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Egreen: l’intervista

31-10-2016 Marta Blumi Tripodi

Egreen: l’intervista

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In un mondo in cui tutti dedicano intere discografie all’amore, qualcuno ha cambiato le carte in tavola e ha deciso di celebrare l’odio; questo qualcuno, ovviamente, non poteva che essere Egreen. Il “suo” odio non è un concetto banale da supercattivo dei fumetti, anzi, è un odio da supereroe: da anni, ormai, Nicholas Fantini è il vendicatore mascherato che scoperchia gli altarini della scena rap di oggi, che ci dice le cose come stanno, che ci apre gli occhi su realtà che non tutti hanno il coraggio di esprimere ad alta voce. E come tutti i supereroi che si rispettino sa che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ragion per cui viveva con una certa trepidazione l’uscita di quest’ultimo suo album, fuori da venerdì scorso. Non ha motivo di preoccuparsi, però: More Hate è un progetto che trasuda passione per ciò che fa e che ti arriva dritto in faccia come una cartella, proprio come facevano certi leggendari dischi rap che ci hanno fatto innamorare della faccenda, e nella sua immediatezza rivela anche una notevole complessità. Come da migliore tradizione, abbiamo avuto l’onore di parlarne con lui per primi: ecco tutto quello che c’è da sapere.
Blumi: Si dice in giro che questo disco tu l’abbia scritto in tempi molto brevi: è vero o è una leggenda metropolitana?

Nicholas: È vero, ci ho messo circa due mesi. Negli anni ho acquisito un metodo, che vuol dire che se adesso decido che devo scrivere un pezzo, quando mi alzo dal tavolo ho scritto il pezzo: per me non esiste buttar giù due barre per volta senza sapere esattamente quando arriveranno le prossime due. Il processo creativo, invece, si è sviluppato in maniera diversa: ho avuto la testa talmente occupata dall’operazione dell’anno scorso che quando ho finalmente ricominciato a respirare un po’, anche se non mi sembrava di avere molto da dire perché ero un po’ esausto, ce lo avevo eccome. Inconsciamente avevo assorbito tutto quello che mi era successo ed ero già pronto a ricominciare a scrivere, e visto che avevo già un sacco di strumentali pronte mi sono messo subito all’opera. E sono andato giù come un treno.

B: Perché More Hate? Dobbiamo leggere questo disco come se fosse un secondo capitolo di Beats & Hate, o è un progetto completamente staccato?

N: Faccio una fatica pazzesca a leggere i miei stessi stati d’animo, perciò rischio di essere contraddittorio in questa risposta. Diciamo che, anche se con Beats & Hate avevo intenzione di chiudere un ciclo che andava avanti da anni e poi iniziarne un altro completamente diverso, si è creato un concept che tendeva la mano al disco successivo. More Hate è l’inizio di un nuovo capitolo, ma allo stesso tempo la prosecuzione di una storia: ho voluto portare avanti il concetto di odio, in un’accezione molto personale e non letterale. Non si parla di odio in senso stretto, ma di quel sentimento che ho recepito dopo anni e anni di ascolti di dischi come Fastidio di Kaos o Odio pieno dei Colle der Fomento. Non voglio autoproclamarmi portatore o erede di qualcosa ma, con la massima umiltà e con i piedi ben piantati per terra, voglio far capire a tutti da dove viene quello che faccio. Sono messaggi che ho fatto miei e che voglio riportare in chiave attuale, aggiornandoli a tutte le problematiche che ho io rispetto a quelle che avevano loro ai tempi. Beats & Hate forse era più legato alla mia crew e a cose mie, anche perché l’ho scritto e l’ho pensato molto prima che uscisse e ai tempi avevo in testa tutt’altro; More Hate, invece, è un lavoro molto più consapevole. Insomma, sono album legati, ma diversissimi per mille altri motivi.

B: In effetti questo è un album pieno di citazioni di un passato glorioso del rap italiano. Spesso semini qua e là parole che il tuo pubblico più giovane rischia di non saper contestualizzare, tipo smiroldo o guaglione, un po’ come se stessi tracciando un percorso…

N: Esatto, e questa è una cosa molto importante per me. Spesso mi dicono che nei miei dischi non parlo di niente; io invece mi sento molto auto-criptico, passatemi il termine. In tutti i miei pezzi c’è sempre qualche riferimento, qualche citazione, qualche accenno a miei lavori precedenti o a lavori di altri: non lascio mai nulla al caso. È come se giocassi con me stesso, buttando qua e là degli indizi o delle chiavi di lettura che capisco solo io. Magari gli ascoltatori più attenti, quelli che conoscono bene tutti i miei album, riescono a coglierle: sono molliche di pane che portano in una direzione ben precisa, che creano un collegamento fitto tra la mia musica e le blueprint artistiche che hanno contribuito a crearla. Come Fastidio e Odio Pieno, appunto.

B: In Smooth Operator dici “Non è detto che ‘sta merda ti ripaghi indietro”. Sei noto per essere una persona molto viscerale, che si butta anima e corpo nella realizzazione dei suoi progetti: nel tuo caso, facendo un bilancio fino ad ora, credi che ti abbia ripagato?

N: Di tutto quello che ci butto dentro, mi torna indietro un decimo. Forse è un bene, però, perché noi rapper romantici abbiamo l’abitudine di lasciarci andare ad affermazioni tipo “L’hip hop mi ha dato tantissimo, non so se sarò mai in grado di ripagarlo”: ma è davvero così? Hip hop è una parola che odio usare, perché nel 90% dei casi è fuori luogo e totalmente decontestualizzata e stuprata; amo l’hip hop ma me lo porto dentro, non voglio esibirlo, preferisco dire semplicemente che faccio musica rap. In ogni caso mi ha dato tanto, ma so anche quanto ho dato io a lui ogni giorno della mia vita, e lo stesso vale per altri molto più bravi di me, che meriterebbero molta più visibilità di me. Forse pecco di arroganza dicendoti che quello che torna indietro è sempre troppo poco, rispetto a quello che la gente come noi dà a questa cosa, ma è esattamente così che mi sento. Allo stesso tempo, però, questo è un bene, almeno per me: mi permette di mettermi in gioco e mi stimola a usare l’odio in maniera costruttiva, i miei dischi nascono da questo. Quella barra, in effetti, l’ho scritta e pensata per me stesso: anche se ho costantemente addosso la maschera del vaffanculo sono uno che si fa molte domande, mi chiedo se sto facendo bene o male, e quel dubbio lì c’è sempre.

B: Proprio per via di questa maschera sei diventato il paladino di chi vive il rap e l’hip hop con un certo tipo di approccio: hai un seguito pazzesco, che pende dalle tue labbra e spesso si affida a te per distinguere il bene dal male. È difficile vivere con queste aspettative addosso?

N: Non me ne sento così tante addosso, anche se apprezzo le tue parole! (ride) Non vorrei passare da finto umile, sono consapevole di tutte le cose belle che ho fatto e di tutte le persone che mi hanno dato fiducia, però non mi sento un paladino. Vorrei solo che la gente avesse un po’ di curiosità in più. Non mi interessa essere un people’s champ, o che mi riconoscano se mi incontrano per strada, o che comprino il mio disco perché qualcuno dice che sono bravo a rappare: vorrei che si riconoscessero in un certo tipo di suono. E l’Italia, quel suono solido e fatto in una certa maniera, ce l’ha non da quando ci sono io, ce l’ha da anni. Non possiamo scordarci di quello che c’era prima, che c’è sempre stato e che sempre ci sarà. Questo tipo di suono ha la sua dignità, il suo orgoglio, il suo patrimonio e la sua identità, bisogna ricordarlo sempre. In questo paese si fa in fretta a dimenticare, o meglio, ci dimentichiamo la musica e restano solo delle cazzo di fotografie sbiadite a testimonianza di quello che c’era. Oggi se ne sentono di tutti i colori, dette dalla gente, dagli stessi rapper o da giornalisti e blogger: a sentire alcuni starebbero nascendo nuovi movimenti, nuove correnti, cose completamente diverse da quello che c’era prima. Non è per fare il vecchio, però quando eravamo giovani noi la nostra musica aveva delle cazzo di fondamenta, dei precursori, dei punti di riferimento a cui tutti pagavamo un tributo. Io voglio continuare a farlo: mi fa male vedere molti miei colleghi del sottosuolo troppo impegnati a mettere una bandierina col proprio nome in una mappa che non esiste, anziché a sensibilizzare il pubblico a farsi una cultura su quello che ascoltano. Ascoltate quello che volete, sviluppate i vostri gusti in piena libertà, c’è un sacco di gente fortissima là fuori; però, e sottolineo però, dovete sapere che questa musica è fottutamente concreta e solida. Non so se si capisce cosa intendo dire…

B: Direi che ti sei spiegato perfettamente.

N: La questione mi sta molto a cuore. Ed è un peccato che i due estremi della faccenda, ovvero quelli che si barricano nelle sacre chiese dell’hip hop e quelli che invece non vogliono neanche sentire parlare delle loro radici, continuino comunque con i loro atteggiamenti fregandosene di tutto. È come se fossero impegnati ad esasperare dei concetti, e alla fine la gente perde di vista il succo del discorso. Ovvero: ci siamo, ci siamo sempre stati e sempre ci saremo. Non è vero che la musica cambia: certo, si evolve, ma nel Queens, a Brooklyn, a Detroit, a Chicago e ad Atlanta c’è ancora gente che fa la musica con un certo criterio. E va benissimo che esistano anche altri modi di fare musica, che magari ti permettono anche di fare più soldi, ma ‘sta roba, la NOSTRA roba, non può scomparire. Ovviamente ci sono anche interessi economici in ballo: chi ha investito in un certo tipo di musica nuova deve per forza sostenere la propria causa, sarebbe stupido aprire una ditta di gelati e poi andare in giro a dire a tutti “Non mangiare gelati, è più buono il ghiacciolo”. Però mi dispiace informarvi che questa musica è più forte di tutti voi giornalisti, investitori, fan, influencer, A&R, etichette e colleghi rapper.

B: Ecco, a proposito: in S.P.O.S.A.T.O. pt. II dici “Le mode vanno trattate come tali/ effimere, senza spine dorsali”. Una barra del genere, che esce in questo momento storico, fa pensare immediatamente che tu stia parlando del suono che va per la maggiore ora, la trap italiana…

N: Non voglio assolutamente lanciare il sasso e nascondere la mano: mi riferivo a tutti i rami che sono emersi in questi ultimi anni allontanandosi dal tronco principale. Intendiamoci, in Italia non sta succedendo niente di diverso da quello che è successo in tutti gli altri paesi in cui c’è il rap, America compresa. Il fatto che esistano altri rami non è un problema, e spesso le persone che li hanno creati hanno anche del gran talento. Però occhio: quando cominci a dire che quello che fai tu ha preso il posto di quello che c’era prima, è mio dovere dirti che stai cavalcando un trend e che non sostituirai mai la faccenda vera. Anche perché è palese per chiunque che c’è troppo hype attorno a questi sottogeneri: gente che dal rap passa al pop, o sonorità che vengono spacciate per innovative e genuine, secondo me sono prive di fondamenta. E tanti, che magari rappavano fino all’anno scorso e nessuno si cagava, stanno provando a sfruttare queste ondate cambiando a seconda della convenienza; ma questi signori dovrebbero essere onesti con se stessi. Quella dei rapper, quando fanno solo rap e non prova a vendere fumo, è una categoria calpestata da tutti: all’inizio degli anni ’00 mi trattavano come un coglione perché facevo rap anche se la scena sembrava ormai morta, e sedici anni dopo mi trattano ancora come un coglione perché il rap come lo intendo io non va più di moda. Faccio rap da baggy jeans, ma oggi vanno i pantaloni stretti. Per fortuna, solo il tempo ci dirà chi ha ragione. Sono convinto che la musica che faccio io sia solida, e che sopravviverà e prospererà con o senza Nicholas Fantini detto Egreen. Non so se si può dire lo stesso della dubstep, della trap e di tutto ciò che c’è stato e che ci sarà.

B: La differenza, forse, è che chi faceva rap con sonorità dubstep aveva un altro tipo di atteggiamento e non cercava di rinnegare a tutti i costi le proprie radici, o di proclamare che ormai il rap è superato perché loro stanno facendo tutt’altro…

N: Intendiamoci: se loro stessi dicono di non essere più rap sono anche disponibile a propsarli. Così come propso Cesare Cremonini, che ha fatto un sacco di canzoni di un altro genere che mi piacciono tantissimo.

B: Tornando al tuo suono, un brano-manifesto è sicuramente Milano-Roma pt. II con Er Costa, che è la vostra versione di un pezzo storico del 2004 ad opera di Cor Veleno e Club Dogo: come ti è venuta l’idea? La benedizione dei diretti interessati sotto forma di skit è arrivata prima o dopo l’averlo fatto?

N: Io e Costa siamo molto amici, ed è un paio di anni che ci capita spesso di fare strofe insieme sui dischi di altri, cosa che non ha fatto altro che aumentare la nostra voglia di fare un pezzo per noi due su uno dei nostri progetti ufficiali. L’idea è nata da me, in maniera molto spontanea: sai che c’è, perché non facciamo Milano-Roma parte 2? Con Squarta ho un ottimo rapporto, gli ho parlato immediatamente della cosa chiedendogli cosa ne pensava e se aveva voglia di fare uno skit in apertura: il top sarebbe stato farlo su un beat suo, ma in quel periodo purtroppo era molto impegnato. Nulla toglie che possa esserci un remix o una versione reloaded più avanti con la sua collaborazione, però quello di Ceasars è un sostituto validissimo. Con i Club Dogo, invece, è andata un po’ diversamente: i loro skit sono arrivati a pezzo già ultimato, e quando gliel’ho mandato per farglielo ascoltare mi cagavo un po’ sotto. Non erano certo tenuti ad approvare la cosa: c’era la possibilità che mi dicessero “Fallo pure ma non voglio avere niente a che fare con il tuo pezzo” o, nella peggiore delle ipotesi, che non volessero in alcun modo che la nostra Milano-Roma fosse ricollegata alla loro, cosa più che legittima. Tutto è bene quel che finisce bene, però. Con Guè ci conosciamo da diverso tempo, ma non in maniera approfondita: io so chi è, lui sa chi sono. L’ho contattato con un messaggio su Instagram dicendogli che ci avrebbe fatto piacere avere un suo skit, mentre con Jake è stato tutto molto più semplice perché avevamo appena fatto un pezzo insieme sul suo album, Testa o croce. Colgo l’occasione per ringraziare molto tutti e tre: per me sono dei grandissimi professionisti, questa sì che è gente che ha fatto la storia di un genere musicale e che ha cambiato completamente le regole del gioco.

B: Impossibile non pensare a Primo Brown, ascoltando il pezzo…

N: Pace all’anima sua. Penso che sarebbe stato molto preso bene dalla cosa: è sempre stata una persona con molto odio (nell’accezione del termine che spiegavo prima, quello di fotta) ma allo stesso tempo pieno di positività: ha sempre rappato con tutti, non è mai stato altezzoso. Prima ti ascoltava e poi esprimeva un giudizio, una cosa piuttosto rara di questi tempi. Il fatto di rifare un pezzo che in origine era suo ha anche conferito al tutto un valore sentimentale, non poteva che essere così; ma non l’abbiamo fatto per farci pubblicità, è un tributo vero. Quel disco dei Corve l’ho consumato (si parla di Bomboclat, dove era appunto contenuta la versione originale di Milano-Roma, ndr), Squarta aveva dato un imprinting molto particolare al suono, è sicuramente tra i miei capisaldi.

B: More Hate, tra l’altro, è pieno di tributi alla scena di Roma di quegli anni (basti pensare che nel pezzo immediatamente successivo in tracklist, Mic Check, c’è un chiaro omaggio a Prova microfono dei Colle Der Fomento). Perché, pur essendo cresciuto più vicino alla scena di Milano che a quella della capitale, ci sei così affezionato?

N: In quel ritornello cito sì i Colle, ma cito anche Bassi! Comunque confermo, c’è un grande affetto per Roma: le sono eternamente riconoscente, mi accoglie sempre a braccia aperte. L’unica critica che posso fare agli amici romani è che dovrebbero crederci di più e non dovrebbero sentire l’esigenza di trasferirsi a Milano per fare rap ad alti livelli, perché in quella città c’è un’energia incredibile e un talento fuori dal normale, tra i veterani come tra i ragazzi. Ci sono due collettivi giovanissimi che cito spesso, The Movement (che ora si è disgregato) e Do Your Thang, che si sbattono tantissimo, producono musica, chiamano gli americani a suonare… Per non parlare di Welcome 2 The Jungle: se ti piace la doppia acca e un certo tipo di spirito, il Brancaleone è il posto per te. Tutte cose che a Milano non vedo più da un pezzo, almeno dai tempi dello Showoff 10 anni fa (storica serata settimanale organizzata da Bassi Maestro e Rido nei primi anni ’00, aveva riaggregato attorno a sé tutta la scena del nord Italia, ndr). Sono anche molto affascinato dalla scena romana del writing: Pane, Masito, i ragazzi di GraffDream…

B: Parlando dei featuring, ce n’è uno in particolare che lascia sorpresi, quello con Claver Gold, Sognatori: voi due siete un po’ come il giorno e la notte, stilisticamente. Com’è nato?

N: Gli voglio un bene dell’anima, ci conosciamo da parecchi anni. In questo gioco la competizione è sempre alta, ma non ti nascondo che il suo rap è così diametralmente opposto al mio che non mi sento per niente minacciato da quello che fa, perciò con lui ho sempre avuto un rapporto molto semplice, aperto e di reciproca ammirazione. Lo stimo tantissimo, la sua musica mi ha sempre fatto emozionare parecchio e ci tenevo molto a collaborare con lui, anche perché anche lui in origine è legato a un suono molto hardcore. E poi abbiamo avuto delle esperienze di vita molto simili: siamo cresciuti in provincia e ci siamo dovuti guadagnare tutto quello che abbiamo un passo per volta. Avevo il piacere di sapere che se l’avessi chiamato per un featuring, ne sarebbe stato contento; e con molto orgoglio ti dico che anch’io sarò nel suo prossimo album.

B: Nello stesso brano in cui c’è Claver c’è anche Albe OK, da almeno quindici anni una colonna portante della scena di Genova…

N: Penso che lui sia uno di quelli che scrive meglio in Italia; e anche se la parola “sottovalutato” è abusata, Albe OK è sicuramente uno degli mc più sottovalutati in assoluto, purtroppo. Ha sempre avuto un talento incredibile: wordplay, punchline, tecnica, flow, non gli manca davvero niente. Per anni ho collaborato con il suo socio di una vita, Kamo: siamo tutti più o meno coetanei e ci vedevamo spesso alle jam quando eravamo più giovani, perciò ci conosciamo da una vita, sono felice di essere riuscito finalmente a coinvolgere anche lui in un progetto. Tra l’altro in quel pezzo la strumentale è di Railster, un ragazzo eccezionale e uno dei nuovi genietti del beatmaking più sperimentale: sono sempre molto affascinato da questo modo di produrre (difatti in passato ho lavorato con Lvnar, HLMNSRA, Iamseife e altri).

B: Restando in tema di featuring, un altro nome un po’ spiazzante rispetto al tuo solito mood è Attila, che fa reggae ed è ospite di Soldiers. Perché l’hai voluto nel tuo album?

N: Con Attila ci siamo “annusati” all’inizio umanamente, perché è una gran bella persona. In più ha un carisma incredibile come artista, e non vedevamo l’ora di fare uscire delle cose insieme, anche se per ora posso parlarti solo di Soldiers. Ci tenevo molto a coinvolgerlo nel disco, un po’ per provare ad addentrarmi in un mondo diverso dal mio, un po’ per il piacere di lavorare con un amico che spacca. Il beat è di Mighty Cez, il suo socio di sempre: loro due sono rispettatissimi nel circuito del reggae e avere entrambi mi sembrava la cosa migliore. Attila è un po’ l’Egreen della musica in levare, come attitudine: irrequieto e sempre alla ricerca di qualcosa, gran cuore, sul palco dà tutto – e entrambi siamo due teste di cazzo, ma forse è proprio questo il bello, ci siamo trovati subito! Gli auguro il meglio: quest’inverno sarà in tour in Sudamerica e sono davvero contento per lui.

B: E siamo arrivati all’ultima traccia, Comune denominatore. Un pezzo molto particolare, dedicato alla scena di Milano, con un claim molto chiaro: “Nell’era dei pagliacci è doveroso ricordarvi che non tutto è fuffa”…

N: Mi ricollego al discorso di prima, perché mi fa piacere se questa cosa viene chiarita: una delle polemiche principali riguardanti Milano-Roma pt. II è che io non sono davvero di Milano (effettivamente Egreen al suo arrivo in Italia si è stabilito a Busto Arsizio, in provincia di Varese, ndr). Come ci insegna l’hip hop, però, it ain’t where you’re from, it’s where you at. Ho pagato i miei debiti con Busto e Varese in sedici anni di rap, e tutto quello che dico nei miei pezzi l’ho fatto davvero: se parlo della scena di Milano, è perché l’ho vissuta e c’ero. Non ho mai nascosto che le due scuole che mi hanno formato, umanamente e artisticamente, sono Milano e Varese: a Milano ci venivo sempre, all’inizio il sabato pomeriggio a comprare i dischi, poi ai concerti, poi ero più a Milano che a casa, e oggi ci vivo. Le persone che ho citato in Comune denominatore sono importanti per questa città e per me, e volevo sensibilizzare la gente sulle radici della scena di qui: se io, tu, i ragazzi di oggi e tutti gli altri seguiamo una certa filosofia e facciamo certe cose, è perché qualcun altro prima di noi ce lo ha tramandato. Oggi sembra che non freghi più a nessuno, ma a me sì. Nell’hip hop il name dropping c’è sempre stato, e ho voluto fare un pezzo che parlava delle (e alle) persone che hanno contribuito a costruire quello che c’è ora. A prescindere dalle simpatie e dalle antipatie: cito anche alcuni che odio, e che odiano me, ma non potevo esimermi dall’inserire le realtà che hanno fatto la storia di questa città. Spero che tra dieci anni qualcun altro faccia la stessa cosa, e che la storia si ripeta: è una dimostrazione di amore per questa cultura, che come abbiamo detto per tutta l’intervista esiste ed esisterà per sempre.

B: Il disco è fuori, finalmente: che succede adesso?

N: Andremo un po’ in giro a suonare, con me ci sarà sempre dj P-Kut (sono appena state annunciate le prime due date, il 19 novembre a Milano e il 24 a Roma, info qui, ndr). Dopodiché dovrebbe uscire anche un altro video (oltre a Smooth Operator, che quando leggerete questa intervista avrete già visto). Al di là di questo, però, sono già proiettato verso il futuro. Piccolo spoiler: non mi piacciono le bilogie, preferisco le trilogie… (ride)