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Vegas Jones: l’intervista

08-04-2018 Marta Blumi Tripodi

Vegas Jones: l’intervista

Vegas Jones è quello che in America chiamerebbero un “old soul”, un’anima antica: nel corpo di un ventiquattrenne di Cinisello Balsamo vive un rapper vecchio stile, o meglio ancora un rapper senza tempo, di quelli validissimi e incredibilmente innovativi che è possibile individuare in ogni generazione. Si distinguono per il modo in cui approcciano la materia, ma anche per il tipo di riscontri che hanno: piacciono ai giovanissimi, ai loro coetanei ma anche a persone che hanno quasi il doppio dei loro anni. Non a caso Bellaria, il primo album ufficiale del nostro eroe – il titolo è un omaggio al suo quartiere, punto di partenza di un percorso che punta verso lo spazio siderale – è un progetto talmente universale da aver raccolto riscontri entusiasti un po’ da tutti i fronti prima ancora che uscisse. Ed è proprio qualche ora prima della sua uscita ufficiale che l’abbiamo incontrato, più precisamente negli uffici di Dogozilla, la realtà che lo ha portato al successo e al contratto con Universal Music, dopo una precedente militanza nell’underground autoprodotto e una parentesi con Honiro Label. (Continua dopo la foto)

Blumi: In Trappola dici “Questa è la mia trap, non la puoi paragonare / Togli la trap a qualche mio fra, non sai cosa gli rimane”. È una metafora o parli proprio della trap come genere musicale iper-inflazionato in questo periodo?

Vegas Jones: Parlo proprio della trap. Tutti parlano di questo, ultimamente, ma la mia non può essere paragonata a nessun’altra: è il mio viaggio, il mio modo di pensare. In qualche modo è lei che comanda, che mi dice come scrivere quello che ho in testa. Credo sia diversissima da qualsiasi altra cosa si senta in giro ultimamente per stile e modo di esprimermi, anche se magari gli argomenti sono sempre quelli tipici del genere. Ma la trap è anche una metafora per parlare di trappole mentali: siamo una generazione che sta vivendo in qualche modo costantemente imprigionata, per situazioni lavorative, sentimentali, familiari, storiche. Tutti noi possiamo riconoscerci in quella situazione.

B: Ho letto una tua vecchia intervista, raccontavi che fino a una certa età le sonorità nuove ti facevano un po’ schifo. Quando è arrivata la svolta?

V.J.: Sì, è vero, all’inizio non mi piacevano per niente: ho sempre ascoltato rap americano e preferivo il boom-bap e il rap più tecnico, quello degli incastri. Tutto è cambiato quando ho cominciato ad ascoltare seriamente Excuse My French di French Montana. Ho capito che spaccava e pian piano mi sono evoluto: nel giro di sei mesi ho cominciato ad ascoltare di tutto, e poi a provare anche io a rappare su nuovi beat. Avendo la fortuna di avere un fratello produttore (Majestic, ndr) potevo fare tutto in casa, prima ancora di conoscere i miei soci attuali.

B: Ecco, a proposito di tecnica: credo che la differenza tra te e il 90% della scena trap italiana stia proprio in questo. Tecnicamente tu sei fortissimo, e non hai paura di mostrare questa tua forza anche su beat o sonorità che richiamerebbero tutt’altro…

V.J.: Per me è normale voler dimostrare di essere valido da quel punto di vista. In America il problema della tecnica non esiste, perché tutti sanno rappare. È la base. In Italia non è così. Non mi stupisco, perché conosco il mio paese: manca la cultura, che lì invece c’è da sempre perché fin da bambini sono esposti a un bombardamento di rap. La mia missione è proprio quella di far capire che non è un optional: se fai il panettiere non basta avere un bel negozio con una bella vetrina, devi saper fare il pane. Il fatto che ci sia gente che non sa neanche andare a tempo, e che ci sia qualcuno che se la ascolta comunque, mi lascia molto perplesso.

B: Il concetto per te non vale solo su disco, ma anche dal vivo, giusto?

V.J.: Assolutamente, è importantissimo saper stare su un palco. La musica non si basa sui social network, ma su quello che riesci a fare dal vivo. Mi è successo un sacco di volte di andare al live di un rapper che non mi piace, scoprire che invece dal vivo spacca e andare a riascoltarmi i suoi album con un altro orecchio, cambiando idea. Oltretutto il pubblico paga per venirti a vedere: non puoi permetterti di fare il pagliaccio o di mancargli di rispetto. Ho la fortuna di fare rap come lavoro a tempo pieno, di guadagnarmi da vivere con questo: mi sembrerebbe stupido non impegnarmi. Non è cinquant’anni che lo faccio, ho ancora voglia di impegnarmi (e penso ne avrò ancora anche quando avrò cinquant’anni) e ogni giorno voglio dare il massimo. (Continua dopo il video)

B: Il Jones del tuo nome è un omaggio a Nas, che all’anagrafe si chiama Nasir Jones. Quando hai deciso di aggiungerlo?

V.J.: All’inizio facevo il writer e taggavo in un’altro modo, ma quando ho iniziato a fare rap ho iniziato a farmi chiamare Vegas. Ho aggiunto un “cognome” all’inizio per questioni pratiche, perché in quel modo era più facile trovare i miei video e i miei social; Nas è uno degli artisti che mi ha formato di più a livello di rap, ancora oggi è il mio preferito. Mi sembrava giusto citarlo in qualche modo.

B: Sei cresciuto anche tu a Cinisello, che negli ultimi anni, dopo te, Sfera e molti altri, sembra essere diventata una piccola Atlanta italiana…

V.J.: Certo, come no, Cinisello è proprio la capitale del rap. Anche una capitale dell’arte, a questo punto! (ride)

B: Capitale o no, ci dev’essere qualcosa nell’aria da quelle parti. Cosa?

V.J.: In realtà è un caso. O meglio, Cinisello è una periferia, e il rap viene sempre da lì. Di solito inizi a rappare perché la tua situazione non è delle migliori, perché devi lottare per sopravvivere, perché vedi un sacco di cose e le vuoi raccontare. Anche se magari la tua non è una famiglia disastrata a livello di soldi, il contesto che ti circonda è diverso da quello del centro, e ti influenza per forza di cose. Come Cinisello ci sono anche Sesto, Bresso, Cormano… (paesini dell’hinterland a nord di Milano, come Cinisello Balsamo, ndr) Tanta gente con cui ho cominciato, quasi tutti a dire il vero, ha smesso di rappare a un certo punto. Però ne sono arrivati tanti altri, che ci mettono l’anima e spaccano. Non saremo mai Atlanta perché non siamo in America, ma dalla nostra periferia nascono sempre ottimi spunti.

B: Tornando a te, come sei arrivato a entrare nella scuderia Dogozilla e poi al contratto con Universal?

V.J.: All’inizio tramite Fly, un rapper di Pescara con cui avevo collaborato quattro anni fa. Un giorno è venuto a Milano e mi ha presentato Boston George, che già collaborava con Donjoe. Siamo subito diventati molto amici, ci siamo davvero legati tantissimo, e abbiamo cominciato a fare i primi pezzi insieme – ai tempi avevo uno studio nella cantina di casa mia. Boston ha fatto sentire il mio primo pezzo a Donjoe, che si è esaltato tantissimo e mi ha invitato per un incontro. Dopo l’esperienza con Honiro avevo sempre avuto la tendenza a starmene per i fatti miei, ma quando mi ha proposto un contratto ho detto subito di sì, perché avevo finalmente trovato un ambiente che mi sembrava più familiare che lavorativo.

B: Tra i tuoi super fan c’è anche Bassi Maestro, che tra le altre cose ti aveva anche chiesto un featuring per il suo disco Mia Maestà nella traccia Poco Cash...

V.J.: Io, lui e Boston abbiamo una chat di Whatsapp dai tempi in cui abbiamo registrato quel pezzo: parliamo delle nuove uscite, ci scambiamo pareri sulla rispettiva musica. È una gran persona e ha una mentalità davvero aperta, anche se quando parla Bassi, parla Bassi: bisogna tenere in considerazione assolutamente il suo parere. Penso che sia lui che per primo ha fatto fare un salto di qualità al rap italiano: come stile, come personaggio, come attitudine. La collaborazione con lui per me è stata una bomba atomica. E abbiamo sdoganato un concetto: puoi fare trap anche se hai più di quarant’anni. Poco Cash è un pezzo potentissimo sia per me che per lui.

B: A proposito, Bellaria ha pochi featuring, come mai?

V.J.: È una cosa che non va più di moda, anche nei dischi americani ormai ci sono più featuring che pezzi fatti dai singoli. Ho deciso di fare solo le collaborazioni che ritenevo necessarie per il disco, per dargli lo spessore che merita. E sono molto soddisfatto del risultato, perché sono brani molto spontanei.

B: Anche il suono è molto coerente: è un vero e proprio album, a differenza di molti progetti di artisti della tua generazione, che invece sono più ispirati alle playlist di Spotify che agli LP d’annata…

V.J.: Ci tenevo a fare un vero e proprio album, l’ho sempre sognato. Tutte le tracce sono state studiate per avere un senso logico, e anche per funzionare singolarmente, ma avendo un mood unitario. Abbiamo cercato di avere in testa quell’obbiettivo anche mentre registravamo o mixavamo. Lavoro con un team di persone e la nostra forza è proprio quella: pensare al progetto. Siamo andati a mixare il disco in America, ma ci siamo portati dietro Patrick, lo stesso ragazzo che ha lavorato alle registrazioni. Le vibrazioni, quindi, sono rimaste autentiche. Ed è stato un lavoro di squadra, di persone partite da zero e arrivate fino a qui.

B: A proposito di partire da zero, i tuoi singoli pre-album hanno fatto numeri impressionanti. Senti di dover confermare delle aspettative, con questo disco?

V.J.: Vado a giornate: oggi (due settimane fa, ndr) sono preso benissimo perché il nostro ultimo pezzo è il più ascoltato d’Italia e non ci era mai successo. Non ci accontentiamo mai, però, perciò non ti nascondo che faccio fatica a godermi questi traguardi. Il disco d’oro per me è un punto di partenza su cui costruire molto altro: bisogna sempre volere qualcosa di più, avere fame, non perderla mai.

B: Stai già pensando al prossimo passo, quindi?

V.J.: Certo. Ma non so ancora qual è. Però sicuramente penso al futuro, non sono fermo al presente. Oggi ho visto per la prima volta la versione fisica di Bellaria, impacchettata e confezionata per spaccare. Tutto il nostro lavoro è qui dentro e sono davvero felice, però guardandolo mi viene subito voglia di fare di meglio. Non vedo l’ora che esca e di sapere se piace alla gente, ovviamente. Però sono già pronto per superarlo.