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Tommy Kuti: l’intervista

03-04-2018 Marta Blumi Tripodi

Tommy Kuti: l’intervista

Di concept album ultimamente se ne sentono davvero pochi (men che meno in Italia, dove non sono mai stati molto diffusi), ma in un periodo parecchio arido di contenuti se ne sentirebbe un gran bisogno. Proprio per questo andrebbe salutata con grande gioia l’uscita di Italiano Vero, il primo disco – chiamarlo album forse sarebbe scorretto: è una sorta di EP esteso, nove tracce iper-concentrate – di Tommy Kuti. Il rapper aveva molto fatto parlare di sé anche prima di farsi conoscere su larga scala con la sua musica. Innanzitutto per le sue origini: è di famiglia nigeriana, anche se cresciuto a Brescia e italiano a tutti gli effetti, ed è stato tra i primissimi rapper di seconda generazione, se non il primissimo, a firmare un contratto con una major di casa nostra (la Universal, nello specifico). Secondariamente, per la sua affiliazione: è l’unico rapper emergente della Big Picture Mgmt di Paola Zukar, la stessa di Fibra, Marra e Clementino, per intenderci. In Italiano Vero, dicevamo, c’è molta sostanza: impacchettato in un sound fresco, coeso e innovativo, il filo conduttore di tutto il progetto è proprio la condizione di italiano nero, oltre che di italiano vero, e tutto ciò che ne consegue. Le soddisfazioni e l’orgoglio, ma anche le difficoltà e il razzismo, la nostalgia per qualcosa che non si è mai vissuto, i pregiudizi della società e molto altro ancora. Il che lo rende protagonista di un’ulteriore prima volta, perché non era mai successo che una major italiana pubblicasse un album incentrato interamente su un argomento così impegnato. Lo abbiamo raggiunto al telefono per fare quattro chiacchiere con lui. (Continua dopo la foto)

Blumi: Quando hai cominciato a fare rap?

Tommy Kuti: A tredici/quattordici anni ero andato a trovare mio cugino in Inghilterra e ho cominciato ad ascoltare il rap americano, e quando sono tornato in Italia ho scoperto quello italiano. O meglio, sono tornato convinto che avrei inventato quello italiano, ma poi ho scoperto che esistevano già Fabri Fibra, i Club Dogo e tanti altri! (ride) Ho sempre scritto dei testi, fin dal liceo, ma ho cominciato a fare musica sul serio solo dopo la laurea, nel 2011, quando sono rientrato definitivamente in Italia. Ho fatto l’università in Inghilterra, per tre anni ho abitato a Cambridge. È un’esperienza che mi ha aiutato molto, perché mi ha permesso di vedere l’Italia da un punto di vista esterno.

B: All’inizio facevi parte di una crew…

T.K.: Sì, i Mancamelanina: non so se chiamarla una crew o un’etichetta, in ogni caso eravamo tanti artisti diversi che facevano musica insieme. Purtroppo però è difficile conciliare tante personalità diverse, anche perché ciascuno ha il suo stile e i suoi argomenti: siamo rimasti tutti in buoni rapporti, ma ciascuno ha preso la sua strada.

B: Ecco, a proposito di argomenti: in un periodo in cui i dischi sono spesso totalmente disimpegnati e servono soprattutto a fare da sottofondo, la tua è una bella presa di posizione. Da dove arriva?

T.K.: Per me è una piccola missione: voglio far comprendere certi fenomeni alla gente, svelare una parte del mondo e un punto di vista che magari non conoscono, ma allo stesso tempo intrattenerla e divertirla. Mi sono reso conto che ci sono un sacco di temi di cui il rap italiano non ha mai parlato. Sono dell’idea che se venissero affrontati e se entrassero a far parte del dibattito generale sarebbe utile a me e a tanti altri come me.

B: Non mancava solo chi parlasse di questi argomenti, ma anche i rapper di seconda generazione. Secondo te come mai in Italia in tutti questi anni ci sono stati così pochi rapper di origini africane, o comunque straniere?

T.K.: Secondo me è proprio una questione anagrafica: quando andavo io al liceo, di ragazzi neri come me ce n’erano pochi. Però vedo che già nella generazione di Ghali ce ne sono molto di più, e il numero andrà ancora a crescere. Una cosa indubbia, comunque, è che fare rap costa: fare video, andare a registrare in maniera professionale… E i miei ragazzi, in confronto a un qualsiasi ragazzo che ha una famiglia italiana, abita in una grande città e ha già contatti e risorse, sono penalizzati dal punto di vista economico e delle risorse. (Continua dopo il video)

B: Il tuo ultimo singolo, Hassan, è la storia di un immigrato clandestino raccontata in soggettiva: una bella botta davvero, soprattutto se si pensa al clima politico di quest’ultimo periodo…

T.K.: Sembra che sia stato fatto apposta per farlo uscire adesso, però in realtà è stato registrato due anni fa. In generale è un tema che mi interessa moltissimo: in tv si parla sempre di stranieri ma non li si vede mai, nessuno li descrive come persone, padri e madri di famiglia, storie personali in cui il destino ti ha reso perdente. Restano sempre e solo statistiche. Voglio raccontare la società italiana attraverso le mie canzoni, e credo che Hassan fosse la più indicata per farlo.

B: Come dicevi prima, quelli che includono argomenti di un certo tipo nei loro testi sono sempre troppo pochi: secondo te c’è del razzismo (anche involontario) nel rap italiano?

T.K.: Aiutami a comprendere questa cosa: perché nei media dell’hip hop italiano e tra gli stessi rapper il mio discorso non è passato? Non saprei se definirlo razzismo o se dipende dal fatto che sono temi pesanti e oggi va di moda parlare di trap e di collane… (ride) Capisco gli ascoltatori, che sono molto giovani, ma capisco meno gli addetti ai lavori, che sembrano un po’ crogiolarsi in questa situazione di leggerezza estrema. Si può dire che nella scena hip hop italiana l’argomento delle seconde generazioni non è stato abbracciato come invece hanno fatto in Francia o in Inghilterra. Lì la vivono come qualcosa che può essere educativa per la società, una maniera per documentare i problemi, mentre qui, soprattutto in questo momento storico, questa deriva non è quasi per niente rappresentata. E per assurdo trovo più riscontri fuori: mi chiamano a parlare nelle università, ho già tenuto dei discorsi alla Bocconi e alla Cattolica, mi hanno chiamato anche alla New York University. Eppure nella scena rap sembra che non freghi un cazzo a nessuno! (ride) Vorrei anche io una spiegazione a tutto questo, se qualcuno potesse aiutarmi a trovarla mi farebbe piacere.

B: Consideriamo l’appello ufficialmente lanciato, allora. Tornando al disco, il sound non è quello che va per la maggiore in Italia in questo momento, ma è molto fresco e internazionale…

T.K.: Il mio obbiettivo è proprio quello di fare cose con un messaggio, ma in maniera non noiosa. Deve esserci un connubio tra serietà e freschezza, all’estero tanti artisti riescono a ottenerlo. Il mio rapper preferito in assoluto è francese e si chiama Youssupha, ma i miei riferimenti sono i vari J. Cole e Kendrick Lamar, quelli che dicono davvero qualcosa. Idem per l’Italia: Fabri Fibra, Marracash e per la nuova generazione sicuramente Ghali.

B: A proposito di Fabri Fibra e Marracash, sei l’unico artista emergente di una scuderia storica che comprende proprio Fabri Fibra e Marracash, oltre a Clementino…

T.K.: E proprio per questo cerco di impegnarmi: è una cosa che mi motiva e mi stimola a migliorare. Sono della scuola che un rapper deve scrivere strofe fighe, indipendentemente da tutto. Anche quando nessuno mi conosceva e non avevo ancora firmato un contratto in major, il mio obbiettivo era quello di scrivere strofe che fossero all’altezza di quelle degli artisti che hai citato.

B: Ultimissima domanda, e si torna all’album, più precisamente alla traccia di chiusura: La Pelle racconta di Africa e origini in maniera molto semplice e diretta, ed è una tipologia di brano che capita spesso di sentire fare ai rapper francesi, ma che in Italia difficilmente si trova. E infatti è stato realizzato proprio con un producer francese, Medeline. Com’è nato?

T.K.: Nel 2016 in Francia, infatti. Ho consultato molti miei amici di seconda generazione, chiedendo semplicemente “Cos’è che ti fa sentire africano?”. Ho amalgamato tutto con le mie impressioni, ma in generale è un pezzo collettivo. Si può dire che La Pelle sia il lato B di Afroitaliano: nel primo metto in luce tutto ciò che mi rende italiano, mentre nel secondo quello che ho in comune con gli altri ragazzi nati da genitori africani.