile quello che ci ha raccontato al telefono.
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Blumi: Sul comunicato stampa che accompagna il disco c’è scritto che è la prima volta che ti occupi personalmente della produzione artistica. In che senso? O meglio: qual è la differenza con i precedenti tuoi album?
Inoki: La differenza è che in questo caso ho prodotto io i beat. Ero stanco di dover dipendere da altre persone, e oltretutto avevo bisogno di nuovi stimoli, così ho deciso di mettermi in gioco. Lavorandoci, però, ho capito di avere dei limiti, nel senso che non sono né Kanye West, né Premier, né Dr. Dre, perciò ho deciso di farmi aiutare da qualcuno che conoscesse questo mondo meglio di me. E qui entra in scena Bonnot, che non è un beatmaker hip hop ma è diplomato al conservatorio ed è un vero produttore artistico a 360°.
B: Come hai conosciuto Bonnot, a proposito?
I: Sono sempre stato un grande fan degli Assalti Frontali, e quando nel 2005 è entrato a farne parte mi è venuto da pensare “Bastardo, perché tu sì e io no?”. (ride) L’ho conosciuto poco dopo e da lì è nata un’amicizia. Tra l’altro, lo stesso giorno ho conosciuto anche M1 dei Dead Prez. E credo che sia molto significativo il fatto che oggi loro due abbiano fondato un gruppo insieme (gli AP2P, ndr). Io e Bonnot, comunque, avevamo già lavorato insieme per Nobiltà di strada, l’album che anni fa avevo pubblicato con una major, quando non aveva ancora il rispetto che ha adesso nell’ambiente. Lui aveva apprezzato molto il mio gesto di chiamarlo a collaborare, e appena ha potuto lo ha ricambiato: di conseguenza, eccoci qui. Siamo praticamente fratelli, ormai: non credo che riuscirei a lavorare con qualcun altro allo stesso modo. Anche perché lui è un polistrumentista, suona qualsiasi cosa, e ha un sacco di musicisti che collaborano con lui.
B: Un sacco di nuovi stimoli, come dicevi tu.
I: Esatto. Io comunque non faccio gli album per venderli, ma per accettare nuove sfide.
B: E in effetti la domanda successiva sarebbe stata proprio questa: tu di album ufficiali ne hai registrati relativamente pochi, nonostante la tua lunga carriera. Quello precedente a L’antidoto era proprio Nobiltà di strada, uscito nel 2007 per Warner Music. Cos’hai fatto da allora ad oggi?
I: Ho vissuto. Per me vivere è fondamentale, altrimenti non hai l’ispirazione per scrivere e comunicare. Come ti dicevo, per quanto mi riguarda gli album non si fanno perché si devono fare: si fanno perché hai qualcosa da dire, uno stile nuovo da presentare alla gente, una nuova frontiera da superare. Quello che ho fatto in quegli anni, comunque, non posso dirlo… (ride) Chi mi conosce lo sa. Posso dirti che ho organizzato rave, ad esempio, e ho giocato a poker ad alti livelli per un bel po’…
B: Quindi quella del poker non è una leggenda metropolitana!
I: No no, assolutamente, ci ho campato per due anni. Alcuni di quelli che giocavano con me ora sono dei king assoluti. Purtroppo non ho mai avuto la botta di culo che mi ha permesso di diventare un vero professionista, però ho grande rispetto per il tavolo. Mi ci sono dedicato con la stessa energia e passione con cui mi sono dedicato al rap. Il problema è che non sono ricco, e questo ti crea delle difficoltà in quel mondo: se non hai problemi di soldi puoi rischiare di più, perché anche perdendo non rischi molto, mentre se non hai il culo parato non puoi. Avendo una reputazione nella musica, ho preferito mollare il poker e rimettermi a registrare. Ma senza rifare le cose che avevo già fatto: mi avrebbe fatto schifo registrare quello che va di moda adesso.
B: La moda del momento è proprio il rap, e tu nella title track dici “Se l’hip hop è morto, tu dagli l’antidoto”. Cos’è questo antidoto, per te?
I: Innanzitutto è una citazione da Jones Maphia, un ragazzo di Palermo che è morto a 23 anni di leucemia e non è mai stato cagato da nessuno nonostante avesse un talento pazzesco: era un po’ un tributo a lui. Lo diceva sempre: se l’hip hop è morto, io gli do l’antidoto. E così mi sono messo lì e ho cercato di preparare questo antidoto, come il chimico che cucina metanfetamine: perché l’hip hop non è morto, è avvelenato.
B: Avvelenato da cosa?
I: Dal denaro, dalla corsa all’oro. Gente che si sente figa perché vende o perché si scopa la soubrette… Ripigliatevi. Questa roba non è hip hop, anzi, lo ammazza. Ci vuole qualcuno che spari in corpo all’hip hop dosi pesanti di vitamina K. Ed è per questo che ho deciso di rimettermi in gioco.
B: Secondo te è solo l’hip hop italiano ad essere avvelenato, o anche quello americano?
I: È un problema che riguarda tutto il sistema occidentale. È il sistema ad essere avvelenato, purtroppo. Esci per andare a lavorare, e non vai a lavorare felice. Guardi la tv, e sai che non devi credere a quello che ti dice. Alla lunga è sfiancante. Bisogna che qualcuno spieghi alle persone di stare in guardia, soprattutto ai ragazzini, che oggi non hanno nessun punto di riferimento.
B: E in effetti L’antidoto è un album che parla di temi importanti, come ad esempio il diritto alla casa, non è un disco hip hop incentrato solo sullo stile…
I: Esatto, a parte la title track si parla di tutt’altro. Non ne posso più di sentire rapper che mi dicono che rappano, e magari anche con uno stile copiato da altri. Non è interessante. Okay, hai fatto i soldi, e quindi? Almeno offri da bere, se proprio devi passare le tue giornate a vantartene. O meglio ancora, fai qualcosa per il tuo quartiere, per la gente. Non ho ancora sentito neanche un progetto figo finanziato dai questi tizi che hanno fatto i soldi. Che ne so, un laboratorio hip hop, un evento… Guadagnano grazie ai ragazzi che comprano i loro dischi, ma a loro non restituiscono niente. Non va bene, non c’è equilibrio.
B: Tu, tra l’altro, per molti anni hai lavorato a stretto contatto con molte delle persone che oggi critichi aspramente. Anzi, nella lista delle tue collaborazioni ci sono tutti i più celebri rapper italiani di oggi. Club Dogo, Marracash, Fabri Fibra…
I: All’inizio pensavo che fossero sulla nostra stessa lunghezza d’onda, però crescendo ti rendi conto che le cose cambiano. Non sono cambiate solo le persone, comunque, ma anche la società. Non avrei mai pensato che noi, come rapper, saremmo stati considerati così importanti: tutti ci vogliono, tutti chiedono la nostra opinione, siamo più ascoltati di molti politici. Voglio dire, Fibra parla e lo cagano più di quanto cagano Renzi, nonostante sia un deficiente… Non ha concetti, non ha messaggi. Almeno Renzi sa come prenderti per il culo, Fibra neanche. Il succo è che, ora che so che abbiamo tutto questo potere comunicativo, cerco di dargli un valore e di non dire cose a caso.
B: E in effetti questo disco sembra avere un messaggio simile a quelli dei tempi delle posse: contenuti sociali e politici, soprattutto…
I: Certo, ma è anche un messaggio creativo: svegliatevi, ma cercate di divertirvi nel mentre. In fondo è questo che dice da sempre l’hip hop.
B: E anche stilisticamente, infatti, il disco è molto old school, almeno in termini di flow e delivery…
I: Il ritorno alle origini è fondamentale. Anche perché, quando ho iniziato a farmi corrompere dal denaro, personaggi della vecchia scuola come Dado erano venuti da me e mi avevano detto “Ehi, che stai facendo? Ricordati perché hai cominciato!”. È importante tenere sempre a mente qual è stata la prima cosa che ci ha spinto a fare rap. Se i ragazzi di oggi iniziano a rappare per fare i soldi, è giusto che continuino per quello e gli auguro sinceramente di farli. Ma io non ho iniziato per quel motivo, assolutamente: la mia spinta era la voglia di esprimere il mio disagio.
B: Quando parli di “farmi corrompere dal denaro”, ti riferisci al contratto con la major?
I: In realtà ho cominciato molto prima a perdermi. A 18 anni sono stato a Parigi, ho visto che avevano le bancarelle hip hop al mercato e ho detto ai miei amici di Bologna “Facciamolo anche noi!”. Siamo andati alla Confesercenti e ci hanno detto che la licenza per una bancarella costava 100 milioni, perciò ci conveniva aprire un negozio. E difatti abbiamo aperto un negozio, che però poi è fallito. Anni dopo sono andato a New York, ho visto che 50 Cent in quel periodo stava facendo i soldi e ho cominciato a pensare che forse volevo fare i soldi anch’io. Ripetevo costantemente tra me e me “Vaffanculo! Perché loro sì e noi no? Possiamo farcela anche noi!”. È stato anche questo che mi ha spinto a firmare con una major, ma una volta lì ho capito che si era perso lo spirito. C’è da dire, però, che un ragazzo che viene dalla strada deve comunque trovare un modo di pagarsi l’affitto, e di conseguenza è normale che cerchi di trovare un modo di fare soldi. L’essenziale, secondo me, è trovare un equilibrio: non mettere mai il denaro davanti a tutto il resto.
B: Quindi secondo te un equilibrio esiste? Se non in America almeno in Francia, ad esempio…
I: In questo momento in Francia sono anche più sputtanati di quanto lo siamo noi. Niente più Iam o NTM. Le ultime cose che sono arrivate sono delle commercialate tremende, oppure roba alla Keny Arkana, che suona da paura ma non è propriamente hip hop. Lei ha tecnica, ha stile, ma non rappresenta l’hip hop: rappresenta gli anarchici di Marsiglia. Un movimento che io rispetto di brutto, ma che non c’entra con quello di cui stiamo parlando.
B: Abbiamo parlato di quello che non ti piace; ma c’è qualcosa che ti piace e che ti sentiresti sinceramente di consigliare?
I: Al momento credo che dall’America stiano arrivando cose buone; Styles P, Roc Marciano e Freeway hanno fatto dei dischi stupendi, tanto per citarne un paio. Mi piace anche Action Bronson. Bisogna andarseli a cercare, ma i lavori validi ci sono. Comunque, a proposito di America, ora che sono entrato nella crew dei Dead Prez, posso ritenermi soddisfatto di me stesso. Non mi interesserebbe neanche vendere più di Fabri Fibra, a questo punto.
B: Alt: in che senso sei entrato nella crew dei Dead Prez (detto con una punta di invidia, visto che si tratta di uno dei miei gruppi preferiti)?
I: Beh, anche tu puoi entrare nella crew dei Dead Prez, se ti impegni! O lavorare per The Source, se è questo quello che vuoi. Il punto è che il “magari” non esiste, per me. Se vuoi ottenere una cosa, ce la fai. Diciamo che li conosco da 10 anni, ho dimostrato di essere un elemento valido e quindi mi hanno detto che potevo rappresentarli. E quindi i rapper commerciali me lo sucano, letteralmente. Voglio dire, chi rappresentate voi a New York? Nessuno. Detta così sembra una questione di caste e quindi pare brutto, ma ora che sono con loro ho delle credenziali anche in America.
B: Ma cosa comporta esattamente fare parte della loro crew?
I: Di base, M1 mi indottrina su tutto ciò che succede nel mondo. E dopo aver parlato con lui, quando sento la gente che parla di argomenti che non conosce, mi chiedo con che diritto apra la bocca. Un giorno un tizio è venuto a dirmi che Rick Ross era uno sbirro e io gli ho risposto “Scusa, ma tu conosci Rick Ross? Sei di Miami? Come ti permetti di dire che è uno sbirro? Che credenziali hai?”. Insomma, da quando giro coi Dead Prez non sono più uno che chiacchiera, sono uno che sa. Vale più che ottenere 10.000 dischi di platino, per quanto mi riguarda. Non è che da bambino sognassi di entrare nei Dead Prez, ma sicuramente è la crew da cui mi sento più rappresentato in questo momento.
B: Visto che secondo te ottenere quello che vuoi è soprattutto una questione di impegno, qual è il prossimo obbiettivo che ti sei posto?
I: Sicuramente fare buona musica, in questo momento. E cercare di creare un’onda italiana che possa fondersi con stili come la tech house, o altri generi che i ragazzi in strada ascoltano di brutto. Mi piacerebbe sfornare un EP molto minimal, a 120 BPM, che sia davvero convincente e faccia ballare la gente.
B: Un obbiettivo parecchio impegnativo.
I: Deve essere impegnativo. Voglio dire, è facile vendere le mimose l’8 marzo, no? L’obbiettivo dell’hip hop è portare la musica a un livello successivo e superiore. Fare qualcosa di non banale, che faccia saltare la gente dalla sedia. Zero biting, niente cose scrause.
B: Visto che tu sei così proiettato verso il futuro, però, ogni tanto non è frustrante ritrovarsi ai live e capire che la gente vuole ancora sentire sempre e solo Giorno e notte o Bologna by night?
I: Ovviamente Giorno e notte è la prima cosa che ho pubblicato: ai tempi avevo diciott’anni e le mie ultime cose sono avanti anni luce rispetto a quella roba. Però è inutile spiegarlo al pubblico, sono tutti fissati con quel pezzo. È una guerra persa. Io con i live ci campo, comunque, perciò ben venga. Diciamo che approfitto dei live per fare sentire alla gente anche tutto il resto. Oltretutto a me piace conoscere la gente che viene ai miei concerti: ci parlo, ci faccio amicizia, comunichiamo…
B: Cambiando discorso, una mia curiosità: tempo fa era circolata la voce che tu fossi stato arrestato mentre dipingevi un pezzo nel centro di Bologna e in pieno giorno. C’era qualcosa di vero?
I: Sì, è tutto vero! (ride) Alla fine mi hanno fatto 500 euro di multa, che comunque non ho pagato perché sono nullatenente. Quel giorno non ero in condizioni proprio perfette: la notte prima eravamo al live degli Artifacts, che avevo aperto io. Ero esaltatissimo, avevo fatto ore di freestyle in inglese e volevo andare a un after per sfogarmi, ma a Bologna purtroppo non ce ne sono. Casualmente avevo dietro le bombolette, che avevo appena comprato, così ho proposto a tutti di andare a fare graffiti, e ci siamo messi a dipingere in questi giardinetti, alle 9 di mattina, convinti di avere ragione e litigando con le vecchiette che passavano di lì. Spiegavo a quelli che si lamentavano che non dovevano rompermi le balle, perché quel muro era brutto e lo stavo migliorando. Alla fine, quando sono arrivati gli sbirri, ho provato a spiegarlo anche a loro, ma ovviamente mi hanno detto che le cose non stavano proprio come dicevo io… (ride) Alla fine è anche uscito un articolo sul giornale: sapendo che ero minimamente conosciuto, ne hanno approfittato per farne una campagna contro il writing. Pazienza. Anche questo è andare contro al sistema; e io voglio sempre andare contro. Chi rema a favore per me è una persona da non prendere in considerazione.
B: Progetti futuri?
I: Fare l’EP di cui ti parlavo prima, insieme a Fabrizio Maurizi, che è il resident dj del Cocoricò. Non so se riusciremo a concretizzare, ma spero di sì. Al momento, comunque, non penso a un album nuovo: vorrei soprattutto mettere in piedi una struttura che aiuti a produrre i ragazzi che vengono dalla strada. Con Rap Pirata (che non è un’etichetta ma piuttosto uno spirito, una mentalità) stiamo anche creando un sito con un e-commerce per poter vendere i nostri prodotti. Vorremmo strutturarci, poter comunicare senza per forza usare Facebook: insomma, trovare un modo per essere presi sul serio, perché noi siamo seri. Il mio vero progetto futuro è questo.