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Mosè COV: l’intervista

26-02-2018 Riccardo Primavera

Mosè COV: l’intervista

Era da un po’ che non tornavo in Maciachini, l’ultima volta era stata per un incontro nella sede Sony Music Italia. Oggi però l’atmosfera è completamente diversa: non sto entrando in un corporate building, mi sto muovendo in un intricato labirinto di corridoi e porticine, seguendo come un ombra la mia guida, col timore di perdermi. Mosè COV mi sta aprendo le porte del suo piccolo studio personale, nel seminterrato di un complesso di palazzoni. “Pensa che da piccoli, quando organizzavamo ancora delle sorte di block party sui tetti dei palazzi, questi labirinti di corridoi sotterranei ci permettevano di filarcela appena arrivava la polizia, sparendo nel nulla ai loro occhi” mi dice sorridendo il giovane rapper, fuori da poco con il singolo L’ombra di Londra e con una strofa massiccia in Tutto il mondo è quartiere RMX di Ensi. L’ho incontrato per farmi raccontare come nasce la sua musica – con l’occasione di vedere dove nasce – cosa lo ispira e cosa dobbiamo aspettarci in futuro da lui. E la risposta all’ultima domanda è “di tutto”, ma dall’anima sempre underground. Come il suo studio.

Riccardo: I tuoi ascoltatori di lunga data sanno bene chi sei e qual è il tuo percorso; per coloro che dovessero invece scoprirti artisticamente proprio con questa intervista, te la sentiresti di ripercorrere brevemente i passi di Mosè COV, dagli esordi in poi?

Mosè COV: Michia, brevemente è difficile eh (ride, ndr)! Faccio parte di questo collettivo, quello in cui è iniziato tutto, che si chiama COV: le iniziali stanno per i nomi delle tre piazze centrali dei quartieri a cui appartiene il collettivo, ossia Bovisa, Niguarda e Maciachini. Inizialmente era una roba puramente di aggregazione, molto anni ’90, sai i gruppi di 50-60 persone che si frequentano e girano insieme. Successivamente abbiamo iniziato a fare musica, ed è stato naturale mantenere questo nome. I percorso musicale inizia nel 2003 – il collettivo esisteva già da parecchio – ed io ero il più piccolo; inizialmente facevo sia il produttore che il rapper. Ho poi mollato il rap per suonare in una band crossover per cinque anni; sia com’è però, le band si sciolgono, la gente ha i suoi cazzi… Insomma, sono tornato a fare rap. Sono poi entrato in Propaganda e abbiamo iniziato a tirare fuori i primi singoli. Io mi ero allontanato dalla scena, non sapevo quali fossero i suoni o i trend del momento; mi sono rimesso a produrre, ad ascoltare un sacco di roba, portando con me quello che avevo assimilato dalla band e dalle mie esperienze in altri settori. Giostre, Esodo e altri pezzi sono nati proprio così. Da Come si fa ho iniziato a collaborare con Fulvietto (Fulvio Ruffert, ndr): lui in realtà produce principalmente musica techno ed elettronica. Questa cosa è molto figa poiché, ad esempio, lui non conosce a menadito la trap come altri produttori: se gli dici “808” lui sa cos’è, però non ha idea di quale sia l’applicazione standard del genere. Non ha nulla a che vedere con quell’omologazione che porta tutti ad avere lo stesso pacchetto, lo stesso rullante, lo stesso hat… Quindi vado da lui e gli dico “questo è il mio progetto, questa è la mia musica, ho costruito il testo qui sopra”. Ascoltiamo insieme l’ossatura del pezzo, la riarrangiamo – a volte collaborando anche con strumentisti per le parti suonate – cercando di dare un suono forte, anche dal punto di vista tecnico, per non far perdere l’ascoltatore negli effetti, nell’autotune o in cose simili. Io amo infatti quelle produzioni che ti fanno dire “cazzo che figata sto beat, lo ascolterei anche senza la voce sopra”. Insomma, abbiamo lavorato molto su questi aspetti; adesso abbiamo finalmente trovato la nostra impronta, con L’ombra di Londra abbiamo capito quali sono i nostri veri punti di forza e dove dobbiamo puntare. La cosa che preferisco del nostro modo di lavorare è che ogni volta nasce qualcosa di diverso: Come si fa non c’entra nulla con Senza regole, che a sua volta non c’entra un cazzo con L’ombra di Londra, che a sua volta non avrà niente a che fare con il prossimo pezzo. Il filo conduttore è il nostro modo di lavorare, ho sempre sognato di poter lavorare con qualcuno che desse un valore aggiunto a ciò che facevo io.

R.: Più avanti nell’intervista torneremo a parlare del tuo lavoro con Fulvio, ora invece vorrei concentrarmi proprio sul tuo ultimo singolo, L’ombra di Londra. Come sta andando a livello di feedback? Non tanto dal punto di vista numerico, vorrei sapere proprio come ti sembra che sia stato recepito.

M.C.: Ma sai che sta andando veramente bene? Allora, sappi che impegno molto tempo nello scrivere i testi. In principio c’è la musica: finchè non trovo quel giro, quell’accordo che mi emoziona e mi trasmette qualcosa non riesco a scrivere, scartando tantissima roba. Nei testi poi ci metto davvero tanto, posso scriverti una strofa in un giorno, in una settimana, oppure in un mese; poi però mi ci rimetto ugualmente sopra, sono quasi maniacale sul perfezionismo nella scrittura. Anche un aggettivo detto male mi dà fastidio, ci perdo un sacco di tempo e alla fine, alla lunga, questa cura e quest’attenzione è tornata indietro nella forma di feedback positivi. Tantissima gente infatti mi tagga in post con delle mie citazioni, mi manda dei video in cui ascolta la canzone scrivendomi la frase che li ha colpiti di più, mi scrivono tantissimi messaggi sul testo e come sia nato. Secondo me è la cosa che, a distanza di tempo, paga di più: quando torni indietro poi non avrai mai il problema di dire “ma che cazzo ho scritto?!”. Poi il 2018 è l’anno di Instagram, in direct sono pieno di messaggi di ragazzi che mi scrivono riguardo L’ombra di Londra. Non ho mai avuto un feedback simile, neanche quando ho realizzato un pezzo con artisti magari più grossi e conosciuti.

R.: Te la senti di dire che L’ombra di Londra sta rappresentando una sorta di nuovo inizio nella carriera di Mosè COV, nella tua carriera musicale?

M.C.: Sì, assolutamente, la sto vivendo proprio così.

R.: Se guardiamo indietro ai tuoi vecchi pezzi, in particolare ad Esodo, sembra esserci una sorta di connessione, di filo rosso sottile con L’ombra di Londra: la tematica del viaggio. Se in Esodo però si tratta di un approccio più metaforico, dell’”andare via” nel senso di farcela, nell’ultimo singolo siamo di fronte ad un viaggio effettivo, però quello di qualcun altro. Tu come vivi il “viaggio” come tematica? Quanta influenza ha il viaggiare, sia fisicamente che metaforicamente, nella tua musica?

M.C.: Allora, non so se te lo ricordi, ma c’era un pezzo di Marracash che si chiamava Trappole (contenuto nell’album omonimo Marracash, ndr); quella è stata forse la prima canzone in cui qualcuno mi ha effettivamente trasmesso un viaggio, mi ha fatto vedere e provare qualcosa. Marra in quel pezzo ti raccontava, utilizzando le trappole come metafore, il suo viaggio e il suo percorso. Parlava di quanta gente ce l’avesse fatta senza meritarlo, di quanto lo stare a contatto con artisti più grossi di te finisse per farti perdere la tua identità, per finire a vestirti come loro, a parlare come loro; il suo viaggio toccava tutti questi argomenti, la tematica delle trappole era il filo conduttore di questo percorso, contraddistinto anche dai consigli dispensati nel ritornello – “occhio alle trappole”. Ecco, quella è la musica che io vorrei fare, che a distanza di tempo ancora ascolto perché il messaggio che manda è forte. Non è il pezzo che senti in radio o nei locali, ma è uno di quei pezzi che senti dentro, che ti rimane addosso, anche anni dopo. Quando riesci a scrivere qualcosa come quello, con un lessico perfetto, con della poetica, trasmettendo enfasi – anche tramite il flow e la delivery – quei pezzi rimangono forti anche a distanza di tempo. Tanta gente mi ha scritto riguardo Giostre o Esodo, che hanno scoperto dopo L’ombra di Londra e per i quali mi fanno i complimenti. Il viaggio che racconto io è fatto d’immagini, non c’è un nemico immaginario, l’unico nemico forse lo trovo in me stesso, ma con la musica devo farti capire perché.

R.: Hai lavorato con produttori come Lvnar, Garelli, Spenish e altri nomi di tutto rispetto della scuola italiana. Ora che stai lavorando in pianta stabile con Fulvio, praticamente quasi a quattro mani visto quanto mi dicevi prima, come ti trovi a fare musica in questo modo piuttosto che lavorando su beat ricevuti direttamente da altri producer?

M.C.: Guarda, faccio fatica a scrivere su dei beat che mi arrivano da altri produttore, perché sento che in qualche modo non mi rappresentano. È un po’ una fregatura in realtà eh, però dall’altra parte riesco a lavorare solamente così. Quando ho iniziato non avevo un produttore – cioè c’era nel collettivo, ma non mi si inculava perché ero piccolo (ride, ndr). Ho iniziato quindi a produrre da solo, e quando inizi a farlo crei una specie di chimica, un metodo di lavoro che poi non riesci a non utilizzare. Per dirti, in alcuni pezzi in cui rappo su beat altrui, sulla strumentale ho chiesto di aggiungere alcuni elementi specifici in corrispondenza delle mie strofe, mettendoci le mani, perché ogni volta che mi danno un beat ho come la sensazione che manchi qualcosa. Con Fulvio invece ci muoviamo in maniera diversa: arrivo da lui con lo “scheletro” di un pezzo, quindi non arrivo neanche a completarlo prima di portarglielo. Ci mettiamo insieme ad ascoltarlo, ci confrontiamo e ci proponiamo cose a vicenda, spendiamo molto tempo sulla musica. Magari stiamo lì e passiamo la giornata semplicemente ad ascoltare altra musica, a chiacchierare; secondo me è così che nasce la roba davvero figa. Quando puoi dire la tua e sentirti a tuo agio su quel sound, e in più hai un orecchio esterno, di qualcuno che non fa la roba che fanno tutti, tecnicamente molto competente e che con i suoi consigli ti porta a pensare a soluzioni alternative. Il risultato per me è la definizione di roba figa, poi noi possiamo e dobbiamo migliorare, siamo solo agli inizi, non sono neanche sei mesi che lavoriamo insieme. Ovviamente detto ciò non intendo sminuire il lavoro dei beatmaker, anzi; è proprio una roba mia, non riesco a scrivere su un beat su cui non ho messo le mani, lo sento incompleto. Parte della mia anima è nei testi, ma parte è anche e soprattutto nella musica.

R.: Chi ti segue da prima di questo nuovo boom del rap italiano, che ha portato con sé diversi approcci stilistici e non solo, sa però che a livello metrico e di flow avevi in realtà anticipato molte di queste soluzioni ormai sdoganate. Dalle metriche spezzate in Esodo ad un flow simile ad un flusso di coscienza, alcuni aspetti iniziano a saltare anche all’occhio dei nuovo ascoltatori – basta leggere i commenti sotto il video di L’ombra di Londra per farsene un’idea. A livello stilistico, dov’è che si inserisce Mosè COV in questa “nuova” scena?

M.C.: Sai che non te lo so dire? (si ferma qualche secondo a riflettere, ndr) Perché iniziare ad etichettare, dire roba tipo “faccio trap”, non mi interessa: è rap, punto. Poi che il sound possa sembrare più indie, più commerciabile o più underground è un altro discorso ma è rap. Io mi sento di fare rap, è giusto che si dica così e che si rispetti seriamente questa musica e quello che ha dato, anche perché è indubbiamente il genere più importante degli ultimi dieci anni. Poi se gente come Travis Scott o Lil Yatchy si mette a dire in un’intervista “io non sono un rapper, non c’entro con i rapper” – non ricordo di preciso chi l’avesse detto inizialmente – lo dice solo per provocare, per attirare attenzioni, per creare quell’immagine iconoclasta da rockstar. Lo fanno solo per provocare, ma alla fine amiamo tutti questa musica, amiamo il rap.

R.: L’ultima uscita precedente a L’ombra di Londra risale ormai a parecchio tempo fa – Senza Regole, uscita in esclusiva per Sto Magazine – alla quale è seguito un lungo periodo di silenzio. Ora sei fuori con questo nuovo singolo, a cui è seguita una strofa nel remix di Tutto il mondo è quartiere di Ensi. Cosa possiamo aspettarci da Mosè COV nei prossimi mesi?

M.C.: Adesso uscirà, penso veramente a breve, un nuovo singolo. L’impronta che vogliamo dargli ricalca sempre il modus operandi del lavoro a quattro mani mio e di Fulvio, questa volta cercheremo di approcciarci a suoni più forti, mantenendo sempre un’impostazione conscious nei contenuti. Vogliamo mantenere la cura nel testo facendo però ballare la gente, facendole muovere la testa, creando qualcosa di più adatto ai palchi e ai live. Sono stato recentemente al Gate ad ascoltare Jari (Ensi, ndr) che ha presentato il disco: un live del genere ti apre la mente, ti fa capire come tantissimo, un concerto simile dovrebbero vederlo tutti. Voglio creare musica che possa essere portata sul palco in quel modo: per quanto molti identificherebbero Ensi nell’hip hop più “classico”, lui rapp su ogni fottuto bpm. Riesce a fare la sua roba su qualsiasi strumentale: un artista completo dal quale prendo sicuramente spunto, voglio fare roba a 360 gradi, non dare al pubblico ciò che vuole o ciò che stanno facendo gli altri. Qualunque cosa tu voglia fare, devi farla a modo tuo.