La location è “L’officina dello spruzzo”, l’Hit Factory brianzola, lo Studio 54 di Desio, incrocio tra un garage ed uno stile di vita. Dall’altra parte Bod e Gasto accompagnano con sonore risate l’evolversi dell’intervista.
Per completare un puzzle hai bisogno che i tasselli vengano collocati al loro giusto posto. Facendo attenzione che non ne manchi nessuno, evitando che si smarriscano. L’assenza di un tassello inficia la comprensione del tutto. Abilità e pazienza, voglia di osservare.
Ape arriva al terzo capitolo di una saga iniziata qualche tempo indietro. “25”, “Generazione di Sconvolti”. “Morgy Mo’ e la gente per bene”. Un filo nient’affatto invisibile lega in maniera salda i suoi tre dischi. Come tasselli di un puzzle. Adesso il mosaico è chiaro.
Nella presentazione di “Morgy Mo’ e la gente perbene” viene definito come un “audio novel”. Cosa intendi con quest’espressione?
“Audio novel” esprime l’idea di fondo del disco: realizzare uno storytelling unico; l’album è composto infatti da 14 tracce che vanno a raccontare la storia del personaggio Morgy Mo’. L’aspetto più figo è che la tecnica dello storytelling mi ha permesso di utilizzare accorgimenti tratti dai film: ad esempio, l’episodio che apre il disco è in realtà la conclusione del racconto, tecnica che ho ripreso da “Carlito’s Way” di De Palma, film citato anche in uno skit dell’album; l’inizio del disco descrive dunque la situazione finale: il protagonista steso al suolo, moribondo. Da lì inizia il lungo flash-back attraverso cui si ripercorre il racconto. Ogni pezzo ti porta quindi sempre più vicino a quello che sarà l’epilogo di una famigerata lite; nell’arco delle tracce vengono descritti i personaggi che susseguono durante questo arco temporale.
Ci sono poi dei pezzi come “Zapping” piuttosto che “Reportage” o “Mania” che in realtà non sono proprio parte integrante dello story-telling; sono semplicemente delle “valvole di sfogo” rispetto alla storia, perché tenere la concentrazione focalizzata per 50 minuti sulla stessa storia non è affatto semplice. In quei pezzi approfondisco delle tematiche, dei pensieri miei, che è come se uscissero dalla bocca del personaggio.
Dunque il tutto ruota intorno al personaggio di Morgy Mo’: quanto c’è di Ape in Morgy Mo’ e quanto di Morgy Mo’ in Ape? Tu in che rapporto sei con questo personaggio? E’ esclusivamente una tua riproposizione autobiografico oppure si tratta radicalmente di un altro viaggio?
C’è molto di Ape in Morgy Mo’, nel senso che è una sorta di alter-ego; diciamo che questo disco a livello di tematiche va a riprendere delle cose che la gente è abituata a sentire da me, ad esempio i riferimenti alla quotidianità, la semplicità delle cose…nulla che sia troppo cinematografico. Il discorso del personaggio mi è piaciuto poiché si tratta di un modo diverso di raccontare certe situazioni che ho già descritto negli altri dischi; il personaggio diventa quindi una trasposizione di quella che è la mia realtà. Il fatto di narrare in terza persona ti permette magari di osare qualcosa in più su certe cose; ad esempio un pezzo come “Sogni di malavita” è ovvio che si tratti di un episodio sopra le righe, che assolutamente non mi riguarda. Attraverso gli occhi di Morgy Mo’ posso descrivere magari fatti che ho vissuto da spettatore e non in prima persona.
Morgy Mo’ e la gente perbene: gente che tu definisci debole, vuota, inutile. Non hai una grande opinione della gente che incontri tutti i giorni…
Non è che tutta la gente sia così, intendiamoci; per “gente perbene” intendo quel tipo di persona che dietro all’apparenza rispettabile e sincera cela la natura del pezzo di merda…Personaggi infimi, ecco. Il concetto della “gente perbene” è proprio questo. Ad esempio, nel pezzo “In caserma” si parla di un certo tipo di poliziotto, che al primo impatto può sembrarti rispettabile ma in realtà si comporta in un certo modo. Oppure il tamarro descritto in “Serata da freak”, che magari in un altro contesto è il bravo ragazzo del quartiere ma alla fine ne combina di ogni. Sono andato a prendere quei casi che mi sembravano più lampanti, emblematici, come la tipologia di donna descritta in “Bad mama”, che te la fa annusare ma in realtà…Quando fai un disco il cui scopo è parlare di cose reali devi prendere delle situazioni più “estreme”, perché di fronte al rischio che la realtà cruda e semplice non offra spunti per delle canzoni, estremizzando hai la possibilità di concentrarti su aspetti più interessanti.
C’è una frase del disco che tra le altre mi ha colpito: “Sentirsi sazi / anche se restano solo gli avanzi”. Non si tratta di una prospettiva forse troppo cinica?
Guarda, è la filosofia dell’accontentarsi…A volte basta anche accontentarsi per essere tranquilli, senza farsi troppi problemi. Ritengo che questo modo di ragionare aiuti molto; non è il punto di arrivo, beninteso, non sono solo una persona che si accontenta delle cose: mi impegno al massimo in tutto ciò che faccio, cerco anch’io di vivere al meglio possibile. In quella frase però alludo a quello che in realtà è un dato di fatto; in quella strofa in particolare descrivo i problemi che ti portano a mandare tutto affanculo e ad accontentarti, in certi casi succede così. Non è però una rassegnazione, è un modo per dire “ma chi cazzo me lo fa fare, vado avanti per la mia strada, tanto per come vivo io come persona, che decida di lottare o di non farlo, finchè ho voglia di vivere non c’è nessun problema”. Non è lassismo o voglia di non fare un cazzo, è constatare che se certe battaglie sono perse in partenza non mi ci metterò neppure a combatterle, me ne sto per i cazzi miei, è questo il concetto. Un concetto apolitico, se vuoi, così come lo sono io…Mi considero molto apolitico, a me non me ne frega un cazzo dell’ideologia strumentalizzata, mi interessa vivere come persona la realtà di tutti i giorni. Sempre, ovviamente, calato nel mondo. Cerco però di mantenere un’ottica che rimanga “limitata” alle situazioni in cui interagisco, diciamo. Non me ne frega niente dell’ideologia di massa, penso che sia la morte dell’individuo. Sono molto individualista, ecco.
Ma non pensi che se l’individualismo venga portato all’estremo si corra il rischio di vivere in una società che non sia più una società, in cui ognuno vive con il culto di se stesso, per i cazzi suoi e disaggregato rispetto al resto? Ognuno che vive la sua vita estraneo a quella degli altri, mettiamola così.
Io quando parlo di “individualismo” non escludo certo l’interazione con le persone; “individualismo” per me significa partire dal presupposto che io sono l’unico responsabile delle mie idee e delle mie azioni, non mi nascondo dietro il gruppo. E’ ovvio che senza l’aspetto interattivo non si possa vivere neppure mezzo minuto. Mi sta sul cazzo chi assume l’ideologia come alibi, semplicemente. Non so, il dibattito politico, l’indulto e temi simili, non mi riguardano proprio; non perché mi senta superiore, è soltanto un modo per mettere a fuoco in maniera più efficace la mia realtà. La mia è una prospettiva molto egoista, non lo metto in dubbio.
Tornando al tuo disco, quando prendi concretamente in mano il cd la prima cosa che salta all’occhio è la grafica, curatissima nei dettagli e nelle immagini proposte nel booklet. Quanto la grafica rientra nel discorso del concept? Cosa rappresentano queste raffigurazioni?
La grafica è assolutamente parte integrante del progetto, infatti l’uscita del disco è stata ritardata di parecchi giorni proprio perché la grafica ha richiesto dei tempi di lavorazione un po’ più lunghi. La gestione del tutto è stata affidata a Question Mark, dunque Sir Bod ed i suoi collaboratori. L’idea era quella di ricalcare quelli che erano i personaggi o le situazioni descritte all’interno del disco; la grafica deve dare l’idea della narrazione. Un esempio è la numerazione dei brani, che parte dal “14”, dunque dalla fine: esprime subito lo spirito con cui bisogna interpretare il concept. Il pezzo 13 ti descrive il contesto, il luogo dove succederà il fatto; il 14 racconta la lite e le sue motivazioni; la prima traccia ti mostra il personaggio steso al suolo; dalla 2 in poi parte la narrazione vera e propria. Si parte con un pezzo come “Il Problema”, il cui scopo se vuoi è quello di presentare il protagonista e le sue idee. Poi c’è “Zapping”, in cui Morgy Mo’ mentre guarda la televisione esprime le sue opinioni, e via andare tutti gli altri brani. I personaggi del booklet presentano tutti un significato particolare; ogni pezzo ha la sua immagine, diciamo. Ad esempio “la doppia faccia” raffigura politica e potere, il mafioso che stringe la mano all’uomo politico. I disegni sono stati dapprima realizzati su carta e poi trasposti in formato digitale. Ci tenevamo molto che l’aspetto visivo fosse curato al massimo; ad esempio tutti i promo e le interviste abbiamo voluto che uscissero soltanto con la grafica definitiva, proprio perché questo disco deve prenderti completamente, a partire dalla copertina. Mi sono reso conto che quest’album non è di immediata comprensione; la grafica volevo dunque che fosse lo strumento più semplice per immedesimarsi nel mondo del disco.
A me piacciono molto quei dischi in cui i diversi pezzi a parecchia distanza dal primo ascolto riescono ancora a trasmetterti delle nuove sfumature; tuttavia non temi che in questo preciso momento tutto ciò possa nuocere al disco? Mi spiego; ora che va per la maggiore un certo tipo di rap, più “leggero”, se vuoi, certo disimpegnato, sulla falsariga di sonorità americane, ora che per suonare “fresco” devi riproporre per forza modelli statunitensi, non hai paura che un cd come il tuo, a cui devi sinceramente rapportarti, possa venire presto accantonato da ascoltatori meno “pazienti”?
E’ lo stesso problema che ho affrontato anche con i miei precedenti lavori, avendo sempre fatto album molto personali; so benissimo che i miei pezzi non incontrano il favore di tutti. Molti quando ascoltano un cd non hanno voglia di pensare o di starci dietro, ad esempio. A me sinceramente non interessa, prima di tutto perché mi viene naturale fare questo, sarebbe una forzatura adattarsi ad uno stile differente; inoltre un disco così complesso, pur non essendo assolutamente nulla di nuovo poiché la tecnica dello storytelling è solo un metodo come un altro per mettere insieme delle canzoni, è senza dubbio più difficile da digerire, sono consapevole di ciò, ma a livello creativo un disco del genere mi galvanizza molto più che inseguire le mode o le tendenze più recenti. Il discorso dei suoni non me lo pongo neppure. So che probabilmente mi auto-limito, ma a me va bene così. Lavoro per un’etichetta indipendente, mi ritengo un artista indipendente: non perché chi lavori con le major sia un venduto, anzi, semplicemente perchè ho quell’approccio e quel piglio tipici di chi già da sé si auto-limita. Mi va benissimo questa dimensione. Questo disco nello specifico è molto più difficile rispetto ai due che lo hanno preceduto, pubblicarlo proprio in questo momento è stato un rischio; abbiamo rischiato, vedremo come va.
“Morgy Mo’”, stando alle tue parole, chiude il viaggio iniziato con “25” e proseguito con “Generazione di sconvolti”. In “25” si ascoltava un Ape inteso nel senso più “intimistico”; “Generazione di sconvolti” allarga la prospettiva includendo i tuoi coetanei ed alla gente che ha condiviso le tue stesse esperienze; “Morgy Mo’ e la gente perbene” estende ulteriormente il focus andando ad analizzare il complesso della vita quotidiana e ciò che essa implica. Può essere una chiave di lettura corretta?
Alla fine il presupposto è sempre lo stesso: la quotidianità. Sono diversi i punti di vista, come hai sottolineato tu. In prima persona “25”; da fuori in “Generazione”; con l’alibi del personaggio in quest’ultimo lavoro. Fondamentalmente il concetto è questo. Quando dico che “Morgy Mo’” chiude il viaggio intendo che pone la parola “fine” ad un capitolo importante della mia vita che va dal 2004 al 2007; penso di avere esaurito quelle tematiche, quelle situazioni che mi hanno permesso di descrivere la realtà in un dato modo. Non è che adesso farò roba completamente diversa; però se fino ad oggi il presupposto che ho mantenuto costante era di raccontare utilizzando un certo tipo di immagini, nei prossimi lavori – a cui con calma sto già iniziando a lavorare – abbandonerò questo filone. Quindi se vuoi la morte del protagonista del mio album va intesa anche in questo senso, come metaforica conclusione di un periodo.
Una curiosità mia: oltre al richiamo più evidente, quello di “Carlito’s Way”, in questo album, così come nei tuoi dischi precedenti, sono frequenti i riferimenti alla malavita americana, gangster e affini. Passione personale?
Sono affascinato dalle atmosfere noir e dai gangster movie in particolare, mettiamola così. Mi piaceva l’idea di riproporre quel gusto anche nelle mie canzoni; è nato così in particolare un pezzo, “Sogni di malavita”, che è proprio lo strippo da gangster anni ’70…sempre in maniera molto easy, ovviamente. Spero si capisca che sia quella traccia sia l’annesso skit vanno interpretate in maniera ironica.
Le collaborazioni nel corso dei tuoi 3 lavori sono rimaste sempre grosso modo le stesse, sia al microfono che alle produzioni; come mai? Non ti è mai venuta la voglia di cambiare o di allargare questa cerchia?
Ti dico la verità, c’è un sacco di gente con cui mi piacerebbe collaborare; il problema è che per ogni collaborazione, secondo la mia concezione del rap, ci dev’essere una base personale, un’amicizia, un qualche feeling. Una collaborazione a distanza senza intrattenere neppure un minimo rapporto non mi interessa. Con Luda e con Phil ho lavorato a distanza, Zampa ha registrato per i fatti suoi a Verona, per dire, tuttavia si era creata una situazione di comprensione reciproca. Il discorso featuring è un aspetto che pianifico sin dall’inizio del lavoro, quando so già bene o male dove voglio andare a parare; non riesco ad inserire collaborazioni all’ultimo momento. Essendo all’inizio del lavoro, scelgo quelle persone con cui ho già un certo feeling, quelle a cui spiego che se voglio scrivere una certa roba mi conoscono e la capiscono.
Nella nostra ultima intervista – si era nell’ottobre 2005, un anno e mezzo indietro – si parlò della situazione dell’hip hop in Italia, della nicchia, dei target ridotti e delle famigerate mille copie come obbiettivo massimo. In questi venti mesi le cose sono cambiate parecchio, da Marcio e Fibra per arrivare ai Dogo, passando per Amir e Inoki. Sta cambiando qualcosa? Pensi che ci sia stato per la scena indipendente a cui prima facevamo riferimento un ritorno positivo? Oppure a breve tornerà tutto al deserto di prima?
Sicuramente a livello di visibilità ne guadagna tutto l’ambiente, anche perché finalmente sono quelli davvero bravi che ottengono un contratto. Prima c’era sempre qualcosa da dire su quelli che firmavano con una major, ora invece fanno successo quegli artisti che in maniera razionale ed oggettiva sono inattaccabili. Purtroppo temo che oltre questa visibilità per noi indipendenti ci sia ben poco, credo si tratti di un fenomeno localizzato a quei dischi e a quegli artisti. La gente che acquista il disco di un artista approdato al mainstream non è detto che poi passerà ad ascoltarsi l’album di un indipendente. Effetti immediati sul nostro ambiente non credo ce ne saranno – almeno, non è automatico che se ne verifichino.
E a te non piacerebbe questo “grande salto”?
Non sono assolutamente appetibile per una major, non penso di avere i requisiti necessari. Molti dai tempi di “25” mi dicono che certi miei pezzi, quelli più orecchiabili, potrebbero tranquillamente passare in radio; oltre alla bella canzone per ottenere un contratto ed un hype mediatico è però necessario che la major veda in te un personaggio da riproporre su vasta scala, e sinceramente non credo sia il mio caso. A me vanno benissimo la situazione e la dimensione di indipendente, anche perché hai la libertà di fare quel cazzo che vuoi, con i tempi che vuoi. E’ limitante, certo: vendi meno dischi, ottieni minore visibilità, fai meno live ed hai più problemi, anche in relazione al fatto che devi sbrigare tutto tu in prima persona. Alla fine ho fatto tre album ed un sacco di cose in precedenza, la mia cassettina risale a tipo undici anni fa, magari tempo indietro fa poteva interessarmi l’idea di approdare ad una major, adesso la vivo in maniera diversa.
Adesso che Morgy Mo è morto, cosa succederà?
Ho in mano diversi beat di vari produttori su cui sto lavorando; sono stufo di fare album, a dire il vero: secondo me il concetto di album è abbastanza superato, nel senso che, considerando i tempi lunghi della sua lavorazione, i costi che implica e le vendite in costante diminuzione, il disco intero è un po’ un problema. Se sei con una major vieni spinto così tanto che l’album ottiene una fruibilità molto più elevata: se realizzare il prodotto ti impegna per 6/8 mesi, puoi stare sicuro che la promozione dello stesso occuperà un periodo simile. Quando lavori con un’etichetta indipendente l’album ha una vita molto più breve, 3 o 4 mesi al massimo; certo, chi è appassionato i dischi li compra anche ad anni di distanza, però il “boom” intorno ad un’uscita riguarda un arco di tempo molto più compresso. Non so, gli album credo che nel contesto attuale siano un po’ limitanti, preferirei realizzare magari due ep, due prodotti da 5 o 6 pezzi all’anno, piuttosto che un album solo. Anche a livello creativo, potrei documentare meglio le mie evoluzioni, i miei strippi del momento; con un album, ora che parti con un viaggio e lo concludi, passa un anno dall’inizio alla fine della sua lavorazione, ed è un aspetto che mi sta sul cazzo. Anche questo è tuttavia un aspetto da valutare, nel senso che stampare un ep su cd è comunque un mezzo dramma, a livello di costi di realizzazione, visto che per un ep in fin dei conti spendi quanto per un album; il vantaggio è che con I-Tunes e simili c’è la concreta opportunità di vendere on-line e diventa così possibile anche ragionare sopra un pezzo alla volta, non so, un singolo con “lato A” e “lato B” ogni tre mesi. Penso che la musica si evolverà in questa direzione, slegata dal concetto di album bensì vincolata all’idea di pezzo…e te lo dice uno che ha appena realizzato un cosiddetto “concept album”!
Non c’è pericolo di un’eccessiva frammentazione, ragionando per singoli pezzi? Un album segue un filo logico; senza un album questa connessione viene a mancare, i pezzi diventano sé stanti. Non credi che per gli artisti ciò possa essere riduttivo?
Credo che il collante sia rappresentato dall’artista stesso, è l’artista che funge da filo conduttore. Sta alla sua voglia ed alla sua capacità la creazione di una connesione logica, mettiamola così. Ai tempi di Rawkus e Landspeed ad esempio si facevano un sacco di singoli su vinile, prima dell’uscita di un album; alla fine, quando l’album veniva pubblicato, altro non era che la raccolta dei tre singoli, dei b-side con 6 o 7 pezzi nuovi – e ti giravano pure i coglioni, tra l’altro. Adesso ragionare per singoli sarebbe un procedimento analogo, con la differenza che verrebbe a mancare il contenitore finale. O meglio, il contenitore finale ce lo puoi anche mettere, però è un aspetto che valuti di volta in volta. Artisticamente mi sentirei più sollevato. E’ una cosa che penso adesso, magari è una stronzata e cadrò nuovamente nella trappola dell’album, però riflette il mio pensiero attuale, il pensiero di chi ha alle spalle tre dischi.