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Mayer Hawthorne: photo report + intervista

04-04-2012 Marta Blumi Tripodi

Mayer Hawthorne: photo report + intervista

Di Mayer Hawthorne avevamo già parlato: rappresentava il soul della Stones Throw prima ancora che Aloe Blacc raggiungesse un successo planetario. Recentemente ha lasciato l’etichetta, ma lo spirito resta lo stesso. Il suo è un talento incredibile, di quelli che difficilmente avranno replica o seguito. In occasione del suo concerto milanese lo abbiamo intervistato e immortalato sul palco. Enjoy!

PH: Giulia ‘Ghostdog’ Alloni, tutti i diritti riservati. Un ringraziamento a Barley Arts per le autorizzazioni.

Blumi: Per quest’ultimo album, How do you do, hai abbandonato la Stones Throw. Qual è il motivo di questa separazione?

Mayer Hawthorne: Io e Peanut Butter Wolf abbiamo litigato e alla fine ci siamo presi a mazzate, ciascuno cercava di mettere l’altro ko… (ride) Ovviamente scherzo. Io amo la Stones Throw, mi sento ancora parte della crew e porterò sempre alta la loro bandiera. Però per me era il momento di provare ad allargare la mia audience, e la Universal Republic ha condiviso davvero la mia visione: non hanno cercato di cambiare la mia musica e trasformarla in qualcos’altro, anzi, hanno capito il mio progetto e hanno deciso di aiutarmi a ingrandirlo. È la prima volta che mi trovo a lavorare con una major, e finora è stato grandioso; ero molto riluttante e spaventato all’inizio, pensavo che avrei perso tutto il controllo creativo. In giro si sentono un sacco di storie orribili riguardo a questo tipo di situazione. Per ora però va tutto a meraviglia, e spero che continui così.

B: Tu suoni praticamente qualsiasi strumento e sei perfino un sound designer, oltre che un cantante, un compositore e un produttore. Come si fa a diventare così versatili?

M.H.: Bella domanda! (ride) Soprattutto provando e riprovando. Suonare è la cosa che mi piace di più, ma non ho nessuna istruzione: non ho studiato musica in nessuna scuola, per intenderci. La mia è più che altro passione. La maggior parte degli strumenti che suono, non li suono poi così bene, ma per me è parte della sfida e del divertimento. Mi piace spronare me stesso a imparare cose nuove e a migliorarmi.

B: Sei cresciuto a Detroit, la patria della Motown, ai tempi ribattezzata Hitsville USA tanto era musicalmente prolifica. Che tipo di influenza ha un luogo così ricco di tradizione per un musicista soul come te?

M.H.: Detroit è una città molto creativa, anche perché non ci sono molti lavori disponibili e non girano soldi: credo che questo spinga la gente a tirare fuori il proprio estro e talento, tanto che è pieno di artisti che provengono da lì. Sfortunatamente, però, non c’è una vera industria a supportarli, perciò devono emigrare a Los Angeles come me, o a Londra e a New York. Ovviamente la Motown è una faccenda molto seria laggiù, è la nostra eredità musicale, ma siamo molto fieri anche della techno di Detroit, di Iggy and the Stooges, degli Mc5 e di tutto il rock’n’roll, dei White Stripes… E ovviamente della meravigliosa scena hip hop locale: J Dilla, Eminem e tutti gli altri. C’è anche una scena jazz pazzesca: in pochi si rendono conto che le canzoni della Motown nascono tutte da lì. Negli anni ’60 non esistevano veri e propri musicisti soul, c’era solo gente che suonava jazz, e Berry Gordy (il fondatore dell’etichetta, ndr) reclutava questi artisti eccezionali pescandoli dai vari club e trascinandoli in studio per registrare. È un posto molto vario, e oltretutto è proprio nel bel mezzo degli Stati Uniti, perciò gode delle influenze musicali incrociate di California, New York, Memphis, Florida. È come se tutte queste realtà si scontrassero tra loro nel centro di Detroit. Gli artisti della città sono un gruppo ben assortito e pieno di sfumature, insomma.

B: In effetti la scena hip hop di Detroit è molto particolare, forse è la più sperimentale che ci sia negli Stati Uniti. Tu l’hai frequentata, quando abitavi lì?

M.H.: Sì, bazzicavo molti rappusi genialoidi, creativi e folli! (ride) Ancora oggi frequento parecchi musicisti hip hop, ascolto rap tutti i giorni e lo suono quando mi chiedono di fare il dj a qualche serata. È una parte molto importante della mia musica, ha un’enorme influenza sul mio stile e perfino sul modo in cui vivo la mia vita. Sono cresciuto negli anni ’80 e ’90, non certo nei ’60: non so com’era la situazione quando c’era la Motown, io appartengo alla generazione dell’hip hop ed è la cosa che conosco meglio. Ha avuto un impatto enorme sulla mia esistenza.

B: Sei un grande appassionato di musica di tutti i generi. Se tu dovessi consigliare un album recente che ascolti spesso in questo periodo?

M.H.: Ho il privilegio di avere un artista come Benny Sings (cantante olandese, ndr) che mi accompagna in questo tour ogni sera. Il suo nuovo album, ART, al momento è senz’altro il mio preferito. È incredibile, dategli un ascolto e non ve ne pentirete, ve lo garantisco.