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Ketama126: l’intervista

08-08-2017 Marta Blumi Tripodi

Ketama126: l’intervista

La 126, o Love Gang che dir si voglia, fino a qualche mese fa poteva essere considerata un fenomeno prettamente locale: a Roma era già conosciuta da anni, altrove molto meno. Il successo di Carl Brave x Franco126 (stay tuned per la nostra intervista in uscita a breve, tra l’altro) ha portato i riflettori dell’intera Italia a puntarsi anche sugli altri membri della crew, come Ketama126, che qualche mese fa è uscito con un album, Oh Madonna, da pochi giorni disponibile anche su iTunes e su tutte le altre piattaforme digitali. Quando lo raggiungiamo al telefono durante una pausa del suo tour estivo, ci risponde in romanesco – probabilmente, anzi, questo è il primo caso al mondo di intervista tradotta dal romanesco all’italiano. La prima impressione è quella di un personaggio genuino e per nulla costruito, nel bene e nel male.

Blumi: Per alcuni la Love Gang è una crew recentissima, esplosa solo quest’anno, ma in realtà voi siete in giro già da un bel po’, giusto?

Ketama126: Esatto, abbiamo sempre fatto musica fin da quando avevamo sedici anni, anche se ci siamo messi seriamente a farlo a tempo pieno solo da due anni.

B: Il sound è sempre stato quello, o con gli anni vi siete evoluti?

K126: Diciamo che più o meno abbiamo sempre fatto la stessa cosa, con qualche cambio in corsa: chiaramente nel 2014 andavano altri suoni, la situazione era un po’ diversa e anche noi non eravamo gli stessi di oggi.

B: Lavorate spesso tutti insieme, ci tenete molto a trasmettere soprattutto l’identità del collettivo…

K126: Siamo amici e ci vediamo tutti i giorni a prescindere dalla musica: ci è venuto automatico cercare di dare l’idea di un gruppo compatto. Detto questo, però, ciascuno ha il suo stile che è diverso da quello degli altri. Insomma, non siamo una boy band: siamo una crew in cui ciascuno fa le sue cose alla propria maniera, collaborando però con gli altri.

B: Ecco, qual è la tua maniera?

K126: Ah, non lo so, questo lo devono dire gli altri, non io! (ride) Cerco di essere me stesso e originale il più possibile, per il resto fate voi.

B: Parliamo di Oh Madonna, allora: cosa hai voluto esprimere con questo disco?

K126: Questo non è un concept album, ma una raccolta delle tracce che ho fatto dal 2015 (anno di uscita del suo disco precedente Ketam-City, ndr) ad oggi. Con molti scarti e molti aggiustamenti, chiaramente: ho cercato di prendere il meglio di quel periodo. Insomma, non mi sono messo a tavolino a dire “Farò un album così e così”: è venuto fuori spontaneamente. L’unico filo conduttore sono io.

B: Com’è venuta fuori l’idea della copertina?

K126: La mia idea, all’inizio, era di mettere semplicemente l’immagine di una Madonna che piangeva, ma il ragazzo che l’ha realizzata ha pensato di aggiungere anche la gente che la fotografa. Il concetto è che lei piange per i peccati dell’uomo, ma l’uomo, anziché rattristarsene e chiedersi perché lo fa, la fotografa come se fosse un fenomeno da baraccone.

B: Il titolo è molto ironico, così come il resto dell’album. Una cifra che ti identifica molto…

K126: … E con cui finisco per scavarmi la fossa da solo, dici? (ride) In un genere musicale come la trap, in cui c’è gente che si prende sul serio fino alla morte e poi nella vita privata è una pecorella, distaccarmi al massimo da questo modello per me è la cosa più importante. Anche a costo di esagerare con l’ironia. Però, se ci pensi, l’ironia serve soprattutto a stemperare il senso di quello che dico, perché gli argomenti di cui parlo sono abbastanza pesanti.

B: A proposito di trap, c’è dibattito su quello che fate voi della 126: alcuni dicono che è trap al 100%, altri pensano che sia indie pop che prende in prestito certi suoni dalla trap. Tu come la vedi?

K126: Se devo classificare quello che faccio con il nome di un genere musicale, è chiaro che faccio trap: i beat sono quelli, i suoni pure, parlo continuamente di droga e di soldi… Cos’altro potrebbe essere? I canoni ci sono tutti. Però cerco di farla senza fare il compitino, a modo mio, e senza rifarmi alla trap italiana, che secondo me è un po’ indietro come concetto, perché se dici trap in America parli soprattutto degli argomenti (lo spaccio di droga su tutti) e non di un certo tipo di suono. Se faccio trap è perché la vita mi ci ha portato, perché è questo che respiro tutti i giorni. Se avessi fatto un altro tipo di vita, avrei fatto un altro genere. E se un domani la mia vita dovesse cambiare, magari potrei finire a fare altro.

B: Vi rifate agli americani e non alla scena italiana, quindi?

K126: Certo, noi la trap l’abbiamo sempre ascoltata, è dal 2007 che spingiamo Gucci Mane. In America non era una novità, perché la trap c’era già da tempo, ma era una cosa fresca, e ci piaceva ascoltarla.

B: Restando in tema di scena trap italiana: se si pensa alla scena romana al momento predominano soprattutto due collettivi, il vostro e la Dark Polo Gang, e quest’ultimo è un argomento parecchio controverso, anche per noi. Vi sentite in contrapposizione oppure siete parte della stessa cosa?

K126: Abbiamo un botto di cose in comune. Andavo a scuola con Side, ad esempio, anche se non eravamo in classe insieme perché lui ha due anni meno di me, e ancora oggi lo considero un amico, un fratello. E poi veniamo tutti dalle stesse zone: alcuni di noi sono di Trastevere, altri di Monteverde e altri ancora di Monti. Abbiamo sempre frequentato gli stessi posti, ma sicuramente siamo molto diversi come crew, come persone, come visione delle cose. Siamo comunque contenti del loro successo di adesso, perché alla fine veniamo dallo stesso giro.

B: Ora che l’album è fuori anche in digitale, cosa ti aspetta?

K126: Quest’estate sono impegnato soprattutto a suonare in giro, ma nel frattempo continuo comunque a fare musica, come sempre: non mi sono mai fermato.