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Tauro Boys: l’intervista

24-07-2019 Marta Blumi Tripodi

Tauro Boys: l’intervista

A prima vista, i Tauro Boys potrebbero sembrare uno dei tanti gruppi trap che affollano la scena nell’ultimo periodo; ma solo a prima vista, appunto. Perché basta ascoltare il loro primo album ufficiale uscito a fine giugno, Alpha Centauri, per scoprire un sound e un approccio alle rime che con estrema naturalezza unisce il meglio della emo trap e del cloud d’oltreoceano – come mood siamo dalle parti del collettivo Brockhampton e delle cose più intimiste di Lil Peep, per intenderci – alla tradizione melodica italiana, nonché al rap di casa nostra, di ieri e di oggi. Si sono fatti conoscere a Roma, la loro città, grazie a una serie di mixtape, i Tauro Tape, e nel giro di breve sono stati notati da una delle realtà più solide e prolifiche di Milano, la Thaurus di Shablo, che li ha messi sotto contratto. Scavando più a fondo, in un’afosa mattinata milanese in cui i giovani rapper Yang Pava, Prince e Maximilian sono in trasferta per promuovere l’album, si scopre che nonostante siano affiliati al team di Thaurus, il nome del gruppo non è un omaggio alla loro etichetta, ma alla galassia di Alfa Centauri (“Anzi, quando anni fa abbiamo scoperto che esisteva ci siamo pure incazzati un po’, volevamo essere gli unici a chiamarci così”, scherzano); che tutti e tre sono iscritti convintamente all’università (“Se devi rappare devi conoscere a fondo tanti argomenti, e per farlo devi studiare”, affermano con grande serietà); e che nonostante abbiano cominciato a fare musica con uno dei generi più disimpegnati in assoluto, sono tutt’altro che nichilisti e/o materialisti e/o qualsiasi altro aggettivo venga di solito attribuito ai trapper nati dopo il 1990. Anche perché la loro storia fino a qui assomiglia poco a quella di tutti gli altri. (Continua dopo la foto)

Blumi: Partendo dalle origini, nel vero senso della parola: vi conoscete praticamente da sempre…

Prince: Mia madre e quella di Yang Pava sono migliori amiche dai tempi del liceo.

Yang Pava: E io e Maximilian ci siamo conosciuti alle medie. Nel frattempo Prince si era trasferito a vivere a Milano, ma quando è rientrato a Roma al terzo anno di liceo e ci siamo ritrovati tutti e tre in classe insieme.

B: Al Virgilio, uno degli storici e più prestigiosi licei di Roma…

Y.P.: Che ora è famoso anche per essere stato il liceo di Carl Brave, Franco126, Ketama126 e il nostro.

Maximilian: È uno dei licei con la migliore reputazione della città, in realtà. C’era un gran bell’ambiente.

B: Fino a non troppi anni fa, ascoltare rap al liceo classico sembrava quasi proibito: erano pochissimi i fan dell’hip hop in un ambiente scolastico ancora super borghese. Com’è oggi, invece?

Y.P.: Il contrario: quando andavamo a scuola noi, la gente ascoltava praticamente solo rap. O meglio, il Virgilio è sempre stato molto vario, la gente si ascoltava di tutto, anche perché eravamo un migliaio di studenti. Noi eravamo tra quelli che si riunivano vicino al muretto, in cortile, a sparare un beat fuori dalle casse e fare freestyle.

P: I primi testi scritti sul telefono, mentre mandavi la base dal computer, strofe registrate con l’iPhone che ci mandavamo l’uno all’altro come note vocali… Finché un bel giorno mio zio mi comprò un microfono e una scheda audio e iniziammo a registrare in camera mia. La prima traccia mixata bene l’abbiamo fatta da Carl Brave, che aveva uno studio. Non era ancora diventato famoso, all’epoca lui e Franchino pensavano di pubblicare un disco trap.

B: A proposito, nella vostra biografia di Genius c’è scritto che voi fate post-trap. In che (sotto)genere vi riconoscete?

P: In realtà ormai si può dire che i generi quasi non esistano più, le distinzioni sono molto sottili e la trap è sempre stato un genere molto ibrido che si contamina un po’ con tutto. Non saprei dirti cosa facciamo, anche perché ognuno di noi ha uno stile molto differente e siamo influenzati da cose diverse, e quindi siamo abituati a mescolare le idee e le sonorità. Il rap, il rock, le nuove correnti dell’urban, dalla cloud in giù.

B: Cosa vi ascoltate di solito?

Y.P.: I classiconi come Young Thug o la trap francese, ad esempio, o i nuovi come Yung Lean e Lil Uzi Vert, però ultimamente ascoltiamo moltissima roba anche su Soundcloud: personalmente è una piattaforma che ho scoperto da poco, ho aperto l’account solo tre mesi fa, e adesso sono in fissa con lo scoprire sempre nuovi rapper sconosciuti. Magari su cento ne becchi ottanta che sono scarsissimi, e quei venti validi sono sedicenni di Atlanta che finora hanno pubblicato solo un pezzo in vita loro, ma sono super freschi, originali. Ti aprono la testa a idee nuove.

B: Ecco, a proposito: nella vostra percezione, sta emergendo un Soundcloud rap italiano che sia anche solo lontanamente simile a quello americano, come proporzioni della scena?

P: Qualcuno che usa la piattaforma c’è e si è parlato di una wave italiana, ma di fatto per ora sono solo ragazzi che si ispirano a una corrente e a una sonorità americana, non è ancora un fenomeno grosso, a mio avviso.

Y.P.: Non è mai esploso, chissà se esploderà mai. Anche perché il focus non è più sul rap, da noi: se non ti sai presentare, se non hai un personaggio, non riesci a emergere. È un momento un po’ strano, perché allo stesso tempo sta tornando anche il rap classico: sia in America, con gente tipo Trippie Redd che si rimette a fare strofe vere e proprie, sia in Italia con Massimo Pericolo. Mi aspetto di tutto.

B: È anche un periodo in cui i gruppi e i progetti collettivi sembrano non funzionare molto: anche chi ha un sodalizio duraturo, tipo Carl Brave e Franco126, poi si lancia in carriere soliste. Cosa vi spinge a continuare a fare musica insieme? E soprattutto, continuerete a fare musica insieme?

Y.P.: Ovviamente non sappiamo cosa ci succederà in futuro, nella vita non si sa mai, ma essendo molto amici ci è venuto spontaneo fare musica insieme. Un po’ per farci coraggio a vicenda, soprattutto all’inizio, e poi perché è bello condividere un progetto. Ciascuno di noi ha una personalità molto ben distinta, non ci uniformiamo, e penso che sia anche questo uno dei motivi per cui funzioniamo come collettivo.

P: Anche se un domani dovessimo sviluppare dei progetti solisti – e probabilmente prima o poi succederà, perché anche noi ogni tanto sentiamo questa esigenza – sarebbe solo una parentesi, e poi ci ritroveremmo più avanti lungo la strada. In ogni caso, non è una cosa che abbiamo in programma, per ora.

B: Peraltro, si può dire che voi siate tre più uno: uno dei vostri principali produttori, Close Listen, dall’esterno è quasi percepito come un altro membro del collettivo…

M: In realtà i Tauro Boys sono nati molto prima di incontrarlo, ma sicuramente c’è un rapporto di predilezione nei suoi confronti, perché registriamo nel suo studio romano da anni e in particolare lì abbiamo registrato il Tauro Tape 2. Si è creato un rapporto di amicizia e ci ha dato una bella spinta artistica, ci ha aiutato a provare e sperimentare un sacco di cose nuove. Ma con quest’album ci siamo aperti anche ad altri produttori, pur continuando a collaborare con lui. È stata una cosa molto spontanea, anche perché nel frattempo anche lui ha cominciato a lavorare con altri rapper.

B: Come funziona il processo creativo, tra voi?

P: A volte uno di noi comincia a scrivere una traccia e gli altri la finiscono, altre volte scriviamo tutti insieme in studio.

M: I pezzi più sentiti, comunque, sono quasi sempre un flusso di coscienza: il beat ci dà il mood, ma poi ognuno parla del periodo che sta attraversando. Di base siamo tre ragazzi che parlano della propria vita.

Y.P.: C’è da dire anche che ci sono state anche tante differenze tra un progetto e l’altro, in termini di lavorazione, e penso che la cosa si noti molto. Tra i Tauro Tape e Alpha Centauri c’è un abisso.

B: C’è sempre molta emozione in tutti i vostri pezzi…

Y.P.: Non essendoci noi costruiti un personaggio, se non vogliamo fare pezzi inventandoci qualcosa da zero, dobbiamo per forza tirare fuori le nostre emozioni.

M: Esatto, siamo meno personaggi e più persone: la musica è la nostra valvola di sfogo. Non volevamo portare all’attenzione della gente un immaginario, ma noi tre. In più, c’è anche il fatto che (almeno nel mio caso) è più facile fare musica quando sei giù di morale.

P: È una bella cosa, perché la gente si immedesima, si sente compresa nei propri drammi personali. (Continua dopo il video)

B: Bella Bro, per esempio, come è nata?

P: Eravamo a casa di Close e c’era questo beat con una chitarrina che girava da un po’ nelle nostre cartelle.

M: La tua strofa esisteva già, ma all’inizio l’avevi provata su un beat molto più pop, molto più smielato. Non funzionava proprio.

P: Quando però l’abbiamo provata su quello, era perfetto. L’attacco è la classica cosa che dici all’inizio di ogni conversazione, quando incontri qualcuno: “Bella bro, non ci vediamo da un po’…”. La canzone non è riferita a niente di specifico, in realtà. Il bello è stato che Side l’ha sentita quando ancora non era uscita, si è gasato e ha deciso di lasciarci una strofa per dare una spinta ancora maggiore al pezzo, cosa che ci ha sicuramente dato una mano.

Y.P.: È una bella paraculata, perché tutti a Roma dicono “Bella bro”, e adesso quando lo fanno pensano istintivamente al nostro pezzo. È come se un rapper milanese intitolasse una traccia “Ue’, zio”.

B: Beh, in realtà vi informo che nessuno dice davvero “Ue’ zio” a Milano… (Ridiamo tutti, ndr) Tornando al pezzo, anche il video colpisce molto, perché l’ambientazione non è certo quella tipica della vostra generazione: ci siete voi che trappate, e sullo sfondo un pezzo in puro stile centri sociali che recita “Virgilio antifa”.

Y.P.: Diciamo che è un messaggio subliminale.

M: Sicuramente il Virgilio è sempre stato un liceo di sinistra, e noi tutti lo abbiamo frequentato e ci siamo rispecchiati in pieno in quel tipo di pensiero. Figurati che io e Side siamo stati perfino rappresentanti di istituto, e abbiamo entrambi occupato la scuola per spingere per alcune riforme dell’istruzione. Insomma, non facciamo rap politico, ma questo non vuol dire che non abbiamo delle idee e non crediamo in qualcosa.

B: Come vi ponete rispetto a chi sostiene che i rapper italiani dovrebbero prendere posizione (se non nei pezzi, almeno con le loro azioni e dichiarazioni) rispetto a problemi dilaganti come razzismo e ultra-destra?

P: Per me è semplice: se hai qualcosa da dire, dilla. Fare una critica della società va benissimo, dipende da cosa dici e come lo dici. Però se tutti facessero politica nel rap, probabilmente alla lunga sarebbe anche noioso: ci sta che qualcuno lo faccia e qualcun altro no.

Y.P.: Farla nei testi, soprattutto, forse ad oggi sarebbe noioso. Però, secondo me, se raggiungi milioni di persone con i tuoi pezzi sei in qualche modo obbligato a parlare anche di politica, altrimenti sembra che tu viva fuori dal mondo. Hai venticinque anni, vivi in Italia, è giusto e normale che tu dia dei messaggi personali su come vedi la situazione. Anche perché altrimenti, se non dici nulla, è tipo silenzio-assenso. E invece molti dei rapper veramente famosi oggi dicono “Io non voto, non ho neanche la scheda elettorale, non darò mai il mio supporto allo Stato italiano”… E daje, però. Quelli che fanno così e poi parlano di denuncia sociale sono i primi stupidi, perché a parole vorrebbero cambiare il mondo, ma poi con i fatti fanno esattamente il contrario. Fa un po’ ridere, ‘sta roba.

M: Chiaramente ci sono percorsi e percorsi: come dicevamo prima, se scegli di essere un personaggio anziché una persona, dai un taglio chiarissimo alla tua carriera. Ma se hai la possibilità di dire la tua e sensibilizzare i ragazzi che ti ascoltano, perché non dovresti farlo?

P: Comunque, se la trap oggi è il nuovo pop è anche perché la gente si vuole distrarre e non vuole pensare troppo a come stiamo messi. In Italia i giovani non si interessano più di politica, per la maggior parte, e la musica riflette sempre la società e il momento storico.

B: E in questo momento storico, è difficile per voi andare controcorrente, anche solo come persone in una scena costituita in gran parte da personaggi?

Y.P.: La cosa più facile che puoi fare è essere te stesso, in realtà. Anche perché spesso ascoltare quello che dicono gli artisti nei pezzi, e poi conoscerli di persona e vedere quello che fanno nella vita di tutti i giorni, spesso fa ridere. “Sparo, ammazzo, smazzo”, e poi li incontri e capisci che sono dei bonaccioni. È giusto e normale che sia così, da una parte, però ti lascia un po’ perplesso.

M: Ma la coerenza e la sincerità pagano sempre, secondo noi.

B: Che succederà nel prossimo futuro?

M: Abbiamo parecchie date estive in vari festival: tra i vari che abbiamo fatto ci sono stati anche il Mi Ami e soprattutto Open Sea Republic di Salmo, una figata.

P: Un’esperienza davvero intensa.

M: Soprattutto per i fan, e per il fatto che in alto mare non prendeva il telefono e quindi eri in qualche modo costretto a vivertela… (ride)

Y.P.: Dopodiché torneremo in studio a fare qualche pezzo nuovo. Non sappiamo ancora dove finirà, ma sicuramente ci rimetteremo a registrare molto presto.