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Ghemon / Gilmar: l’intervista

23-04-2012 Marta Blumi Tripodi

Ghemon / Gilmar: l’intervista

Qualche mese fa, l’artista un tempo conosciuto come Ghemon Scienz annunciava con una nota su Facebook il suo addio al rap, trascinando fan e detrattori nella più totale confusione: c’è chi si è convinto che Ghemon (ora conosciuto anche come Gilmar) avrebbe smesso di fare musica, c’è chi ha pensato a una trasformazione radicale, c’è chi ha sperato in un ripensamento. Il diretto interessato, nel frattempo, ha sfornato uno degli album più belli dell’anno, il visionario Qualcosa è cambiato/qualcosa cambierà, il cui titolo è già tutto un programma. E questo non è che il primo passo. Quale sarà il secondo? Ne abbiamo parlato con lui in un’intervista un po’ atipica, la cui premessa è proprio questa: non si parla di rap, ma si parla di musica. Ci siamo riusciti? Ai posteri l’ardua sentenza.

Blumi: Come da accordi, in questa intervista cercheremo di NON parlare di rap.

Ghemon: Magari così sarà anche più divertente leggerla! (ride)

B: Partiamo dal titolo dell’album, Qualcosa è cambiato/Qualcosa cambierà. Qualcosa, effettivamente, è già cambiato nella tua musica, nella tua carriera, nel tuo pubblico. Cos’altro deve ancora cambiare, nei tuoi auspici?

G: Tante cose! (ride) Qualche settimana fa non ti avrei risposto allo stesso modo, pensavo che il grosso fosse già successo o stesse per succedere. È stato il Redbull Bass Camp a cui ho partecipato recentemente (a marzo 2012 a Vercelli, ndr) a farmi scattare qualcosa in testa: ho capito che non mi interessa più dedicarmi a un genere particolare, ma che voglio fare musica a 360°. Naturalmente, però, devo arrivarci per gradi: non è che domani imbraccio la chitarra e all’improvviso sono in grado di suonarla.

B: Che cosa è successo, esattamente, in questo camp della Redbull?

G: Mi hanno scelto loro: è una specie di workshop per musicisti selezionati, un assaggio di quello che sarà la Redbull Music Academy di quest’anno (Redbull Music Academy è un workshop intensivo organizzato ogni anno dal celebre brand, in cui un gruppo di selezionatissimi musicisti emergenti di tutto il mondo prendono lezioni e fanno laboratori con i più grandi musicisti di sempre, ndr). Ho conosciuto persone di tutta Italia, provenienti da generi musicali completamente diversi, tra cui molti “profughi” in fuga dall’hip hop anni ’90, stufi degli integralismi della scena dell’epoca. All’epoca in effetti c’era un approccio un po’ nazista, mentre oggi siamo arrivati all’eccesso opposto: la democrazia più assurda e sregolata, che sfocia quasi nell’anarchia. Tornando al camp, la cosa più importante che ho capito lì è questa: la bella musica ha un nucleo comune e poi si declina in mille modi. Mi rendo conto che le mie possano sembrare solo chiacchiere, probabilmente la gente capirà il senso di quello che ho detto solo quando ascolterà i risultati concreti del mio ragionamento. Fino ad allora, forse percepirà solo un atteggiamento mentale un po’ diverso da parte mia, come è successo anche con questo disco. Io non lo considero già più hip hop, ma l’ascoltatore X lo decodifica comunque come rap, me ne rendo perfettamente conto.

B: Esiste anche del rap che non è hip hop, però, o dell’hip hop che non è rap…

G: Ci tengo comunque a dire che io amo profondamente l’hip hop, e non ho problemi neanche col rap, giuro! (ride) Se voglio cambiare è solo per una questione mia, di espressività.

B: Facciamo un gioco. Se domattina tu ti svegliassi e fossi diventato improvvisamente un supermusicista alla Raphael Saadiq, di quelli che sanno rappare e cantare divinamente, suonano tutti gli strumenti, producono e sono pure in grado di mettere le mani su un mixer, come sarebbe il primo album che sforneresti?

G: Mi piacerebbe realizzare l’album dei Bon Iver che incontra Voodoo di D’Angelo. Un disco lentissimo, insomma! (ride) Vorrei creare un miscuglio di suoni tale per cui gli ascoltatori si troverebbero a esclamare “Bellissimo, ma che genere è? Forse non è importante capirlo”.
B: Un po’ come se tu ti volessi creare un tuo genere musicale da zero…

G: Certo, non vedo perché no. Qualcosa che o non andrà da nessuna parte, o andrà dappertutto… Fermo restando che, parlando in maniera del tutto sincera, tutti sognano che la propria musica arrivi a chiunque e tutti sognano di diventare il numero uno. Io vorrei essere il numero uno in quello che faccio, anche (e soprattutto) se il numero uno volesse dire che sono l’unico che fa quella cosa lì. A seconda di chi mi osserva, io posso essere considerato un sognatore visionario o una testa di cazzo: la cosa non mi turba particolarmente né mi butta giù, è la storia della mia vita! (ride)

B: Anche perché in questo momento c’è ben poco da buttarti giù: il disco è andato molto bene, in tutti i sensi possibili…

G: Sì, è vero, il disco è senz’altro andato bene, ma l’immagine che ho di me è sempre la stessa di sempre: quella che vedo riflessa nello specchio quando mi alzo la mattina, con l’aria spettinata, stanca e disastrata! Non mi sento certo arrivato, e neanche molto più tranquillo di prima. Continuo a chiedermi che ne sarà di me, cosa devo fare, dove devo andare. Sapere che da grande farò il musicista è già un punto di partenza, ma non mi dà molte certezze.

B: Tornando ai generi musicali, all’estero è pieno di persone che hanno un background musicale da autodidatta e riescono a rivoluzionare alcuni generi o addirittura a inventarne di nuovi. In Italia, invece, spesso abbiamo musicisti tecnicamente molto preparati, che però non riescono ad innovare granché. Secondo te, come mai succede questo?

G: Non credo che esista un’unica risposta. Penso sia soprattutto paura, perché abbiamo un apparato di musica tradizionale molto ingombrante e temiamo che sfuggendogli non possa succedere niente di buono. Poi c’è anche il solito discorso da discografico: “complimenti, è tutto molto bello e innovativo, ma non c’è il pubblico adatto a recepirlo, per cui lasciamo perdere”. Inoltre, fattore molto importante, l’Italia è un paese di cover band. Altrove c’è una competizione pazzesca tra i musicisti, una gara a sfornare la roba più innovativa: qui finisce tutto a tarallucci e vino. Un qualunque gruppo che gira per sagre e matrimoni cantando canzoni di altri guadagna più di me che faccio musica originale: è gravissimo, bisognerebbe promuovere chi mette in circolazione idee nuove. Come fanno in America, ad esempio, dove leggenda vuole che i locali che fanno musica dal vivo non accettino cover band. E infatti, i musicisti sono spronati a creare pezzi propri e non a suonare quelli degli altri. Dovremmo cominciare a seguire il loro esempio, e in questo nell’hip hop siamo avvantaggiati, perché ciascuno si scrive i propri brani.

B: A questo punto, nonostante le premesse dell’intervista, ci tocca parlare almeno un attimo di rap. Che ruolo avrà nel tuo prossimo progetto?

G: Senz’altro avrà un ruolo importante, la matrice sarà ancora sicuramente quella hip hop, ma con meno obblighi: inserirò strofe rappate in molti pezzi, ma solo se e quando mi andrà di farlo. Il rap non è più sufficiente a contenere tutto quello che voglio dire. Non voglio più essere legato a un linguaggio, perché sento che la mia comunicazione ne risentirebbe. Ho compiuto una serie di passi in un’altra direzione e non voglio tornare indietro. Fermo restando che nella vita ci si sbaglia, ci si ricrede, ci si riprova, quindi non ho certezze. Ci penserò più avanti! Per ora mi godo questo momento, che già è importante e impegnativo.

B: Sei uno di quelli che riascolta il proprio ultimo album, oppure lo accantoni e passi oltre?

G: Di solito non lo ascolto più. Non perché non mi rappresenti – mi rappresenta senz’altro, visto che l’ho fatto io – ma perché preferisco non concentrarmi troppo sul passato, semplicemente. Non c’è una regola, comunque: magari non lo riascolto per un anno intero, poi lo riprendo e lo riscopro, scoprendo cose belle, cose buffe, cose inaspettate.

B: Sembra ormai chiaro che tu abbia deciso di iniziare a cantare (o perlomeno di iniziare a farlo più spesso, visto che già nei tuoi pezzi c’è una forte componente di questo tipo). Come ti trovi, per ora?

G: È tutto molto strano, ma comunque molto bello: mi ricongiunge a qualcosa che già conoscevo bene, perché il soul mi ha sempre appassionato molto. Poter cantare un pezzo, che sia tuo o che sia uno dei classici che preferisci, è una soddisfazione enorme, ma anche vedere la sorpresa della gente quando ti sente cantare è una sensazione stupenda. Poi, ovviamente, ciascuno ha la propria opinione: una volta ho visto in tv una vecchia tavola rotonda con presente Battisti, in cui i critici di allora gli dicevano di smettere, perché di cantare non ne era proprio capace… Sicuramente ci sarà qualcuno che la pensa così anche su di me, ma la cosa non mi abbatte, non troppo almeno. Nel mio lavoro è una prassi normale.

B: Scrivere per il rap o scrivere per cantare è in qualche modo diverso, per te?

G: Certo, ma io parto dal presupposto che mi sto buttando a fare una cosa nuova, perciò cerco di non pensarci troppo. Provo a mutuare dinamiche e ritmiche che vengono dal rap, personalizzando il mio modo di cantare, e vediamo cosa ne viene fuori.

B: Un’altra cosa che succede spesso all’estero è che la maggior parte dei dischi (soprattutto quelli cantati) hanno un produttore artistico, ovvero una figura esperta che ti aiuta a trovare un suono nuovo ed efficace: un po’ come fece Quincy Jones per l’esordio solista di Michael Jackson, insomma. Qui in Italia ce l’hanno soprattutto gli artisti che escono sotto major, gli altri sono tutti abituati a lavorare da soli…

G: A me piacerebbe molto averne uno. Per ora, per la parte cantata, chi mi dà una mano in questo senso è senz’altro Al Castellana, ma per l’80% delle cose mi occupo di tutto da solo. Sono convinto che però il lavoro di squadra sia sempre utile, perché qualunque talento va incanalato in maniera costruttiva; fermo restando che ognuno deve rimanere se stesso e avere comunque delle idee autonome, perché altrimenti il direttore artistico finisce per dettarti il disco per filo e per segno, più che aiutarti a crearlo. L’essenziale è avere una persona accanto che ti capisca e ti aiuti a realizzare la tua visione.