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deDUBros: l’intervista

15-06-2017 Haile Anbessa

deDUBros: l’intervista

deDUBros sono un duo toscano che ha appena realizzato un documentario di 15 minuti intitolato The dub talk. Con esso i musicisti e produttori Federico Cioni e Diego Cossentino condividono la loro passione e il loro modo di intendere la musica dub mostrando allo stesso tempo quello che sta dietro la loro produzione musicale. Vediamo cosa hanno raccontato a Hotmc.

Haile Anbessa: come vi siete incontrati?
Federico: Era l’estate del 2011 e contattai Diego per sostituire il batterista della mia band per alcune date dei tour che avevamo con Mama Marjas e Jaka.
Diego : Per me fu una bellissima occasione, si trattava di suonare con artisti che fino a poco prima seguivo da spettatore. L’affinità musicale ed umana ha messo le radici in quel momento e l’estate successiva eravamo in studio a lavorare alle nostre produzioni.

H.A.: come è nata la vostra passione per il reggae e il dub in particolare?
D: Per quel che mi riguarda, ci sono arrivato tramite ascolti passati da amici, Bob Marley ovviamente, ma anche Dennis Brown, Burning Spears, Gregory Isaacs, quelle sono stati i primi fuochi. Il dub è arrivato dopo… Vidi un concerto degli Almamegretta nella piazza del paese dove abitavo, era il 2001 credo, avevano il dubmaster sul palco, una cosa che mi attirava ma che non capivo… Così iniziai a ricercare suoni ed atmosfere simili a quello, scoprendo Massive Attack dunque Mad Professor ed il dub UK; qualche anno dopo entrai come batterista in una band, i mindFULL, capitanata da due irlandesi, che mescolava il dub e lo ska alla loro musica tradizionale. Grazie a loro, ed alle loro invidiabili collezioni di dischi, mi si è aperto un mondo!
F: All’epoca studiavo il basso ed avevo un mio gruppo punk, gli Assenzio. Fui chiamato a registrare un disco di reggae, genere che non conoscevo affatto, a parte appunto qualche brano di Marley. E’ cominciato così, per curiosità ma è esploso immediatamente un richiamo. Di lì ho cominciato ad approfondire sempre di più sia musicalmente che a livello di produzione e suoni, il dub è arrivato come naturale evoluzione del processo di scoperta e ricerca personali come ingegnere del suono e produttore.

H.A.: cosa rappresenta il dub per voi? Come lo descrivereste a qualcuno che non abbia idea di cosa sia?
D: Il dub è un momento unico ed irripetibile, è la possibilità di maneggiare il suono, di toccarlo e plasmarlo in maniera sempre nuova, è lasciarsi andare e scoprire nuove atmosfere dello stesso brano, metterne in evidenza momenti e parti diverse, scarnificarlo fino all’osso per poi di nuovo lasciar suonare tutto assieme… La percezione che se ne può avere, scevra da ogni preconcetto, è comunque molto varia, a volte sorprendente ed intuitiva, proprio qualche sera fa, dopo un set, un ragazzo si è avvicinato per fare due chiacchiere e ci ha detto: “Quello che fate mi sembra un po’ come il jazz, c’è un tema, c’è un brano, ma poi ogni volta lo improvvisate diversamente, e tutto cambia!”
F: Per darne una descrizione più tecnica, è un missaggio fatto in diretta mentre il brano scorre, modificando il suono del pezzo e agendo sulle singole tracce utilizzando effetti che controlliamo anch’essi in diretta. Portiamo dal vivo quello che facciamo sui brani in studio e fondamentalmente la postazione che ci siamo auto-costruiti è una sorta di piccolo studio mobile. Il mixer nel dub viene suonato come uno strumento, come un basso o una chitarra.

H.A.: parlatemi di The Dub Talk…
D: The Dub Talk è la nostra voce, un racconto onesto e sincero di quello che siamo e facciamo quotidianamente, di quello che abbiamo fatto fino ad oggi e delle prospettive che abbiamo per domani. Nasce dall’esigenza profonda di portare all’esterno e condividere quello che sentiamo, l’energia e la passione con la quale lavoriamo sulla nostra musica, che rimane sempre l’elemento centrale e sempre presente nelle nostre vite.
F: The Dub Talk è il percorso che abbiamo fatto sin qui insieme a coloro che abbiamo incontrato e con i quali abbiamo collaborato. Avere la partecipazione, le parole, il sostegno e la stima di artisti come gli Almamegretta, Dennis Bovell, sono punti fermi e stimoli a migliorarsi ed ampliare le prospettive.

H.A.: come avete coinvolto nomi come Lee Jaffe e Dennis Bovell?
D: Lee Jaffe è stato un incontro particolare, si trovava a vivere a Firenze per un periodo ed è stato lui a trovarci, chiedendo informazioni su musicisti e produttori locali di reggae. Lo invitammo in studio, lui ascoltò alcuni brani e ci chiese subito se poteva registrare qualcosa. E’ successo tutto in maniera molto naturale, sensibilità che si trovano benissimo già al primo incontro.
F: Dennis lo avevo conosciuto anni fa, quando col mio progetto di allora, i Michelangelo Buonarroti, avevamo riproposto alcuni brani della sua produzione. Ebbi anche l’occasione di stare con lui a Londra a lavorare su un remix di un brano di Manu Chao. Una persona con una energia pazzesca ed una qualità e creatività musicale sconfinata. Diego ci aveva lavorato con la sua band, i Roots United, al singolo Fall Babylon, band che lo ha anche accompagnato in alcuni live qui in Italia. Con Dennis c’è un profondo rapporto di stima ed amicizia reciproca.

H.A.: state lavorando a qualcosa in studio?
D: A dire la verità, il lavoro in studio è pressoché costante ed il tempo a disposizione mai abbastanza. Stiamo producendo l’Ep di Oppositive, progetto di due giovani artisti italiani, un disco in collaborazione con artisti messicani, abbiamo terminato delle registrazioni per dei Sound System e ci apprestiamo ad iniziarne delle altre.
Stiamo anche costruendo un nucleo produttivo di musicisti, ma non solo, che vorremmo portare ad essere un riferimento per portare nomi internazionali a suonare dal vivo e produrre musica nel nostro paese e più in generale in Europa.

H.A.: come lo percepite il futuro della musica reggae a livello nazionale e internazionale?
F: Siamo nel circuito del reggae da un po’ di anni, ed abbiamo avuto la fortuna di collaborare con artisti che il reggae lo hanno costruito e diffuso, sia a livello italiano che internazionale. Il futuro, di un movimento culturale e musicale in questo caso, sta solidamente in piedi quando le radici del suo passato sono profonde e ben piantate. L’età moderna spinge a voler ottenere risultati il più in fretta possibile, spesso rincorrendo stilemi e stilizzazioni più rassicuranti che sono però spesso effimeri sul lungo tratto. Questo ovviamente succede nel reggae come in altri contesti.
D: Come una pianta, il futuro ha bisogno del suo tempo ed ha bisogno di essere nutrito e sostenuto. Il futuro del reggae e del dub ci auguriamo sia fatto di collaborazioni con luoghi e culture diverse, di curiosità, sperimentazione ed innovazione, di scambio e ricerca continua e di apertura senza timori e senza limiti o preconcetti mantenendo, come ha detto Federico, radici solide.