Intervistare Willie Peyote è sempre un’esperienza unica. Penna dall’acume notevole, amante del virtuosismo lessicale ma anche e soprattutto della funzione educativa della musica: ogni suo disco è intriso da una gran quantità di spunti di riflessione notevoli, e l’ultimo non fa difetto da questo punto di vista. Sindrome di Tôret è, anzi, un disco più profondo di quanto possa apparire ad un primo ascolto, uno di quei lavori che necessità di ripetute sessioni di full immersion: nell’attesa della recensione (che arriva, abbiate fede), abbiamo incontrato l’autore per chiedere direttamente a lui delucidazioni sul disco. Ovviamente non si è fatto pregare, ovviamente non è stato banale. Buona lettura!
Riccardo: Partiamo proprio dal principio, dal titolo del disco, ovvero Sindrome di Tôret: indubbiamente particolare, ma soprattutto già “anticipato” all’interno del comparto grafico di Educazione Sabauda. Da cosa nasce questa premeditazione? Cosa si cela dietro questo titolo?
Willie Peyote: Allora, innanzitutto c’è un discorso legato alla libertà d’espressione, poiché la sindrome di Tourette si manifesta in un certo senso con l’incapacità di stare zitti… Vabbè, in realtà la sto facendo breve, sarai sicuramente più bravo di me a parafrasare (in realtà no, quindi per evitare cantonate scientifiche vi rimando alla pagina Wikipedia sull’argomento, indubbiamente più affidabile del sottoscritto, ndr). L’idea è legata anche ad un gioco di parole sindrome di Tôret – Tourette, quindi per evitare che qualcuno me la ciulasse, l’ho inserita direttamente nella copertina di Educazione Sabauda, a mo’ di copyright.
R.: E questo ad esempio è un aspetto che io non avrei mai colto, perché immagino sia torinese…
W.P.: Sì ma infatti non deve essere compreso per forza subito, averlo inserito nel vecchio disco in realtà era solo un modo per ribadire il mio essere sabaudo e il legame con Torino; avendo fatto un intero disco sulla libertà di espressione mi sembrava semplicemente il titolo più adatto – e poi potevo fare la figura di quello che l’aveva già detto…
R.: Quindi non si tratta di un atto premeditato a tutti gli effetti?
W.P.: Sì, di fatto quando abbiamo fatto la grafica di Educazione Sabauda ho detto “scriviamolo che secondo me il prossimo disco lo chiamiamo così”.
R.: Il disco si apre con Avanvera, una traccia che propone quello che poi sarà un leitmotiv ricorrente nel disco: rispetto al tuo ultimo lavoro la tua vena ironica sembrerebbe infatti essersi incattivita, con punte tendenti più al cinismo che al sarcasmo puro. È così o è solo una mia impressione?
W.P.: E dire che il ragazzo che mi ha intervistato prima di te ha detto invece che sono stato meno cattivo… Sta cosa mi fa impazzire (sorride, ndr)! Sicuramente Avanvera è un pezzo cattivo, scritto per esserlo, ed è il manifesto del disco – riassume un po’ tutto quello che ti troverai di fronte. Nell’arco del disco invece ho cercato di prendere ispirazione dai vai stand-up comedian che popolano (sia personalmente che come citazioni) il disco, da Louis C.K. a Montanini, passando per Filippo Giardina, Doug Stanhope… Lo stesso Lanny Bruce, che si è inventato la stand-up comedy, con il discorso sulle parole “cattive”, che diventano armi solo perché imponi di non dirle, dando così loro potere. C’è quindi molta stand-up comedy nel disco, dopodiché io credevo di essere stato meno cattivo dei dischi precedenti, quindi mi cogli alla sprovvista…
R.: Si tratta di un discorso relativo in realtà, forse l’ho interpretata così perché questa volta sei stato meno vago in determinati riferimenti, mi sono reso conto che il fatto di essere stato così preciso stia a significare che vuoi arrivare al punto in maniera inequivocabile – “cattiveria” in senso buono quindi, come incisività dell’umorismo, so che avresti potuto trovare decine di escamotage per restare sui generis…
W.P.: Ah, questo sì. I riferimenti che sono chiari – Adinolfi, la D’Urso, Belpietro, il Movimento 5 Stelle – volevo che fossero così, diretti. Adinolfi e la D’Urso poi se lo meritano, anche se non credo che glie ne freghi niente. Avrei potuto trovare molti escamotage come dici, ma è stata una scelta ben precisa.
R.: Un altro tratto che contraddistingue Avanvera, ma che possiamo utilizzare per descrivere l’intero disco, è la giusta alchimia tra rappato e cantato. Entrambi gli aspetti hanno modo infatti di brillare di luce propria durante l’ascolto dell’album: quanto è stato difficile – per citarti – “Fare un disco che è hardcore, anche se ha un’altra forma”?
W.P.: Non è stato così difficile – nel senso, è stato il disco su cui ho lavorato di più a livello di riscrittura dei brani, dopo una prima stesura. Metti Che Domani l’ho rifatta non so quante volte – dal basso che abbiamo rifatto cento volte con Luca che stava impazzendo, al testo delle due strofe che avrò cambiato 5 o 6 volte, cosa mai fatta; ho spostato delle barre da un pezzo all’altro, ricomponendole, praticamente ho cercato di mettere dentro tutto. Ho provato – non si coglie, ma non doveva essere palese – di ispirarmi al modo di scrivere tipico della trap: il terzinato, certi tipi di pause, di flow… In Ottima Scusa ho cercato di prendere spunto da quello, piuttosto che in La Giusta Metà Di Me – la strofa in extrabeat, ad esempio: non è che Rkomi faccia una cosa tanto diversa. Ho cercato di stare sul pezzo – i dischi che escono li ascolto – l’evoluzione a me piace se è suffragata dal talento, quindi io cerco di prendere spunto da tutto, avvicinandomi anche a nuove forme comunicative. Sul discorso della melodia invece, beh, dopo che ti senti dire “il disco è bello ma non ha gli hook”, “il disco è bello ma non ha i ritornelli”, “il disco è bello ma non funziona”… Beh adesso ti metto i ritornelli, cosa cazzo è che manca a ‘sto giro?
R.: In I Cani sei dichiaratamente politically uncorrect, pungendo – questa volta con un’ironia sferzante ma tutt’altro che pesante – e andando a colpire nervi scoperti e tabù del nostro paese, dal femminismo alla cultura cattolica, con il punto più alto forse proprio nel ritornello: visto il tuo progressivo avvicinamento ad un pubblico più ampio e magari più variegato, non temi che un brano del genere possa rivelarsi in qualche modo controproducente?
W.P.: Mah, tutto può essere controproducente, anche smettere di essere quello che ero fino al disco precedente; quindi no, nella misura in cui però quel pezzo è stato fatto a posta per dare fastidio. Sul femminismo ti correggo, nel senso: io mi ritengo un femminista, ma – come in altri campi – il banalizzare qualcosa di importante per portare avanti lotte prive di significato, per incazzarti con me perché in un pezzo parlo di pompini dandomi del maschilista, quando in realtà ci sono problemi più grossi, dimostrazioni di machismo e maschilismo molto più importanti che tu fai finta di non vedere… Lì m’incazzo e dico che il tuo femminismo non è femminismo, con quest’ultimo non c’entra un cazzo, perché tu stai banalizzando la lotta che dovresti fare – quello era il senso, non mi permetterei mai di sminuire il femminismo come un concetto. La religione già un po’ di più.
R.: Anche se con “nervi scoperti” mi riferivo più che altro al fatto che sembrano essere argomenti dei quali non si può parlare, figuriamoci analizzarli in un pezzo…
W.P.: Sai qual era il gioco di quel pezzo lì? La battuta del ritornello è sostenuta da uno studio scientifico, punto. Il Vaticano può dire quello che vuole, ma c’è un’università a Leeds che ha studiato scientificamente che se bestemmi quando ti fai male senti meno dolore; per le preghiere non c’è nessuno studio scientifico a dimostrare che funzionino. Ci possiamo ridere o ci si può incazzare, questa è scienza però; poi però oh, ricordiamoci che c’è gente che va in giro a dire che la terra è piatta, quindi…
R.: A livello sonoro il disco si distacca dal rap classico, è molto ricercato a livello strumentale, suonato in maniera ineccepibile, palesemente studiato per un format live che preveda una band. Ti sei ispirato a qualche lavoro uscito di recente, italiano o non? A me ad esempio Ottima Scusa ha ricordato le atmosfere di Awaken, My Love di Childish Gambino…
W.P.: Per la ricercatezza è sicuramente merito suo (indica Frank Sativa, ndr), per il resto merito dei musicisti; gireremo assolutamente con una band per i live. Grazie del paragone con Childish, minchia; se fossi riuscito a fare Redbone, beh… Ma alla fine non l’ho fatta (ride, ndr). Sicuramente ho ascoltato molto Childish Gambino, ho ascoltato ancora di più Anderson .Paak, mi sono mangiato To Pimp A Butterfly, poi Kamasi Washington… E si sente. Ma è chiaro che si sente, che ci siano dei riferimenti, che non ho voluto nascondere: prendi ad esempio Battisti, in Donna Bisestile dico proprio “Non dire no”, più chiaro di così! Se prendo una battuta di Louis C.K. e la rigiro mettendola in rima, ma subito prima ho messo l’estratto del suo monologo, beh – tutte le citazioni le faccio a posta, prendi ad esempio Bruno Martino, il pezzo in cui mi sono ispirato a lui si percepisce chiaramente. Tornando alla tua osservazione però, direi più Anderson .Paak che Childish Gambino, dal punto di vista dell’influenza.
R.: C’Hai Ragione Tu sembrerebbe quasi essere la versione di Non Sono Razzista Ma… dedicata ai clichè che caratterizzano il pensiero comune del popolo italiano. Critichi poi anche il finto perbenismo e il qualunquismo che affliggono la nostra società: scrivendo questo brano, ti sei reso conto di essere protagonista – magari di tanto in tanto – dei comportamenti che critichi? È stato un po’ un esame di coscienza scrivere un pezzo del genere?
W.P.: Ma certo, tutto il disco è un esame di coscienza in realtà. È per questo che idealmente parte da un “io” e un “te” separati, per poi diventare “noi” e successivamente portarmi a pensare che siamo simili e quindi a provare empatia; mi avvicino e cerco di capire esattamente cosa provi, per poi realizzare che ogni rapporto umano non è uno scambio ma una pretesa nei confronti degli altri, quindi da Vendesi in poi ricomincia tutto il giro. Tutti gli album che faccio in realtà sono esami di coscienza.
R.: Però mi chiedevo, in un pezzo del genere che è abbastanza specifico anche nei riferimenti che fai – elenchi non pochi cliché durante il pezzo – ti è capitato di pensare una roba del tipo “ah oddio, un tempo la pensavo anche io così” oppure si tratta di roba che hai sempre rifiutato sin dal principio?
W.P.: Non saprei… Nel senso, prendiamo ad esempio “non è che ciò che vivi assume un’importanza proporzionale al numero di foto che condividi”: non l’ho mai pensata in modo diverso. Ho sempre fatto battute sul fatto che se adesso vai in vacanza e non fai foto, praticamente non sei stato in vacanza. Quello non fa proprio parte di me, io non faccio foto; se vai sui miei profili non trovi foto fatte da me, trovi foto in cui ci sono io ma fatte da qualcun altro. Poi vabbè, è ovvio che siamo tutti un po’ vittima dei cliché, poiché viviamo nella società, quindi anche dirti che non mi piacciono i social ma che poi li uso è una contraddizione in termini. Ma tutto il disco è contraddittorio, la tua vita e la mia sono un contraddittorio, il gioco è proprio mettere in mostra questo. Guccini ne L’Avvelenata diceva “affronto le mie e le tue miserie”: quello si fa nella musica, ma mettere in mostra le proprie miserie in teoria dovrebbe essere la prerogativa dell’artista, non dire solo “quanto sei bella, quanto ti amo”… Che due coglioni.
R.: E arriviamo proprio a “quanto sei bella, quanto ti amo”…
W.P.: Le Chiavi In Borsa, dai (sospira sorridendo, ndr)…
R.: Che è forse il pezzo più “user friendly” del disco, sotto tutti i punti di vista – produzione, argomento, stile, scrittura. Come mai hai deciso di non utilizzarlo come singolo di lancio? E mi viene da pensare che non sia un caso che nella tracklist sia immediatamente seguito da Giusto La Metà Di Me.
W.P.: Non è stato il singolo di lancio perché è un pezzo estivo e il disco esce in autunno (ride, ndr). Invece non è assolutamente un caso che subito dopo ci sia Giusto La Metà Di Me: allora, fare la tracklist di questo disco è stata indubbiamente la parte peggiore. Le Chiavi In Borsa è indubbiamente il pezzo più gay friendly (ridono tutti, ndr), nel senso che mi danno del frocio: anche lì però avevo voglia di mettermi alla prova con una roba che non avevo ancora fatto in quel modo. Pensa a Giusto La Metà Di Me, che è un pezzo che parla dei rapporti umani: considera però che quel pezzo nasce originariamente come una mia poesia, che è poi diventata il ritornello della canzone scritta in un altro modo – faceva parte di un progetto di poesie, libri e altre puttanate che poi non ho fatto perché giustamente ho fatto un disco. Nasceva in tutt’altro modo, però poi ho cercato di metterla in musica. Anche in Le Chiavi In Borsa però si parla di un rapporto nel quale la persona che hai di fronte – di cui sei innamorato e che dice di essere innamorata di te – in realtà ti guarda negli occhi cercando di capire da te risposte che verbalmente non le dai. Quindi si tratta comunque di un rapporto nel quale c’è una pretesa verso l’altro: non è mai quindi un rapporto sincero e altruistico. Si parla d’amore, sì, ma non nel solito modo.
R.: Infatti il mio “user friendly” non voleva essere sinonimo di banale, si riferiva piuttosto alla capacità del pezzo di arrivare in maniera immediata…
W.P.: Sì, è fatto a posta, anche Portapalazzo ha il ritornello che si apre, accendini, cose… È tutto voluto; Metti Che Domani è il pezzo più radio friendly, ed è stato fatto per esserlo – non c’è una parolaccia in quel pezzo, e non è un caso. Tutte le scelte, ogni singola parola in questo disco – più che nei precedenti – è stata pesata e studiata nei minimi dettagli. Non c’è nulla lasciato al caso: con Le Chiavi In Borsa ho cercato di fare proprio quel tipo di pezzo. Poi magari non sarò bravo quanto gli altri a farne, ma ci ho provato (sorride, ndr).
R.: Ascoltando il disco – e in generale la tua musica – sembri quasi voler dire “guardate, potessi andrei a vivere su un’isola deserta perché non sopporto la gente”: sfogarti così, per mezzo delle canzoni, ti permette poi nella realtà di viverla più serenamente?
W.P.: Che poi anche questa è una contraddizione… Però sì, senza dubbio. Diversamente da altri ho la fortuna di poter far parlare una persona che non sono io, perché fondamentalmente Willie Peyote non sono io. Cioè, sono io ma allo stesso tempo non lo sono, soprattutto nella percezione degli altri: fondamentalmente è come se fossi un ventriloquo. È un po’ come essere Er Faina, per certi versi (moooolto meglio di lui, aggiungerei, ndr). Sì, lo faccio anche per sfogarmi, però non è più solo quello – adesso so che c’è qualcuno che quel disco lo ascolterà, che lo aspetta addirittura. Mi sento quindi una sorta di responsabilità nei loro confronti; però sì, è una valvola di sfogo… Non vado in palestra ma scrivo canzoni.
R.: Viviamo in un periodo storico nel quale etichettare la musica sta diventando più deleterio che utile, e tu sei indubbiamente un esempio lampante della futilità delle etichette – o delle classificazioni rigide per generi. C’è però qualche nome della scena italiana con il quale senti di avere delle affinità?
W.P.: L’unico artista da cui mi sento rappresentato è Giorgio Montanini, ed è per questo che è nel disco. Tolta ovviamente l’affinità con Duccio (Dutch Nazari, ndr) che è sottintesa, io ritengo che l’unico altro gruppo che di tanto in tanto provi a fare un discorso politico nella musica – come cerco di farlo io – sia Lo Stato Sociale. Anche loro poi vittime del meccanismo per il quale devi fare il singolo da radio altrimenti non fai più i palazzetti eccetera eccetera; ma in generale sono l’unico gruppo in questo cazzo di paese che prova a mettere lì un concetto che parla di politica, ma soprattutto che arrivi ai ragazzi parlando di politica. Non ce ne sono altri. E non la pensavo così fino a poco tempo fa, anche conoscerli di persona mi ha aiutato a cambiare idea su di loro. Ma davvero, trovami un solo altro gruppo che faccia riferimenti politici – e non roba del tipo “i fascisti sono cattivi” et similia. Gruppi veri, che fanno migliaia di persone ad ogni concerto e che ogni tanto cercano di dire qualcosa di sensato e aiutare quei ragazzini che hanno sotto a prendere posizione nella loro vita. Perché quella gente lì un giorno voterà: se ascolti la DPG, secondo te, chi cazzo voti?
R.: Con chi ti piacerebbe invece collaborare in un futuro più o meno lontano?
W.P.: Con Daniele Silvestri, con Paolo Conte, con (Frank Sativa bisbiglia Micheal Jackson, ndr) – no lui purtroppo è morto, questi sono ancora in vita… Oddio, Paolo Conte ci rimane ancora per poco, quindi dovrei muovermi (ridono tutti, ndr). No, questi; con Lo Stato Sociale mi piacerebbe, ma potrebbe succedere prima o poi, altri non saprei, non lo so davvero.
R.: Ed è la prima volta che un artista mi va così in difficoltà con una domanda simile, di solito iniziano a sciorinarmi fiumi di nomi di rapper…
W.P.: Sì, fiumi di nomi di rapper del cazzo… No, nel senso buono del termine: ma perché devo fare un pezzo con uno che fa già quello che faccio io? Dov’è l’arricchimento reciproco? Facciamo allora una posse track in cui tiro in mezzo Murubutu, Claver Gold, Moder, Kenzie, Johnny Roy, facciamo l’Under Festival in posse track e siamo tutti contenti. Però l’abbiam già fatta (sorride, ndr).