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Ghostpoet: l’intervista

06-05-2013 Marta Blumi Tripodi

Ghostpoet: l’intervista

Premessa: spesse volte i giornalisti – in particolare quelli che si occupano di musica – non sono propriamente dei geni del crimine. Arrivano all’intervista svogliati e mal preparati, e il risultato è un’intervista banale se non deludente. Viceversa, a volte sono gli artisti ad essere maldisposti e/o esausti causa promozione serratissima, e anche in questo caso la riuscita dell’articolo è compromessa. Ma qui non si parla né dell’uno né dell’altro caso, siamo a un livello ulteriore, raro ma già verificatosi in natura: quello della conversazione surreale. Quella con Ghostpoet, giovane astro in ascesa della musica alternativa inglese (non osiamo dire ‘urban’, dopo capirete perché, ma il termine più calzante in effetti sarebbe quello). Candidato al Mercury Prize, ovvero il riconoscimento più prestigioso e importante assegnato in Gran Bretagna, è attivo dal 2010 e ha già pubblicato un EP e due album, l’ultimo dei quali, Some say I so I say light, è uscito ieri ed è molto bello e apprezzabile, soprattutto per chi ama la musica black e i suoi derivati. Lo abbiamo incontrato proprio per parlare di questo, ma possiamo dire senza remore che ha smontato ogni nostra certezza sull’argomento. Letteralmente: fate la prova del nove e contate tutte le volte che la risposta contraddice l’assunto di partenza contenuto nella domanda. Si vocifera che il motivo di questo bastiancontrarismo, se così possiamo definirlo, sia il fatto che a un certo punto Ghostpoet abbia deciso di troncare tutti i rapporti e disconoscere quella scena rap inglese che gli aveva dato i natali. Difatti, quando arriva il nostro turno e ci presentiamo, ecco cosa succede…

Blumi: Immagino che ti abbiano detto che l’intervista è per un sito che parla di musica hip hop.

Ghostpoet: Sì, e la cosa mi lascia molto perplesso, perché non rispondo a domande sulla musica hip hop.

B: I tuoi lavori precedenti, però, erano piuttosto influenzati dalla musica rap e urban…

G: Ah sì, sul serio? No, non direi.

B: Ma la gente, sia pubblico che critica, così li ha percepiti. È chiaro che tu non ti senti parte di questa cultura musicale, però: perché?

G: Perché sono un fan della musica, non di un genere specifico. E quando penso alla musica non penso all’indie, al folk, al soul, alla dance, ma solo a come suona. È questo il motivo per cui non mi riconosco in un genere in particolare.

B: E di solito che tipo di musica ascolti?

G: (sbuffa sconsolato e tira fuori l’iPhone, ridendo) Per rispondere a questa domanda devo dare un’occhiata al telefono, perché ascolto così tanta roba diversa che neanche me la ricordo. Vediamo… Ultimamente ho sentito un sacco di musica jungle, che mi piace davvero parecchio. Poi ho ascoltato i Cream, un gruppo jazz giapponese di nome Soil & Pimp Sessions, un po’ di roba vecchia di Jimi Hendrix, Bibio, il leggendario batterista jazz Art Blackie, Serge Gainsbourg… Come vedi è una lista infinita e molto diversificata proprio perché, come ti dicevo prima, ascolto di tutto.

B: Come ti presenteresti al pubblico italiano, in particolare a tutti coloro che non hanno ancora avuto l’occasione di ascoltare la tua musica?

G: Vuoi davvero che lo faccia?

B: Sì, per favore.

G: Ciao a tutti, sono un essere umano residente sul pianeta Terra, più precisamente a Londra, Inghilterra, Regno Unito. Provo a fare una musica che confonda i generi, cosa che di solito confonde la gente: questo è tutto, più o meno. (ride)

B: Ascoltando il tuo nuovo album è difficile non pensare a Gil Scott-Heron e al suo spoken word. Pensi che sia un paragone azzeccato?

G: No, direi di no. Penso fosse un grande artista, ma non l’ho mai ascoltato abbastanza per poter affermare di essere influenzato dal suo sound. Essere paragonato a lui è un grande complimento per me, e non sei la prima persona a farmelo notare, ma in realtà la cosa non mi tocca più di quel tanto, perché per me è molto più importante essere visto come me stesso e non come la copia, l’erede o il seguito di qualcun altro. Voglio che la gente mi giudichi per quello che sono io.

B: Perciò immagino che se azzardassi un altro paragone, dicendoti che la tua produzione mi ricorda anche la prima scena trip-hop di Bristol, mi diresti che non ti riconosci neanche in questo…

G: Esatto, non mi ci riconosco. E anche in questo caso, non sei la prima giornalista a dirmelo! (ride di gusto)

B: Per te le interviste devono essere molto ripetitive: a quanto pare ti diciamo tutti le stesse cose e tu non ne condividi nessuna!

G: No, in realtà no, dipende. Il punto è che so chi sono e so cosa sto cercando di fare. Ed è importante che io riesca a farlo capire anche agli altri, perché quando ho rilasciato le varie interviste per il mio primo album non capivo ancora del tutto l’importanza degli incontri con la stampa, e non avevo idea di quanto le parole che pronunci in quei contesti ti definiscano e ti etichettino come artista anche in futuro. Oggi sono cresciuto, ho più chiara la direzione da intraprendere e ci tengo che tutti lo sappiano.

B: Quindi il complimento più bello che ti possano fare è che la tua musica è unica e non assomiglia a niente…

G: Non vado in cerca di complimenti, l’unica cosa che mi interessa è che la gente la ascolti, la mia musica! (ride) E se la gente lo fa, bene, se no pazienza. Non voglio essere visto come un artista unico e fuori dal mondo: ce ne sono tanti altri che erano molto più unici di me. Io voglio solo essere in grado di creare costantemente musica, che è la mia vera passione, la prima cosa a cui penso quando mi alzo la mattina e l’ultima prima di andare a dormire.

B: Qual è il significato del titolo dell’album, Some say I so I say light?

G: È una specie di reminder per ricordarmi di essere me stesso. Significa questo: la gente dice una qualsiasi cosa, tipo “Io”, mentre io dico qualcosa di completamente diverso, tipo “Luce”. Seguo il mio percorso personale, insomma. Ho bisogno di tenerlo bene a mente, perché a questo mondo siamo tutti singoli individui e voglio che la mia voce sia fuori dal coro.

B: Hai prodotto personalmente le tracce del disco: come mai questa scelta? Non c’è nessun produttore con cui avresti voglia di collaborare?

G: No, non c’è nessuno con cui vorrei collaborare. Certo, se la collaborazione fosse fatta nell’ottica di portare la mia musica a un livello più avanzato in maniera creativa, la prenderei in considerazione. Ho iniziato a farmi conoscere tramite Myspace e all’epoca un sacco di producer mi mandavano le loro cose, chiedendomi di lavorare insieme, ma c’era qualcosa che non funzionava. Era come se il suono che sentivo uscire dalle casse non fosse il suono che sentivo nella mia testa. Perciò ho deciso di provare a tirare fuori quel suono dentro la mia testa e a concretizzarlo. So di non essere un gran produttore, ma i miei lavori sono un riflesso di me stesso ed è questo quello che conta.

B: Ovviamente le liriche sono importantissime in una musica come la tua…

G: No, direi che è 50 e 50.

B: Okay, come non detto. In ogni caso, qual è il tuo testo preferito, tra quelli che hai scritto finora?

G: Non ne ho uno. È come se fossero tutti figli, per me: come fai a scegliere il tuo preferito? Li amo tutti allo stesso modo. E inoltre, una volta che li ho registrati per me è fatta: non penso più a loro, non ci rimugino su. Fotografano un determinato momento nel tempo e basta.

B: Di solito prima ti occupi dell’aspetto musicale e poi scrivi, o viceversa?

G: Prima produco e poi scrivo. Faccio sempre così perché è la musica a guidarmi e a dirmi dove vuole che vada il testo. Cerco di creare emozioni tramite la musica, e voglio che sia il testo a sposare la musica e a diventare tutt’uno con lei.

PS, anzi, ndr: ironia a parte, l’album è davvero piacevole da ascoltare. Gli si perdona volentieri il fatto che risponda “No, not really” a tutte le domande. Dategli un ascolto e non ve ne pentirete.