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Brain: l’intervista

05-02-2014 Marta Blumi Tripodi

Brain: l’intervista

Prosegue il nostro viaggio nelle eccellenze dell’underground italiano: stavolta tocca a Brain, che tutti abbiamo imparato a conoscere come 1/4 di Fuoco Negli Occhi, gruppo bolognese tra i più apprezzati in tutto il territorio. Anche da solista il nostro non delude affatto le aspettative: il suo Brainstorm è un lavoro maturo, completo e essenziale, che ricorda un po’ certe atmosfere cupe e asciutte della prima Def Jux. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui via Skype per parlare di questo e molto altro ancora.

Foto di Luca Benedet, tutti i diritti riservati

Blumi: Nonostante tu abbia solo trent’anni e faccia il rapper, in realtà conduci un’esistenza serissima: sei sposato, hai una figlia piccola e un’attività tua. In che modo la tua vita “matura” influenza i tuoi testi?

Brain: In modo laterale. Quando ho cominciato a radunare il materiale per il disco volevo che ogni traccia avesse una connotazione psicologica, ma proprio in quel periodo mi è capitata una lunga trasferta in Russia per lavoro. Sembra una cosa molto invidiabile, ma in realtà non è che hai tempo o modo di uscire e far ballotta: passare settimane a Mosca da solo vuol dire semplicemente rimbalzare da una riunione all’altra e poi la sera chiuderti nella tua camera d’albergo, magari bevendoti qualche whisky in solitudine. Oltretutto era un periodo particolare, perché facevo quel lavoro da poco e la bimba era praticamente appena nata. Mi è salito addosso un certo malessere, così ho iniziato a pensare che, visto che questo disco me lo riascolterò anche tra dieci anni, tanto valeva metterci dentro qualcosa del mio malessere di quel periodo. Magari in una chiave comprensibile a tutti, ma che mi avrebbe permesso di ricordare sempre dov’ero e come mi sentivo mentre scrivevo ogni strofa. È successo ad esempio per Autunno, la ghost track: ogni volta che la riascolto mi vien da pensare “Cazzo, che paranoia!”. L’ho scritta proprio in Russia: il giorno dopo avevo il volo presto e dovevo uscire dall’hotel all’alba, perché Mosca è una città talmente trafficata che se vuoi avere la speranza di arrivare in tempo all’aeroporto devi calcolare almeno due ore in più rispetto al tempo del tragitto. Sono andato a letto alle nove di sera, un po’ sbronzo, e non riuscivo a dormire: ho messo su un film di Albanese e poi uno di Fantozzi, ma il sonno ancora non arrivava. Così ho cominciato a scrivere, ed è andata a finire che ho passato tutta la notte in piedi, ma ne è valsa la pena, credo. Quel pezzo rappresenta in pieno il mio stress. Stessa cosa per Storia di un impiegato

B: Un pezzo che ho trovato a suo modo abbastanza angosciante.

B: Oltretutto può sembrare strana, la storia di un impiegato scritta da un imprenditore, ma fondamentalmente nell’Italia di oggi noi che abbiamo piccole attività siamo uguali ai dipendenti: la gente si immagina l’imprenditore pieno di soldi, ma tra spese e tutto il resto siamo in mutande anche noi. Tanto che, nel mio caso, il rap mi dà una grossa mano ad arrotondare.

B: In effetti oggi come oggi anche molti rapper fanno una vita da impiegato: tutti i weekend fuori a suonare per riuscire a tirare su due lire…

B: Esatto. Qualunque lavoro tu faccia – l’artista, l’operaio, l’artigiano, il capo – sei lì a correre costantemente nella ruota del criceto per due briciole.

B: Cambiando argomento, il sound del disco è estremamente minimale e cupo, una caratteristica che ti distingue parecchio dalla stragrande maggioranza del rap italiano. Dipende dal mood dei testi, per caso?

B: Sicuramente in parte è legato anche a quello. Però dipende soprattutto dal mio approccio al rap. Per quanto mi riguarda, meno roba c’è su un beat, meglio sto: le strumentali troppo piene mi mandano in paranoia, non riesco a ritagliarmi lo spazio per rappare. E comunque, quando scrivo a un produttore per chiedergli un beat, la prima cosa che gli dico è “Mi raccomando, mandamelo strano”. Odio le cose già sentite, mi annoiano. Per questo disco ho scelto un suono minimal, ma molto strumentale. Forse anche perché in quest’ultimo anno ho ascoltato molto Tyler, The Creator, che è asciutto e potente: è quella l’atmosfera che mi piace.

B: Parliamo degli interlude recitati, invece. Ascoltando Brainstorm questi inserti parlati colpiscono molto, ma esattamente cosa rappresentano?

B: Sostanzialmente ho inviato il disco a Murubutu, chiedendogli se gli andava di occuparsene: c’erano anche nel mio precedente disco, ma in quel caso li avevo affidati a Micha (sua socia nei FNO nonché sua moglie, ndr). Se nel primo disco si trattava spesso di veri e propri piccoli deliri, stavolta si trattava di un’operazione più studiata. Come nel caso di Carta e penna, che parla di un’ipotetica storia d’amore tra le due entità, e nel ritornello sintetizza: “Io con te solo guai/ senza me come fai…”. Il senso del pezzo è che l’uno senza l’altro sono inutili, ma magari insieme fanno danno. L’ho spiegato a Murubutu e lui ha rielaborato il concetto riscrivendolo e ri-recitandolo.

B: In Anonymous, che ha il featuring di Kiave e Madbuddy, dici che voi siete gli mc di cui non ricordi il nome, ma ricordi i pezzi. Un’affermazione che rivendichi con un certo orgoglio…

B: Sì, esatto. Era una riflessione che stavo facendo ultimamente: ormai se non fai un disco ogni sei mesi rischi che la gente si dimentichi di te. Da una parte è anche normale, volendo. La cosa curiosa, però, è che quando poi torni, e magari durante un live fai pezzi di cinque-sei anni prima, tutti li ricordano a memoria. E questo effettivamente è un grande motivo di orgoglio, per me, perché non è il personaggio a sopravvivere, ma le parole: vivi nei ricordi della gente con quello che conta davvero, e non con un’immagine che tutto sommato è superflua.

B: Restando sui brani dell’album: uno di quelli che senz’altro colpisce di più è Il regalo di Vincent, uno storytelling molto particolare dedicato a Van Gogh che ora è diventato anche il tuo secondo singolo. Come nasce?

B: Per quanto mi riguarda è il pezzo più bello del disco. L’idea nasce da una citazione che ho letto tempo fa, e che diceva qualcosa tipo “Il panorama che vedo è il più bello del mondo, anche se è l’unico che conosco”. Da lì mi è partito un viaggione pazzesco, ho cominciato a informarmi su Van Gogh e mi è venuto spontaneo fare il parallelismo tra l’artista che dona il proprio orecchio alla musica e lui che aveva donato il suo orecchio a una prostituta. Insomma, la questione di fondo è la follia dell’artista che non si sente riconosciuto e quindi s’incazza col mondo. Sono contento soprattutto perché ho sempre la sensazione che la gente non riesca mai a capire quello che dico – ad esempio, in questo caso avevo la paranoia che non si capisse neppure che parlavo di Van Gogh – e invece stavolta mi hanno compreso in pieno. Ad esempio ne avevo scritto uno in cui un carcerato scrive una lettera alla sua donna, dicendo che la aspetta da tutta una vita, e alla fine viene fuori che la tipa in questione è la morte. Solo che non si capiva granché, quindi alla fine ho lasciato perdere e non l’ho mai pubblicato. La mandavo alla gente chiedendo cosa avevano capito, e la risposta era “Niente!” (ride)

B: Forse ti andrebbe meglio provando a scrivere un racconto, più che un pezzo!

B: Ci ho provato un paio di volte, però non credo sia il mio campo. Ovviamente ho dei periodi in cui mi piacerebbe diventare uno scrittore: di solito d’estate, quando in vacanza leggo Bukowski… Però so bene di non essere Bukowski, e quindi lascio perdere! (ride)

B: Approfitto di questa intervista per chiederti anche qual è lo status attuale dei FNO. Lavorerete mai a un altro album insieme?

B: Diciamo che al momento FNO è un progetto congelato. Dopo Indelebile abbiamo deciso di dedicarci ai nostri lavori solisti, con l’intenzione di fare finire lì quel capitolo. Poi, ovviamente, Micha è mia moglie, Prosa mio cognato e Kyodo è uno dei miei più cari amici, perciò in realtà non è finito niente. Continueremo ad avere un legame fortissimo, ma non è detto che esca un altro nostro album insieme.

B: E approfitto anche per chiederti com’è andato il famoso Under Festival, di cui Hotmc era media partner, visto che insieme a Moder eri uno degli ideatori…

B: È andato molto bene, tanto che molti di noi della line up stiamo continuando a suonare spesso insieme. Lo spirito dell’evento era di ritrovarci tutti insieme per due giorni tra di noi, artisti underground e spesso sottovalutati, e creare una vera coesione. Volevamo fare qualcosa di davvero hip hop, e a conti fatti lo è stato. Speriamo già di poter mettere in cantiere una seconda edizione.

B: E a proposito di questo, progetti futuri?

B: Suonare in giro il più possibile. Ho un paio di altre cose in ballo, tipo una specie di tape, ma è davvero prematuro parlarne.