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Colle der Fomento: l’intervista

20-12-2018 Marta Blumi Tripodi

Colle der Fomento: l’intervista

Se i Colle der Fomento sono rimasti nella leggenda per oltre vent’anni, il motivo non è semplicemente che spaccano il culo a tre o quattro diverse generazioni di colleghi. Il motivo vero è che parlano a una parte di noi più profonda e riflessiva, quella che non si accontenta delle punchline, quella che è alla costante ricerca di un significato in ciò che ci circonda. Era vero vent’anni fa, quando a quindici anni ascoltavamo Vita nel walkman mentre andavamo a scuola e all’improvviso capivamo il senso dei nostri struggle nel breve spazio di un ritornello: “Eccoci, eccoci / Siamo venuti per poco / perché per poco si va / come satelliti sulla città / Catalizziamo l’energia partendo dalla realtà”. Ed è ancora più vero oggi con Adversus, quando di anni ne abbiamo trenta e passa, ascoltiamo Polvere su Spotify mentre andiamo al lavoro e capiamo nel breve spazio di un ritornello che lo struggle è ancora più intenso di quanto pensavamo una volta, perché in fondo “Gira, la rota gira, ma mai all’incontrario/ Fino alla fine è un unico binario / E tu, tu non sei straordinario / E tutto si dissolve quando scenne er sipario”. Incontriamo Danno e Masito in una fredda giornata milanese, in occasione del loro live a Babylon, su Radio2 (riascolta la puntata qui): un piacevole preludio a quello che sarà il tour di Adversus, che inizierà a febbraio. in un mondo di rap star presunte, autoproclamate o aspiranti tali, la loro normalità e gentilezza colpisce in maniera ancora più incisiva, considerando lo status che invece potrebbero tranquillamente rivendicare e far pesare in ogni momento. (Continua dopo la foto)

Blumi: Una domanda che non vi avrà ancora fatto nessuno (come no): perché undici anni tra un disco e l’altro?

Danno: Penso sia soprattutto una questione di onestà. In questi anni abbiamo scritto tanti pezzi e provato tante strade diverse, ci abbiamo messo un po’ a trovare quella giusta. Anche perché non volevamo fare uscire un semplice insieme di tracce, ma un vero e proprio album, come si faceva una volta: doveva avere una sua coerenza interna, dall’inizio alla fine. Quando abbiamo avuto la sicurezza di aver raggiunto l’obbiettivo, siamo usciti.

Masito: Sappiamo bene che oggi come oggi si lavora pensando al singolo e non all’album, ma noi abbiamo subito iniziato a lavorare cercando di dare omogeneità all’insieme: i dischi che più ci sono piaciuti crescendo erano un viaggio, e abbiamo volutamente cercato di dare quel tipo di sensazione.

B: Ecco: quanto ci mettete di solito a scrivere un pezzo? Data la qualità della resa finale, verrebbe da pensare che è un lavoro di cesello lunghissimo…

M: In realtà no. Ad alcuni pezzi effettivamente abbiamo lavorato tanto, perché non abbiamo trovato subito la quadra, però normalmente riusciamo a chiuderlo in un pomeriggio.

D: Non c’è una regola. Sergio Leone è il tipico esempio di un pezzo scritto quasi istantaneamente, mentre Nostargia è a lavorazione più lenta, perché è più riflessivo e mettersi a nudo non è mai facile. Lettere d’Argento è nato per caso e molto velocemente, ma poi ci abbiamo messo parecchio a chiuderlo perché dj Craim non era convinto del beat che ci aveva dato. Polvere, invece, è stata molto più lunga da concludere: Masito l’ha scritta di getto, ma io ci ho messo mesi a scrivere la mia strofa, perché sentivo l’enorme responsabilità di confrontarmi con una delle strofe più incredibili che abbia mai sentito, quasi lacerante nella sua bellezza. Dovevo essere sicuro di fare qualcosa che fosse all’altezza.

M: Anche il riascolto, per noi, è molto importante: ci sono pezzi che sul momento ti sembrano fortissimi e poi magari dopo qualche mese ti scendono, e altri che invece crescono con il tempo. Anche per questo concepire un album, per noi, è un processo lungo.

D: Ma in fondo lavorare così ci piace. Vuol dire che c’è del vissuto, si percepisce un senso di piacevole sofferenza nel prodotto finito.

B: Un sacco di gente, a giudicare da quello che si legge in giro, ha pensato che Adversus fosse una specie di concept album sullo stato dell’hip hop italiano dell’ultimo periodo. In realtà non è esattamente così…

D: Questo è un disco che riflette solo il nostro stato nell’ultimo periodo! (ride) Qualcuno ha detto anche che ci vede del disincanto nei confronti della società di oggi, ma quello lo trovi in ogni nostro album: non siamo mai stati teneri con la società in cui viviamo, abbiamo sempre cercato di capirne i difetti e di muoverci per correggerli.

M: Il disincanto sicuramente c’è rispetto a tante cose: negli anni ’90 l’espressione “hip hop” significava una serie di cose, ora è tutto molto diverso. Però in quest’album ci sembrava molto più importante parlare di noi stessi e di quello che abbiamo dentro: le sofferenze, gli stati d’animo, le speranze.

B: Vi siete esposti parecchio, tra l’altro: si percepisce una grande malinconia e riflessività in molti brani. È stato difficile mettere così tanto di voi stessi in una manciata di canzoni, sapendo che poi tutti le avrebbero ascoltate e analizzate?

M: Molto, sì. È come spogliarsi di tutto, in un periodo storico in cui il resto del mondo fa il contrario: la norma è apparire iper-vincenti, cosa che chiaramente funziona bene, perché genera un meccanismo di invidia ed emulazione. “Umiliarsi” rivelando le proprie paure e debolezze, e portarle sul palco una sera dopo l’altra quando suoni dal vivo, invece, è molto più complicato. Per noi quelle parole pesano davvero. Per certi versi ci consumano.

D: Anche se è stato difficile, però, è stato molto bello. Era quello che volevamo, e dovevamo, fare: sembra una frase fatta, ma è un album che è pensato soprattutto per noi stessi, prima ancora che per il pubblico. Per quello non ci siamo dati delle scadenze: volevamo rivederci in ogni traccia al 100%.

M: Come in ogni genere musicale, nel rap coesistono diverse fasce d’età: non è roba esclusivamente per ventenni. Puoi continuare a farlo, ma in maniera adulta, come abbiamo cercato di fare noi. Anche perché non riusciamo a immaginarci la nostra vita senza il rap. Nei mesi che hanno preceduto l’uscita del disco, quando abbiamo rallentato un po’ l’attività live per chiuderci in studio e concludere il lavoro, abbiamo sofferto parecchio: suonare ci mancava tantissimo. Vedere la gente che sta nelle prime file e canta le strofe a memoria è sempre stato il nostro vero metro di riscontro, il più importante. Molto più che i numeri sui social o il totale degli streaming.

B: Parliamo di titolo e copertina: rispettivamente una parola latina, Adversus, e una maschera da guerra giapponese.

M: Anche in questo caso è un’idea che è nata in maniera lenta e ragionata: ci abbiamo messo quasi un anno a decidere… (ride) Volevamo rappresentare il concetto di “andare contro”: il rap bellicoso e vincente, quello che va adesso, è come una maschera che spaventa l’avversario, ma non mostra davvero chi sei. Nella copertina la maschera è integra in tutto il suo splendore, e va a incarnare il nostro percorso fino ad oggi; sul retro, però, è rotta, ed è una metafora per fare capire che in realtà da questo disco escono i pensieri e i sentimenti di due persone, Massimiliano e Simone, più che di Masito e Danno.

D: La parola Adversus ci piaceva moltissimo. Per noi ha tre valenze, come fossero tre nemici. Da una parte, il destino avverso, come nel ritornello di Mempo – anche se lì c’è anche un gioco di rimandi col dottor Destino della Marvel, che non a caso indossa una maschera da guerra per coprire le sue cicatrici. Dall’altra, la guerra interiore che devi fare quotidianamente alle tue paure e alle tue debolezze, che ti invitano a deporre le armi e insinuano in te il dubbio che non potrai farcela. E infine la guerra contro il tempo che passa, che però non potrai mai vincere.

B: A proposito del tempo e di ciò che ti toglie, uno dei pezzi più belli e struggenti del disco è senz’altro Polvere: molti hanno pensato fosse il vostro omaggio a Primo Brown. È effettivamente così?

M: Sicuramente parla anche di Primo, ma non solo: parla della morte, della malattia, dell’invecchiare, dell’essere umani fino in fondo. A farci uscire quelle parole sono state parecchie vicende personali. Ognuno, però, può farle sue e viversele a suo modo. Mi piacerebbe dare un consiglio a chi fa rap oggi: tutti abbiamo delle sofferenze, e se le tiri fuori arriveranno sicuramente a chi ti ascolta, perché è una cosa che ci accomuna, molto più in profondità di tante altre cose. Oggi sembra quasi che non ce ne sia bisogno, visto che il pubblico è molto giovane, ma non è assolutamente così. I ragazzini non sono così superficiali: se condividi con loro gli aspetti più tormentati della tua vita indichi una strada, dai qualcosa in più. (Continua dopo il video)

B: Anziché chiedervi cosa non vi piace del rap di oggi, preferisco chiedervi: cosa vi piace?

M: Non penso che il rap sia molto diverso da prima, in realtà: lo ascoltano molte più persone, e essendo cambiata un po’ l’età di chi lo fa e chi lo segue, anche i temi e le modalità. La verità è che nel mio quotidiano non ascolto molto rap italiano. Ma di quello di oggi mi piace molto la semplicità, l’immediatezza, la sintesi: le rime sono molto asciutte e comprensibili, e quindi arrivano molto di più alle persone rispetto a quelle che abbiamo sempre fatto noi, che sono complesse e a tratti appositamente un po’ criptiche e interpretabili. Certo, a volte è tutto fin troppo semplice, ma quello è un altro discorso.

D: Io sono sempre stato un grande appassionato di rap americano, ma poi per questione di tempo finisco sempre per accumulare un sacco di dischi da ascoltare. Negli ultimi anni ho apprezzato un sacco di artisti: Anderson.Paak, Run the Jewels, Kendrick Lamar, Schoolboy Q, ma anche tutta la scena che ruota attorno alla Griselda Records e al suono underground di New York. In generale cerco di ascoltare un po’ di tutto, non abbiamo mai perso la curiosità e non ci piace porci dei limiti o darci dei paletti.

B: Nel frattempo, Adversus è diventato anche un documentario, X Tutto Questo Tempo (vedi trailer sopra, ndr)

D: È un’idea di Deemo, che a un certo punto ci ha chiesto se ci andava di realizzare una specie di dietro le quinte del disco. E come puoi dire di no a Deemo? (ride) L’idea di fondo era di auto-produrci una specie di intervista, in cui rispondere a tutte le domande che avremmo sempre voluto ci facessero. Anche perché ci immaginavamo che, arrivati al momento della promozione dell’album e delle interviste fatte dagli altri, le domande sarebbero state soprattutto sul tempo che era passato e meno sui contenuti. Abbiamo cercato di raccontare il lavoro che c’è stato dietro al progetto, per spiegare che se chiudi un disco in un mese sei sicuramente bravo e veloce, ma se ci metti più tempo – ecco, magari non così tanto: dieci anni è troppo, non lo fate! – c’è un motivo e un ragionamento dietro.