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Hard to Earn vent’anni dopo

02-04-2014 Pietro Mantovani

Hard to Earn vent’anni dopo

Nell’ultimo periodo mi sono messo a rispolverare i classici hip-hop, e io sono uno di quelli che ha la fortuna di poterli scoprire per la prima volta, essendomene persi molti per strada negli anni. Dunque, mi sono messo a studiare l’hip-hop, immergendomi in questo mare di classici, che scopro con la consapevolezza di qualche capello bianco in più, ed è una sensazione bellissima. Mi trovo a riflettere su come sia possibile che nei primi anni Novanta una batteria di giovani che avevano intorno ai vent’anni, e dico vent’anni – io vado verso i trenta e il massimo che ho creato finora è questo articolo, per dire –, avevano così tante cose da dire. Non solo, avevano l’inventiva e l’intraprendenza per creare qualcosa di assolutamente nuovo, finendo per fare la storia della musica. Per me tutto ciò rimane un mistero affascinante.

Scoprendo i classici dopo così tanto tempo si sentono rapper che hanno davvero un sacco di cose da dire (ed è una cosa che, sono convinto, si può avvertire anche senza capire una parola di inglese). Si sentono produttori che stanno realmente facendo musica, stanno creando un sistema di comunicazione, un’arte fatta di citazioni e rimandi, padroneggiano la tecnica e la tecnologia disponibili per creare qualcosa di profondamente nuovo. Si sentono voci e liriche che si fanno, di volta in volta, energia, conflitto, denuncia, ironia.

Tutto questo per dire che, in questo periodo di backinthedays cade il ventennale dell’uscita di un album fondamentale per gli appassionati di questa musica: Hard to Earn dei Gang Starr. E proprio in questi giorni mi sono imbattuto in un articolo imperdibile, scritto proprio in occasione di questa ricorrenza, in cui Premier racconta approfonditamente il making of dell’album. Traccia per traccia, Premier fa emergere particolari curiosi, ma soprattutto tratteggia lo sfondo su cui si staglia l’opera, portandoci un po’ di quell’aria che si respirava a Brooklyn nei mesi in cui l’album è stato prodotto. Dunque, ho pensato di prendere spunto da quell’articolo, e di riportarne degli stralci, per parlare un po’ di Hard to Earn e dei Gang Starr. (Naturalmente consiglio a chiunque la lettura dell’articolo intero.)

Hard to Earn entra di buon diritto a far parte nella storia dell’hip-hop in quanto segna un momento di passaggio tra quello che era l’hip-hop nei primi anni ’90 e quello che sarà dal ’94 in poi. Credo che questo album addirittura incarni tale passaggio e che tutto ciò lo si possa addirittura apprezzare mentre scorrono le tracce. Prendiamo per esempio due singoli così diversi come “DWYCK” e “Mass Appeal”. Nel primo si sente chiaramente una forte impronta old school, non a caso era stata prodotta già nel 1992 con Nice&Smooth, alla presenza di WC e Don Barron dei Masters of Cerimony. La cosa nacque così:

DJ Premier: “Nice & Smooth avevano fatto il pezzo chiamato ‘Down the Line’, e volevano usare il campione di ‘Manifest’. Quindi […] siamo stati con loro al Power Play Studios. Così incontrammo Bas Blasta, e tutti quelli che erano lì quel giorno. Quindi ci siamo detti: ‘Facciamone uno per ricambiare’. Ci serviva un lato B per ‘Take it Personal’, perché fare pezzi che non stavano nell’album era una cosa grossa al tempo. Lo facevano i Public Enemy, lo facevano gli Ultramagnetic Mcs.

“Ma quando l’abbiamo fatto, non sapevamo che sarebbe stata una hit. Quell’estate andava un sacco! Daily Operation era già uscito, quindi l’etichetta ci disse: ‘Mettiamola nell’album e facciamola uscire’. L’abbiamo rimasterizzata e aggiunta all’album, ma poi si sono tirati indietro dicendo: ‘Lasciamo stare, lasciamola come lato B’. Allora eravamo incazzati perché la gente stava comprando Daily Operation cercando ‘DWYCK’. E invece era solo in dodici pollici. La gente faceva: ‘Cazzo, ho comprato l’album per quel pezzo’, e io dicevo: ‘Cavolo, non ti piace nient’altro?’ Ma era quello che volevano.”

“Mass Appeal”, invece, è già un esempio di quello che ci aspetterà nei lavori successivi dei Gang Starr. Non solo a livello di suono e di liriche, ma anche l’argomento ci riporta a come stava evolvendo la musica di quegli anni: “Mass Appeal” è in tutto e per tutto figlia del ’94:

“Ci prendevamo gioco delle radio. […] Tutto iniziava a suonare come musica da ascensore. E allora, quando trovai il campione che aveva quel tipo di melodia, l’ho mandato in loop e Guru ha fatto: ‘È lui’. Poi abbiamo fatto la programmazione, e il modo in cui partiva non nel primo quarto spaccava.

“Non facciamo mai il [primo] singolo finché l’album è finito. Quando ci mancano solo gli ultimi due pezzi da creare, allora facciamo il singolo. Così è super-nuovissimo (super-brand-fucking-spankling new). Ogni volta.”

Ma andiamo con ordine. Secondo quanto dice Premier, nel ’94 i Gang Starr sono ancora visti come un gruppo “Jazz Rap”. In realtà, è proprio per questo che l’etichetta avrebbe inizialmente offerto a Guru e Premier un contratto: volevano un rap musicale. Guru, però, si inizia a risentire di essere catalogato in questo modo e decide, di comune accordo con Premier, che è il momento di dimostrare una volta per tutte l’attitudine hip-hop dei Gang Starr.

“Con Hard to Earn, una delle cose che stavo attraversando dal punto di vista del suono era che, era più o meno il periodo in cui Guru iniziò Jazzmatazz, e eravamo continuamente etichettati come ‘Jazz Rap’. Questo è il motivo per cui Guru fece Jazzmatazz, perché voleva proteggere Gang Starr dall’essere categorizzati in quel modo, perché sentivamo di essere un gruppo hip-hop dal giorno uno.”

“Dal momento che Guru stava iniziando a risentirsi del fatto che fossimo etichettati in quel modo, mi sono detto: ‘Ridurrò all’essenziale questo album’, in modo da mostrare che ero in grado di usare altre cose oltre ai campioni jazz. Entrambi volevamo mostrare che qualsiasi cosa utilizziamo può diventare un beat hip-hop. Decidemmo che lo avremmo fatto più grezzo possibile, meno musicale, di proposito, solo per mostrare che spacchiamo su ogni traccia, insieme.”

Solitamente, è Guru che sceglie i titoli degli album. Ma Hard to Earn è un caso particolare. Infatti, Guru vuole che questa volta sia Primo a trovare un titolo per l’album:

“[Hard to Earn] è quello che mi venne in mente, perché mi sentivo che era questo quello che eravamo. Stavamo bene di soldi, e sentivo che il nostro lavoro era ‘Hard to Earn’. Perciò gli dissi: ‘Cosa ne pensi?’ E boom, gli piaceva.”

Ecco anche il perché dello skit iniziale:

“[E]ra un messaggio a tutti quelli che pensavano che fosse facile. Non è così facile. Come diceva Guru: ‘This shit ain’t easy. If you ain’t got it, you ain’t got it, muhfucker.’ E il modo in cui lo diceva era perfetto. Mi piace l’attitudine. È così che era, ed è così che è oggi.”

Racconta Premier che, tornando a casa, trovavano continuamente persone davanti al cancello che li aspettavano per promuovere la propria musica, a qualsiasi ora. Succedeva anche di notte, tanto che Guru e Primo dovevano scendere dalla macchina molto cauti, con la mano sulla pistola, non sapendo cosa aspettarsi. E poi il tipo sul cancello iniziava: “Yo, so che abitate qui, volevo solo farvi sentire i miei pezzi”.

“Noi non facevamo così. Bussavamo a ogni etichetta, scrivevamo, imbustavamo, lo facevamo professionalmente, fino allo sfinimento. Ora tutti pensano di farcela così. […] Noi eravamo semplicemente dei tipi: ‘Yo. Il mio nome è Premier, faccio parte di un gruppo chiamato Gang Starr. Ti volevo solo dire che mi piace quello che fai.’ E poi ti lasciavo perdere, anche se avrei voluto dire di più.”

Così, Guru e Primo si mettono a lavorare a casa e in studio. Lo studio è il D&D Studios (oggi Headquarterz Studioz), una sorta di seconda casa, un punto di ritrovo per tutta la crew.

“Jeru the Damaja era sempre qui. Lil’ Dap era sempre qui. Melachi the Nutcracker era sempre qui. La nostra intera crew. Tutti quelli che Guru nomina in ‘Soliloquy of Chaos’ in Daily Operation, quelle erano le solite teste che vedevamo. Se dai un’occhiata alle foto di gruppo, di solito c‘è sempre la stessa gente, più o meno. Questo è il motivo per cui senti tutti loro in Hard To Earn. In più, stavo lavorando sul debutto di Jeru [The Sun Rises in the East] in quel periodo.”

In realtà, il grosso del lavoro viene fatto a casa. Una casa di proprietà di Brandford Marsalis in Washington Avenue in Brooklyn. Brandford si era trasferito a L.A. per fare il direttore musicale di The Tonight Show con Jay Leno. Premier ha la stanza al piano superiore, mentre Guru sta di sotto. Dal momento che l’affitto dello studio costa parecchio, la pre-produzione viene fatta in casa e poi il tutto viene confezionato in studio.

“Casa nostra era come una confraternita. C’era sempre qualcuno. Anche quando eravamo in giro, c’erano dieci quindici persone in casa. Bottiglie ovunque, erba ovunque, donne andavano e venivano. Avevamo così tanto traffico, che sono sorpreso che non abbiano mai fatto irruzione insospettiti da quello che poteva succedere in casa nostra. Era una casa delle feste.”

È Guru a scegliere i titoli dei pezzi, definire la struttura dell’album, e decidere i temi dei singoli. Premier si “limita” a creare delle basi coerenti con i vari argomenti, andando a scovare le frasi giuste da scratchare o suoni che richiamino il tema che Guru vuole affrontare.

“Guru mi dava sempre una lista di titoli prima che io facessi alcun beat per il nostro album. Aveva l’intero album strutturato con i titoli. Solo i titoli, senza i testi. Per ogni album [ad eccezione del primo], mi ha sempre dato una lista di titoli per cominciare, non in ordine, con piccole note. Diceva: ”Mass Appeal’, il nostro primo singolo’. Poi scriveva i testi una volta che sentiva la traccia. Questo è il motivo per cui la musica suonava sempre come il titolo del pezzo. Mi dava la lista con piccole note tra parentesi, come: ”Tonz ‘O’ Gunz’, questa è a proposito di tutte le armi in strada’. Sarah Honda e Phat Gary, al nostro ufficio management, ci dovevano stampare la lista, perché la scrittura di Guru era piuttosto strana, poi io la attaccavo sul muro della mia stanza, e lui nella sua. E io barravo le tracce una dopo l’altra, tipo: ‘Oggi lavorerò su ‘Mostly tha Voice”.”

Una volta ricevuti titolo e argomento, Premier si mette al lavoro. Primo è uno che lavora sempre sul momento:

“[F]acevo sempre i beat sul posto. Non ho mai avuto una serie di beat per cui dicevo: ‘Scegline uno’. C’è in giro l’idea sbagliata per cui i davo alcuni beat che Guru voleva ad altra gente – non è così. Ho sempre fatto tutto quello su cui lui rima specificatamente per la sua voce e il suo stile. Non ho fatto il beat di ‘Nas Is Like’ per lui e detto: ‘Lo prendo e lo do a Nas’. È stato fatto con Nas mentre lui sedeva poco più in là e aspettava. Ho sempre pensato che era quello il modo in cui tutti lo facevano, studiando Howie Tee, Mantronix, Larry Smith, e Rick Rubin. Ed è qullo che faccio ancora adesso.”

Ed è una specie di biblioteca musicale ambulante. Parlando di “Code of the Streets” racconta:

“Quando [Guru] mi disse ‘codice’, ho pensato al codice morse. Avrei potuto tagliare una barra, ma volevo fare qualcosa di più creativo. Quindi ho preso ‘Word From Our Sponsor’ dei Boogie Down Productions, e all’inizio fa: ‘Errrrrrrrrr, this is a test of the Boogie Down Production prevention against sucker MCs’. E ho preso solo quel suono all’inizio e l’ho scratchato.”

Oppure nel caso di “Tonz ‘O’ Gunz”:

“Guru mi diede il tema. Un sacco di gente veniva uccisa per mani di un altro uomo di colore che gioca con le armi (gunplay). Era davvero pesante in quel periodo degli anni ’90, quindi volevamo affrontare l’argomento per dire quanto era brutta la situazione, e quanto stava peggiorando. E anche se aveva un campione musicale, è comunque parecchio essenziale. Volevo che suonasse come qualcuno che urla per chiedere aiuto, con una melodia di base, ma niente di eccessivo […]. E nella mia testa avevo già il verso: ‘The thing they know best is where the gun is kept’ [da ‘Just to Get a Rap’].”

Per “Blowin’ up the spot”, invece, le cose vanno diversamente:

“[Il beat] veniva da un disco chiamato Sample Some of Disc, Sample Some of D.A.T. aveva tutte le batterie dei Parliament. L’ho pulite. E suonavo sempre quella traccia in particolare. E Guru faceva: ‘Quando dovremo fare l’album, ci rappo sopra’. Quindi quella fu una di quelle che non aveva il titolo prima che ci scrivesse. Avevo già programmato la demolizione, dove suona come un’esplosione, e disse che era quella che gli fece venire in mente il titolo. E allora ho preso la frase ‘I’m about to blow the fuck up’ da ‘I’m the Man’.”

Dunque, per lo più, il lavoro parte da Guru, il quale definisce l’ossatura dell’album con la sua scaletta, poi il tutto passa per le mani di Primo, il quale crea dei beat su misura (non a caso Guru lo chiama “beat tailor”), e il tutto torna infine a Guru, il quale:

“[S]criveva lì per lì. Scriveva e scarabocchiava. [… Poi] Si metteva in cabina a leggere, […]. Improvvisava basandosi su quello che aveva scritto. E io lo registravo senza che lui sapesse che stavamo facendo un vero take, per avere un po’ di materiale su cui iniziare a lavorare. Mentre provava veniva addirittura meglio, perché una volta che sai che vieni registrato, ti impegni per farla bene. Ma era davvero veloce in cabina.”

Non sempre Guru è così veloce, ci sono dei giorni in cui si presenta in studio completamente ubriaco. Per esempio il giorno della registrazione di “ALONGWAYTOGO”:

“Guru era supersbronzo quando abbiamo registrato la voce. Ma mi piace il modo in cui suona. Se lo ascolti, ti accorgi che non è la solita attitudine di Guru. Ma suona bene. Se lo ascolti di nuovo ora che ti ho detto che era sfatto, te ne accorgi.”

O nel caso di “DWYCK”:

“Guru era completamente fuori, e all’inizio pensavamo: ‘Dovrà rifare la sua strofa’. Perché diceva qualsiasi cosa: ‘Eenie meenie miney mo’. ‘Lemonade was a popular drink…’ ‘Cosa significa?’ Era completamente confuso. Dicevamo: ‘Il suo verso è il più moscio’. E ora se lo senti, tutti lo amano!”

Ogni traccia dell’album nasconde una storia. C’è “The Planet”, pezzo che affronta il trasferimento a New York: meno che ventenni, sia Guru che Premier, partono dalle rispettive città natali, Boston e Huston, alla volta di New York, alla ricerca di un posto al sole.

“Nelle interviste [Guru] diceva sempre: ‘Tutto quello che avevo era un borsone e un sogno’. Questa era sempre la sua frase. Ho parlato con suo padre, che Dio l’abbia in gloria, e mi disse: ‘Ha riempito la sua borsa, ed è partito nella sua auto. La macchina si ruppe nel viaggio, e dovette farsi dare un passaggio’. Era da solo, nessuno con lui. Era lui con il suo lungo viaggio per farcela ad arrivare a New York.

“Io ero nello stesso lungo viaggio, ma vivevo in Texas. Sapevo che se fossi arrivato a New York, avrei potuto fare tutto questo seriamente. Avrei potuto farlo là, ma gli sbocchi e le connessioni non c’erano. Quindi decisi: ‘Fammi andare a New York. Se ce la faccio, sono a cavallo‘. Ho accettato la sfida, e sono arrivato senza paura. Lui fece la stessa cosa, e per questo si merita ogni riconoscimento ha ricevuto.”

O “DWYCK”, il cui solo titolo ci offre un piccolo spaccato di Brooklyn di quegli anni (incredibilmente simile alla vita nella provincia italiana):

“‘DWYCK’ era una cosa che facevano tutti al tempo. Biz Markie era davvero un mostro in quella cosa. È come beccarti con i calzoni abbassati. Dicevi qualcosa di incomprensibile a qualcuno per fargli dire: ‘Cosa?’, e allora lo facevi: ‘Hey, hai visto quel dadadada?’ e la gente diceva: ‘Cosa?’ e allora te facevi: ‘My dwyck!’ [afferrandoti il pacco]. Quindi l’abbiamo chiamata ‘DWYCK’, perché non avevamo un titolo. Al tempo, tutti avevano magliette con scritto, ‘My Diiiiiiiiiick’. Era un tormentone, quindi venne fuori così.”

“Now You’re Mine”, invece, è un pezzo nato inizialmente come colonna sonora di un film sul basket, White Men Can’t Jump, ma che tra le metafore cestistiche cela una tensione tra Guru e Primo, seguente una grossa lite tra i due:

“Questa era per White Men Can’t Jump. Io e Guru avevamo avuto una grossa lite in cui ci eravamo picchiati. Una davvero grossa. Vedi questi due segni? [Indica le nocche]. Questi sono i segni dei suoi denti. Non sono mai andati via. Era stata una grossa litigata, ma avevamo già avuto i soldi dall’etichetta [per fare la canzone per White Men Can’t Jump]. Lui era tipo: ‘Non ti parlo, non voglio lavorare con te mai più’. Riguardava qualcosa di molto serio, di cui non parlerò.

“Ricordo che venne [in studio], e aveva delle bende sulla testa. Aveva dei tagli per il fatto che ci eravamo spinti azzuffandoci. White Man Can’t Jump è a proposito del basket, quindi tutti i testi riguardano la pallacanestro. ‘Down the lane’, ‘in your eye’, ‘360 dunk in your face’. Tutto quello era per me. Mi guardava negli occhi tutto il tempo che era in cabina, e io lo guardavo, e fece la prima strofa in un take. Poi disse: ‘È buona?’ E io: ‘Si’. E lui: ‘Fanculo!’ E uscì dalla stanza. Era la prima litigata che abbiamo avuto nella nostra vita. Ma ne è venuto fuori un bel pezzo.

Per “Mostly tha Voice”, invece, c’è una spiegazione semplice e immediata.

“La voce di Guru è quello che me lo ha fatto piacere anche prima di conoscerlo. Sono fissato con le voci. Sono attratto dalla voce ancora prima di sapere come sei fatto, o prima di sapere qualsiasi cosa di te. Spero sempre che tu assomigli al suono della tua voce. Guru assomiglia al modo in cui suona. Rakim assomiglia al modo in cui suona. Run D.M.C assomigliano al modo in cui suonano. EPMD assomigliano al modo in sui suonano. Si accordano, stanno bene insieme. Alcune persone, le vedi e fai: ‘Merda, non assomigli per niente al modo in cui suona il tuo pezzo’. Noi avevamo le sembianze da Gang Starr. I nostri dischi ci rispecchiano.

“Mi manca così tanto. Ma sono successe delle cose buone. L’eredità appartiene a suo figlio, e a sua sorella maggiore. Stiamo facendo la cosa giusta. Abbiamo Gang Starr Enterprises che abbiamo lanciato insieme. Stiamo rimettendo in piedi il nostro sito, e apriremo il Gang Starr store [online] in un mese. Dobbiamo solo sistemare alcune cose con delle persone, ma ora non ci saranno più interferenze. Ora tutto andrà alla grande.”

Dovo vent’anni dall’uscita, Hard to Earn è ancora sorprendentemente potente. Di sicuro è una pietra miliare nella storia dell’hip-hop, un album imprescindibile per gli appassionati. E tutto ciò è ancora più sorprendente se si tiene a mente l’idea di partenza di questo lavoro: creare un album che fosse meno musicale possibile. Una sfida, insomma, che i Gang Starr hanno lanciato a sé stessi, all’industria, e alla musica. La fortuna aiuta gli audaci si dice, se poi hai il talento di questi due…