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Macro Marco & Don Diegoh: l’intervista

19-02-2019 Marta Blumi Tripodi

Macro Marco & Don Diegoh: l’intervista

Con colpevole ritardo (ma è anche un po’ colpa di Macro, che mandando Ghemon a Sanremo ci ha moralmente obbligati ad andare anche noi 🙂 ) pubblichiamo un’intervista registrata a fine 2018, che ha visto protagonisti Macro Marco & Don Diegoh. Da una parte, però, forse è un bene che sia uscita adesso, perché come giustamente sottolineano anche i diretti interessati in questa chiacchierata, Disordinata Armonia è tutto fuorché un disco usa-e-getta: va processato e assaporato lentamente, perché l’intento dei suoi creatori era di trasformarlo in un’esperienza duratura e solida. E per quanto ci riguarda, ci sono assolutamente riusciti: le otto tracce – una in più rispetto alla ormai famosa serie di album prodotti da Kanye West durante l’anno appena trascorso, come ci fanno notare – di questo disco sono delle piccole gemme da scoprire e riscoprire, soprattutto alla vigilia di un tour che li porterà in giro per tutta l’Italia. (Continua dopo la foto)

Blumi: È un lavoro molto compatto, solo otto tracce…

Macro Marco: Lo abbiamo registrato di getto, in due mesi e mezzo: quando lo abbiamo riascoltato ci siamo resi conto che girava già bene così, quindi abbiamo evitato di annacquarlo ulteriormente tanto per ingrassare la tracklist.

B: Perché lavorare insieme a un album proprio adesso, considerando che vi conoscete da millenni?

Don Diegoh: Più precisamente, ci conosciamo da una jam – una parola antica che ormai conosciamo in pochi! – fatta in Calabria nel 1999 nelle mie zone. Per l’occasione Macro venne insieme a tutti gli storici membri della sua crew, Paola Tribe. Come si faceva all’epoca, avevano fatto chilometri con un treno regionale per raggiungere l’hip hop là dov’era in quel momento, con uno zaino carico di panini, dischi da suonare, cassettine da vendere… Era uscito da poco col suo demo, Roots, in cui rappava: è una pietra miliare dell’underground italiano di quegli anni. Ci conoscemmo allora e da allora ci siamo sempre sentiti, che fosse con il Nokia 3310 o con l’iPhone X! (ride)

M.M.: Abbiamo iniziato a lavorare insieme parecchio tempo fa, spinti da un amico comune, tant’è che nel primo disco di Diego, Double Deck, ci sono alcuni miei beat. Parliamo del 2008.

D.D.: Ci eravamo ritrovati a Roma: io studiavo lì e lui lavorava nel corner di One Love, che era proprio vicino all’università, quindi capitava che lo andassi a trovare e ci facessimo due chiacchiere davanti a un caffè. C’è sempre stato un bel rapporto di condivisione, sia della nostra musica che di quella di altri: ci piaceva molto confrontarci sui nostri ascolti.

M.M.: L’idea di questo disco, però, è nata un anno fa, dopo l’uscita del singolo XL. Quest’estate avevamo deciso di registrarne un secondo, ma nel momento stesso in cui siamo entrati in studio abbiamo capito, senza neanche dircelo, che quello che volevamo davvero era fare un intero album, perché avevamo voglia di dire e di fare tante cose. E così è stato.

B: Entrambi venivate da una precedente esperienza collettiva, Macro con i Real Rockers e Diegoh con Ice One. Non avevate voglia di fare musica per conto vostro, per un po’, come magari sarebbe capitato a molti altri in circostanze analoghe?

M.M.: Per quello che riguarda me, è quasi fondamentale lavorare insieme a qualcun altro con cui interfacciarsi. Anche perché, e ne sono cosciente, sono una persona con cui è difficilissimo collaborare, perché sono un gran rompicoglioni, soprattutto nei confronti di me stesso! (ride) Tant’è che la più grossa paura delle persone che collaborano con me è che io cancelli dal mio computer tutti i beat che eravamo già d’accordo di usare, cosa che capita molto spesso. Non sono uno di quei produttori che fa strumentali in maniera estemporanea e poi fa girare il suo beat tape tra gli mc, in attesa che ne scelgano una. Ho bisogno di creare qualcosa che viva di attimi, che traduca in musica qualcosa che ci siamo detti sul momento.

D.D.: Io per il mio lavoro passo già tutto il giorno da solo al computer, perciò per me, per contrasto, la musica non può essere un viaggio solitario. Non è un caso se è dal 2008 che non firmo un album solo con il mio nome: creare è un processo di condivisione, da sempre.

B: Tra l’altro, perché avete scelto il titolo Disordinata Armonia?

D.D.: Sicuramente è un album molto omogeneo, perché è prodotto da una sola persona e rappato da una sola persona. Quando ci siamo trovati con tutto il materiale, abbiamo fatto un brainstorming pensando a tutti gli elementi base del disco e a quello che avremmo voluto trasmettere alla gente. Disordinata Armonia ci è sembrato il titolo più azzeccato, anche perché questo disco parla molto del tentativo di mettere al loro posto tutti i vari elementi della vita; si rivolge a chi cerca tramite l’arte di trovare un senso alle cose. Mi immagino persone che lo ascoltano sul tram di una città affollata, o in viaggio in macchina, o nella loro pausa pranzo, e cercano di trovare un po’ di pace nella confusione di ogni giorno, tra lavoro, famiglia, amore, bollette…

M.M.: Il concept del disco era già lì, dovevamo solo trovare le parole per tradurlo. E questo era un modo perfetto per descriverlo, soprattutto in un periodo storico come questo, fatto di precariato, di poca stabilità. Nel disordine abbiamo trovato la nostra armonia, e immaginiamo che molti altri potranno capire cosa intendiamo e magari trovare la loro.

D.D.: Anche per questo non è un album che si rivolge esclusivamente a chi ascolta rap: è un disco per tutti, perché parla di cose che tutti possono capire.

B: I richiami a un certo tipo di rap classico e senza tempo, però, sono tantissimi, sia nei testi che nei beat. Un po’ sembra che invece stiate cercando di parlare proprio a chi ha il vostro stesso background e viene da un certo modo di intendere l’hip hop…

M.M.: Beh, il fatto che sia un disco rap non è un mistero, perciò è normale trovare anche tutti quegli elementi che sottolinei. È il nostro codice: riusciamo a esprimerci meglio usando quel tipo di linguaggio. La frase “finalmente in Italia c’è rap di tutti i tipi” spesso viene utilizzata per mettere in luce il rap che suona nuovo; forse, però, è venuto il momento di cominciare ad usarla anche per il rap che arriva dal boom bap. Attenzione, che arriva dal boom bap, non che è boom bap, perché il boom bap non è una cosa sola: nel 2018 sono usciti tre dischi italiani che si riferiscono più o meno a quell’immaginario – il nostro, quello dei Cor Veleno e quello dei Colle der Fomento – ma sono diversissimi tra di loro, proprio perché c’è un mondo intero dietro a quel suono.

B: E il vostro, che tipo di mondo è?

M.M.: Molto variegato: per fare questo disco ci sono state parti suonate, arrangiamenti, e perfino un pezzo, Dodicesima ripresa, scritto su un type-beat e poi postprodotto, con una strumentale creata ad hoc. Non ci siamo limitati al concetto classico di beatmaking, insomma. (Continua dopo il video)

B: Domanda per Diego: hai ancora l’abitudine di non scrivere i tuoi testi su carta, ma di comporli a memoria nella tua testa?

D: Anche più di prima, considerando che in questo caso molte cose le ho “scritte” direttamente in studio, camminando avanti e indietro come un pazzo! Anzi, scherzavamo sempre sul fatto che nello studio di Macro in cabina di registrazione c’è un leggio: un oggetto totalmente inutile, nel mio caso… (ride)

B: Domanda per Macro: Macro Beats Records ha portato davvero molta fortuna ai suoi artisti, tanto che alcuni dei suoi esponenti principali sono approdati in major (Mecna, che oggi esce per Universal) o in etichette indipendenti molto più grandi (Ghemon, che oggi esce per Carosello). Come vedi il futuro della label?

M: Come lo vedevo il primo giorno: continueremo a fare la musica che ci piace fare, e nel modo in cui vogliamo farla, portando avanti le nostre idee e la nostra visione. Effettivamente finora ci è andata molto bene, e questo vuol dire che probabilmente è il metodo migliore per lavorare. Sono contento di essere stato un traghettatore, per così dire, e spero di poterlo essere anche in futuro. Sono un discografico atipico, perché il mio lavoro in realtà è fare la musica: non mi piace mettermi alla scrivania a fare calcoli e strategie, voglio essere parte dei dischi che pubblico.

B: Aspettative e progetti futuri riguardo all’album?

M.M.: Innanzitutto speriamo che la gente lo ascolti, il che può sembrare una cosa banale, ma invece non lo è. Non lo dico perché ho l’ambizione di fare numeri con lo streaming, perché sappiamo che album del genere sono prodotti di nicchia; lo dico perché ho sempre la speranza che i dischi abbiano una vita più lunga, anche se tutto attorno a noi è velocissimo e usa-e-getta. Esce un album il giovedì a mezzanotte, e il venerdì mattina il pubblico ha già deciso se è un capolavoro o un disco di merda… (ride) Speriamo che le persone si prendano il tempo di ascoltare le canzoni, capire di cosa stiamo parlando, analizzare il lavoro che abbiamo fatto sui testi, sulle metriche, sulle musiche. Sono dettagli di cui non si parla mai abbastanza. Proprio per questo, non andremo in tour subito: partiremo con i live in primavera, quando speriamo che il pubblico avrà avuto il tempo di digerirlo e capirlo un po’ di più.

B: Per quanto riguarda invece voi due singolarmente, avete già qualcosa in cantiere?

D.D.: Io nella vita faccio altri due lavori, quindi non ne avrei il tempo! (ride)

M.M.: Io invece sì. Non entro nel dettaglio perché non voglio svelare niente, ma basta dare un’occhiata alle ultime release di Macro Beats per capire chi manca all’appello… E abbiamo anche iniziato delle collaborazioni con delle etichette giovani, come la Bounce di Perugia, perché ci fa piacere aiutare chi sta cominciando un percorso che noi avevamo cominciato già dieci anni fa.