Illustrazione di Paolo Gallina, tutti i diritti riservati
Essere coerenti di questi tempi sembra quasi un disvalore: come se la coerenza corrispondesse automaticamente all’incapacità di rinnovarsi e di seguire i trend sempre mutevoli dell’hip hop italiano. Per fortuna, però, esistono persone come Kento, che ci dimostrano che rimanere saldamente ancorati alle proprie radici, ai propri binari e ai propri ideali non vuol dire non cambiare mai, vuol dire semplicemente essere consapevoli di chi si è e di dove si vuole andare. Da Sud, realizzato sempre in compagnia della band Voodoo Brothers, è la prosecuzione naturale di un percorso già intrapreso, ma è l’evoluzione di quel percorso, con tante novità (soprattutto a livello di suono) e tante certezze (soprattutto a livello di contenuto). Ma è anche un passo avanti, e soprattutto segna l’inizio di una nuova vita per l’mc calabrese che, come ci racconta davanti a una birra durante la presentazione milanese del suo album e del suo libro, ha da poco abbandonato le certezze di un lavoro d’ufficio per concentrarsi solo sulla sua arte.
(Illustrazione originale di Paolo Gallina x Hotmc, tutti i diritti riservati)
Blumi: Come ci si sente a lasciare il lavoro per fare solo musica, quindi?
Kento: Ti confermo che è stata la scelta migliore che potessi fare: sto dando tanto alla musica e la musica mi sta restituendo ancora di più. Sono sereno, perché vengo dal niente e sono prontissimo a tornare al niente: se dovessi tornare a fare un lavoro “normale”, lo farò col sorriso e la gioia di averci provato. Per ora vivo questo momento magico, con tanti progetti in campo e tante novità in fase di sviluppo.
B: Tra i progetti in campo c’è anche il tuo libro, Resistenza Rap: prima di parlare di musica, parliamo un attimo di questo?
K: Nasce da un input del mio editore, Round Robin, che ha letto il mio diario di viaggio in Palestina nel 2014 e lo ha molto apprezzato, chiedendomi poi di farne un libro. Ci ho pensato un po’ su, ma alla fine ho accettato: non è stata una scrittura breve, ci ho messo un annetto, perché volevo che fosse qualcosa di organico e non una collezione di aneddoti. Ho cercato di dare un filo conduttore tematico, ma senza pormi limiti: dentro ci sono racconti, episodi, diari di viaggio, ma anche riflessioni più astratte. Volevo che la struttura del libro riflettesse il mio percorso sia fisico che mentale degli ultimi anni.
B: Torniamo al disco, invece…
K: Dico sempre che Radici l’ho scritto in tre anni, mentre Da Sud l’ho scritto in tre mesi. È stato un lavoro molto più urgente ed è quello di cui sono più contento in assoluto, perché mi rappresenta in tutto ed è frutto delle mie esperienze. È il rap dell’era Trump, da un certo punto di vista, perché è il rap dei conflitti che si acuiscono, suona più scuro e intenso, ma anche perché negli ultimi due anni ho ascoltato cose diverse rispetto al solito, ad esempio i Run the Jewels e credo che questo si senta. Questo mi ha dato modo di divertirmi molto di più anche nella scrittura: c’è l’extra beat, l’off beat, la rima alternata, soluzioni di bpm molto diverse da quelle che avevo scelto per Radici… Insomma, è un lavoro più vario.
B: In effetti questo sembra un album più a 360 gradi, rispetto a come ci immaginiamo il canonico “disco con una band”… Era voluto?
K: Radici ci aveva aiutato a stabilire dei confini, Da Sud ci ha aiutato ad andare oltre. Non cambierei nulla di quel primo disco, ma volevo provare a rischiare e ad andare oltre. Quindi sì, è stata una scelta.
B: Sei considerato tradizionalmente un rapper che parla molto anche a (e piace molto anche a) quelli che di solito non ascoltano rap. Proprio per questo mi ha stupito sentire che Da Sud si apre con varie tracce dedicate alla scena hip hop e alle sue dinamiche: non era un po’ rischioso iniziare il disco con un tema così settoriale, considerando il tipo di messaggio che hai sempre mandato tu?
K: È una scelta che fino a qualche anno fa non avrei potuto fare. Adesso posso farla perché l’hip hop è mainstream, quindi tutti capiscono il suo linguaggio e il suo lessico: mi verrebbe da dire che l’hip hop è il rock’n’roll degli anni ’00. Discorsi che fino a ieri erano per un pubblico molto ristretto, oggi possiamo permetterci di rivolgerli a tutti. L’estetica dell’hip hop è diffusa anche a livello visivo.
DJ Fuzzten: (Interviene nel discorso, ndr) Pensa a quante volte senti passare una macchina accanto a te con i finestrini abbassati e ti accorgi che l’autoradio sta sparando hip hop. Un tempo sarebbe stato un evento rarissimo, oggi è normale.
K: Anche il pop più becero e i jingle delle pubblicità oggi si fanno influenzare dall’hip hop. Quando sento dire “l’hip hop è il linguaggio dei giovani” mi viene il prurito. Un po’ come quando sento dire “Internet è il futuro”: no, per la miseria, Internet è il passato! E l’hip hop oggi è il linguaggio di tutti, anche di quelli che non se ne rendono conto.
B: I testi, però, sembrano abbastanza incazzatelli rispetto a ciò che l’hip hop è diventato, vedi ad esempio la frase “l’hip hop è vivo, siete voi che siete morti”…
K: Quello che citi è un verso a cui tengo molto, ma è dedicato ai detrattori dell’hip hop. Sono almeno quindici anni che sento dire “L’hip hop quest’anno va di moda, ma vedrai che l’anno prossimo la bolla scoppia”: ogni anno invece è ancora qui. Certo, cambia, crea sottogeneri, ma resiste, a differenza di molte altre realtà. Rivendico il fatto che siamo qui per restare.
B: Nulla da rimproverare alla scena di oggi, quindi?
K: La scena hip hop riflette la società in generale, nel bene e nel male: in ogni cosa ci sono aspetti positivi e negativi. In ogni caso non ne faccio una questione né di generazione né di suono, ma di contenuti e capacità. Ci sono delle sonorità molto moderne che mi piacciono, ci sono degli mc che rappano su beat trap e mi piacciono; allo stesso tempo, però, se non hai contenuti e non sei capace di rappare, fai schifo anche su un beat di Premier, per quanto mi riguarda. Ho grande fiducia nelle nuove leve – non in tutti, ovviamente, ma in molti – e penso che il meglio debba ancora venire: amo molto l’hip hop degli anni ’90, ma se pensassi che l’hip hop è finito con Tupac sarei a casa ad ascoltarmi i suoi dischi e a piangere, e non girerei l’Italia a sbattermi per questa cosa.
B: Questo disco è pubblicato dall’associazione Da Sud. Ci racconti qualcosa del vostro incontro?
K: Tutto è cominciato quando ho ricevuto il premio Musica Contro Le Mafie: furono proprio loro a premiarmi al MEI di Faenza, ci siamo conosciuti così. È nata l’idea di fare un disco insieme, in cui alcune tematiche venivano scelte da me e altre erano suggerite da loro. È una collaborazione di cui vado molto fiero, e ci tengo a dire che è un lavoro molto corale, anche se alla fine c’è il mio nome sopra. Devo dire grazie, oltre a Da Sud, a dj Fuzzten e ai musicisti che hanno suonato con me, anche a Goodfellas e a Bandbackers che mi ha permesso di creare un crowdfunding assolutamente atipico: non c’è un preordine del disco, ma una divisione dei suoi proventi all’interno della comunità che lo ha supportato. Secondo me un’idea meravigliosa, perché incarna perfettamente il concetto di sharing economy.
B: Approfondendo un attimo il discorso: quali sono le tematiche che ti ha suggerito l’associazione?
K: Mi hanno raccontato tantissimi episodi, e due di questi sono diventati delle canzoni: la prima è dedicata a Totò Speranza (ucciso dalla mafia nel 1997 a 28 anni perché aveva un debito di 300.000 lire contratto per comprare marijuana, ndr) e la seconda a Denise Cosco (la cui mamma, che era entrata nel programma di protezione testimoni, nel 2009 fu uccisa e bruciata dal padre e dal fidanzato di Denise, ndr). Mi ha fatto molto piacere che la famiglia di Totò ha detto di averlo riconosciuto molto nella canzone anche se io, per ovvi motivi anagrafici, non l’ho mai conosciuto.
B: Sei da sempre simbolo del rap antimafia. Come ci si sente ad essere investito da una responsabilità del genere?
K: Dal punto di vista fisico non ho paura per la mia incolumità, penso che siano molto più a rischio di me persone che sono in prima linea ogni giorno con azioni concrete: io, in fondo, faccio solo musica. Ho sempre più voglia di raccontare queste storie, di dare voce a chi una voce non ce l’ha. Dal punto di vista morale la sento eccome la responsabilità, invece: ad esempio quando siamo saliti sul palco del Premio Tenco.
B: A proposito, com’è andata?
K: Bellissima esperienza, anche se in effetti sul momento ne abbiamo sentito il peso: riscrivere e risuonare dei brani di Tenco sul palco di Sanremo era una cosa non da poco. Lo abbiamo vissuto con leggerezza, come un tributo a un artista che ci ha molto ispirato: credo che questa sia la chiave giusta per viversela bene e senza troppe paranoie.
D.F.: È davvero difficile spiegare che cosa arriva a regalarti. Quel palco, l’orchestra che si affianca ai giradischi, il maestro che ti dirige…
K: Teatro Ariston, orchestra sinfonica di Sanremo, palco da dividere con Morgan, Noemi, Marina Rei, Roy Paci… Però quello è il palco di Luigi Tenco, e ho la presunzione di dire che di fronte a Tenco siamo tutti uguali. Ciascuno di noi prova a dare il suo contributo, con una differenza però: che io, essendo un rapper, ho dovuto scrivere qualcosa di mio anziché fare una sua cover. Questo sul momento ha portato a qualche polemica con i giornalisti presenti, che mi hanno considerato un presuntuoso che si arrogava il diritto di riscrivere Tenco. In realtà, ovviamente, è un’esigenza dettata dal genere che faccio… (ride) Ho cercato di partire dal contenuto, rielaborando delle tematiche, e credo che il risultato sia stato buono: ho ricevuto delle belle soddisfazioni e le liriche sono piaciute alla famiglia Tenco, così come a buona parte del pubblico. Credo che siamo riusciti a dare il nostro contributo: ancora non si può dire ufficialmente, ma il nostro contributo lo porteremo anche in altri palchi importanti nei prossimi mesi.
B: Cambiando del tutto argomento: tu sei da sempre dichiaratamente antifascista, cosa che ribadisci anche in quest’album. Poco tempo fa c’è stato un episodio molto controverso, ovvero dei rapper vicini a Casapound che hanno girato il video di una canzone con tematiche fortemente razziste (non lo linkiamo per non regalargli inutilmente views, ndr). Cosa ti senti di dire a riguardo?
K: Il problema non sono loro, ma la zona grigia dell’indifferenza. Sono i rapper di oggi che non prendono posizione su qualcosa di davvero basilare e piccolo: ovvero che il rap è nato nelle periferie afroamericane e che quindi il rifiuto del razzismo dovrebbe essere il minimo comun denominatore. Purtroppo, però, questo non lo abbiamo ancora ottenuto, e su questo ci sarebbe qualche riflessione da fare. Non so se è mancanza di coraggio, se è una questione economica, se è poca voglia di esprimersi o se è poca coscienza: probabilmente è un mix di tutte queste cose. Però quella canzone può servire proprio ad aprire una discussione come questa.
B: Quindi cosa bisogna fare, con realtà come queste? Parlarne o ignorarle?
K: Attenzione: discutere del tema non vuol dire dare spazio a queste realtà. Io, come voi, non ho pubblicato il video e non ho mai fatto il nome del gruppo. Non bisogna dare visibilità al negativo, ma al positivo: smettiamo di regalare views al brutto con le nostre condivisioni (e questo mi pare l’avessi scritto anche tu in un articolo), ma parliamo di ciò che c’è di bello e valido.
B: Last but not least: ora che il disco e fuori e che tu sei un uomo libero, cosa succederà?
K: Adesso arriva la parte più divertente, perché un disco non finisce nel momento in cui esce, ma inizia a diventare delle persone che lo ascoltano e non più solo mio. Abbiamo già fatto parecchie date, sia con dj Fuzz che con la band, e ce ne aspettano parecchie altre, oltre ad altrettante presentazioni del libro. Il tour è iniziato in maniera magnifica e spero che continui altrettanto bene. Il mio obbiettivo per il live è far suonare Da Sud in maniera bella, completa e convincente sia con la band che con il solo dj Fuzzten, che per me è un musicista a tutti gli effetti. Abbiamo rielaborato appositamente le basi da capo, in modo che suonino vive e organiche.