Tra tutti gli esponenti della scena trap italiana, Izi è considerato all’unanimità uno dei più profondi e introspettivi, nonché uno di quelli che riuscirebbe tranquillamente a ricostruirsi una carriera solida nel rap “tradizionale” anche se questo sound dovesse rivelarsi solo una moda passeggera, tant’è che non si identifica del tutto con il sottogenere. E infatti non a caso il king assoluto del rap introspettivo, onirico e sperimentale, Dargen, lo ha voluto tra gli ospiti del suo ultimo progetto piano-rime Variazioni. Che Izi abbia parecchio da dire e che abbia tutti gli strumenti per dirlo bene, ormai è chiaro a tutti. Pizzicato è il suo secondo album ufficiale, ma in un certo senso si può dire che sia di fatto il suo primo vero lavoro: a differenza di quanto era successo con Fenice, infatti, stavolta ha avuto modo di lavorare con calma e di ponderare ogni mossa. E il risultato è apprezzabile al di là dei gusti personali. Lo abbiamo raggiunto al telefono mentre prosegue i suoi instore (il tour, invece, partirà l’1 giugno da Napoli: tutte le altre date qui).
Blumi: Cosa significa per te il titolo Pizzicato?
Izi: Innanzitutto è un riferimento alla title track, a cui ho fatto fare un arrangiamento molto classico, con un’arpa pizzicata: un approccio sperimentale, perché la musica classica ha influenzato molto tutto l’album. La parola, comunque, ha molte accezioni diverse: per me è anche un sinonimo di infastidito da questa società priva di valori e di ideali, vuota, che cerca solo l’apparenza mentre io sono alla ricerca di qualcosa di superiore, personale, spirituale. Come esseri umani siamo intrappolati in abitudini e schemi mentali che ci logorano e ce ne dovremmo liberare, se vogliamo entrare davvero in contatto con noi stessi. E poi, in maniera non arrogante, c’è anche l’accezione del pizzicato dall’alto, prescelto: sento la responsabilità di dover parlare a tutti i ragazzi che mi seguono e di dire qualcosa di vero e trasparente.
B: In un’altra tua recente intervista definivi quest’album “una specie di auto-analisi”, in senso psicologico: in che senso?
I: La mia musica è sempre stata un po’ un’autoanalisi: io scrivo molto di getto e quindi molte delle mie rime escono direttamente dal mio inconscio. Spesso me ne rendo conto solo dopo, rileggendole e trovando dei significati che magari quando le avevo scritte non avevo colto subito. E pian piano anche chi ascolta l’album si accorge che ci sono diversi livelli di lettura.
B: Della trap si dice spesso che il sound conta molto più del contenuto. È così anche per te oppure i due fattori hanno lo stesso identico valore?
I: Sicuramente esistono molti pezzi più aggressivi e ignoranti, ma secondo me si possono integrare ottimi contenuti anche in un pezzo trap, e quando si fa il lavoro esce ancora più figo. Io comunque non mi sento un trapper, è una parola che odio: sono un artista, faccio musica, la trap mi piace come suono ma devo sentirmi libero di esprimermi.
B: Non ti senti un trapper, ma un rapper ti ci senti?
I: Per me sono tutte semplici etichette, in fin dei conti. La trap sicuramente è l’ombrello sotto cui tutti noi artisti della nuova generazione ci ritroviamo, per suono e per attitudine, però io non voglio rimanere legato a questo: se domani mattina mi venisse voglia di cimentarmi con qualche altro genere musicale, non vedo perché non dovrei farlo. Amo sperimentare e non mi piace rimanere fermo nello stesso punto troppo a lungo.
B: A proposito di sperimentare, il suono del disco è molto vario: ci trovi i classici stilemi della trap ma anche violini e chitarre elettriche, e anche la voce – che comunque è trattata con l’autotune – non ha un flow tipicamente trap…
I: L’autotune, tra l’altro, non c’è neanche in tutti i pezzi: lo uso da molto tempo, ma quando ho iniziato non era parte del mio rap, quindi mi piaceva l’idea di tornare a proporre delle strofe “al naturale”. È sicuramente un album vario, sia nei testi che nelle produzioni: è molto cupo, ma non mi sono posto il problema di fare dei brani che alleggerissero l’atmosfera perché io sono proprio così e volevo fare qualcosa che mi rappresentasse. Credo sia un disco da ascoltare con le cuffiette, si adatta molto a un contesto intimo, da cameretta. Sono contento di come è uscito: non mi aspettavo che fosse capito così tanto, e invece sta andando tutto bene.
B: È curioso: perché ti aspettavi delle incomprensioni?
I: Ho la sensazione che la gente segua me e gli altri ragazzi nuovi per come appariamo, per l’ignoranza di alcuni pezzi di cui parlavamo prima. Tutti noi – Tedua, Sfera, Ghali, Rkomi, Dark Polo Gang, Enzo Dong – facciamo sicuramente molte cose ignoranti, ma volevo dimostrare che non siamo solo quello. Sia chiaro, qui non è una questione di trap o non trap, ma di generazioni a confronto: io ho ventun anni e appartengo a una nuova ondata, che al momento ha quelle caratteristiche. Pensavo che la gente si aspettasse la versione più giocosa e tranquilla di me stesso, e non tutto il resto. E invece, anche se il mio album è completamente diverso da quell’immagine, più raffinato e ricercato, vedo che i riscontri sono molto buoni: anzi, finora non ho avuto commenti davvero negativi.
B: Restando in tema dell’immagine che dai di te: il grande pubblico ti ha conosciuto attraverso il film di cui sei stato protagonista, Zeta. Un film oltretutto abbastanza controverso, perché non dava un’idea realistica di che cos’è l’hip hop in Italia. Il tuo primo album Fenice è uscito proprio sfruttando il traino del film, quindi immagino tu abbia dovuto chiuderlo in fretta e furia…
I: Proprio così.
B: Alla luce di tutto questo, vorresti mai che le cose fossero andate diversamente e che la gente ti avesse conosciuto in un contesto diverso?
I: Certo, ogni tanto lo penso. Però non cambierei le cose, anche potendo tornare indietro, perché quello che è successo mi ha aiutato a crescere sotto molti aspetti. Avrei voluto sicuramente che il film fosse meno pop: avrei mantenuto il focus della storia sul rap e non sull’amore, non perché non sono una persona romantica, ma perché c’era bisogno di un film più realistico, perché il pubblico italiano non ne aveva ancora mai avuto uno. Però, proprio perché siamo in Italia, c’era da aspettarsi che non potesse succedere. È stato difficile per me accettare che fosse così fiction. Avrei preferito fare una cosa più autobiografica, mi ha dato un po’ fastidio il fatto che la trama strumentalizzasse la mia vita in un contesto così poco realistico. E poi, come dicevi, l’album l’ho dovuto registrare in pochissimo tempo per poterlo lanciare insieme al film, il che è stato difficile. Detto questo, non mi rimangio nulla.
B: Tra le cose che il film riprendeva della tua vita reale c’è anche il fatto che sei affetto da diabete. Quanto è difficile fare un lavoro sregolato come il musicista, in cui spesso non ci sono orari e regole, dovendo convivere con una malattia del genere?
I: Molto. Anche perché io sono molto perfezionista sul lavoro e non mi va di fermarmi solo perché il mio corpo me lo impone. Una volta andavo avanti imperterrito senza pensarci, ma poi ne ho pagato le conseguenze: oggi cerco di trovare un equilibrio tra benessere fisico/mentale e lavoro. È molto difficile ma lo devo fare, perché altrimenti non riuscirei neanche a vivere sereno e a trovare l’ispirazione per scrivere. È tutta esperienza: con il tempo imparerò a gestirmi sempre meglio.
B: Cambiando argomento, Genova è una città un po’ fuori dalle mappe per la scena rap: non ci sono tanti artisti genovesi noti a livello nazionale. Come la vedi, dall’interno?
I: Molti pensano che a Genova non ci sia mai stata una vera scena rap, ma si sbagliano. C’è sempre stata, ma era abbastanza disgregata: ciascuno lavorava per i fatti suoi, creando il suo piccolo mondo. Pian piano, però, abbiamo cominciato ad unire le forze: io, ad esempio, con i Wild Bandana, la mia crew di cui fa parte anche Tedua. Poi c’è Drilliguria, che riunisce tutta una serie di rapper liguri di nuova generazione come Nader o Bresh. E storicamente c’è sempre stato Albe Ok, un ragazzo molto più grande di me (classe 1982, ndr) che oggi conosco bene e con cui ho avuto il piacere di collaborare: secondo me è sempre stato molto sottovalutato, perché è sempre stato ai livelli di tutti i rapper che mi ascoltavo da piccolo. Credo comunque che noi siamo stati i primi a emergere davvero nel mainstream, e ora la situazione si è evoluta in meglio: tanti ragazzini vedono con orgoglio l’ascesa di Genova e cominciano a lavorare in studio. Le nuove leve sono molto forti, e sono contento che siamo riusciti a scaldare un po’ l’atmosfera e ad allargare un po’ l’orizzonte.
B: Ultimissima domanda, che più che altro è una curiosità: come ti immagini te e i tuoi soci della nuova scena trap tra dieci anni?
I: Non saprei. Penso che, come sta succedendo già ora, ciascuno dovrà concentrarsi sul proprio lavoro e quindi non saremo mai più uniti come lo eravamo all’inizio, quando non avevamo molto da fare e quindi ci trovavamo spesso tutti insieme. Ovviamente il rispetto e l’affetto per tutti loro non cambiano assolutamente. Spero che tra dieci anni saremo ancora tutti in campo e che riusciremo a continuare a fare la nostra musica: e credo e penso che sarà proprio così.