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Mondo Marcio: quindici anni di musica, dalla jam alla jam session

13-03-2016 Marta Blumi Tripodi

Mondo Marcio: quindici anni di musica, dalla jam alla jam session
L’attitudine un po’ maniacale mi è rimasta, è legata un po’ all’insicurezza

Fare musica è uno dei lavori più belli del mondo, e su questo non ci piove. Quando diventa routine, però, capita che anche i musicisti – e ovviamente anche i rapper – si annoino. C’è chi reagisce cercando di negare l’evidenza e continuando sui binari prestabiliti, come se quella sensazione di tedio fosse una specie di allucinazione da ignorare e seppellire in profondità, col risultato di sfornare dischi bruttini e dimenticabili. E c’è chi invece ammette il problema e decide di affrontarlo, provando a mettersi in gioco: Mondo Marcio appartiene alla seconda categoria. “La ricerca che c’è dietro questo album parte proprio dalla noia” spiega tranquillamente. “Amo moltissimo il rap, ma ho sempre avuto anche delle forti influenze legate a musica diversa: soul, jazz rock… da ragazzino andavo perfino a pogare ai concerti dei Green Day! Con questo disco sono uscite di più, forse perché ho un’età diversa e mi stufo a rifare all’infinito musica che ho già fatto. L’ispirazione de La freschezza del Marcio mi arriva dalla musica suonata dal vivo. Ho lavorato con musicisti non particolarmente famosi, ma molto stimolanti, che avevano voglia di jammare: da queste sessioni di musica suonata sono nati tanti brani davvero efficaci. Per me non era importante trovare un singolo, ma trovare un sound”.

Registrato tra Londra, New York e Milano, è un album che, piaccia o non piaccia, senz’altro non suona in linea con una tendenza o una moda del momento: ricco di stimoli, rimandi, intuizioni molto piacevoli, è il manifesto di un artista che è cresciuto e maturato e sa sorprendere e sorprendersi. È evidente fin dal primo ascolto che MM si è divertito parecchio a lavorarci. “Beh, creare qualcosa che sia appagante e che ti fa piacere ascoltare dovrebbe essere il tuo primo scopo, quando fai un disco” sorride lui, ben consapevole che in realtà non è poi così scontato, di questi tempi. “Se sei un artista devi cercare di alzare l’asticella un po’ di più rispetto all’anno precedente, non puoi approcciarti a ‘sta roba come se fosse un lavoro d’ufficio. Se lo fai, tanto vale smettere”. Fin da quando era ragazzino, la prima cosa che ti colpiva di Marcio – come lo chiamavano tutti ai tempi, per brevità – era la sua incredibile attitudine, la sua concentrazione, la sua voglia di arrivare a modo suo e senza compromessi. C’erano periodi in cui si chiudeva letteralmente in casa per lavorare a del materiale nuovo e non lo si vedeva in giro per settimane. C’erano momenti in cui, per allenarsi per le battle che poi stravinceva regolarmente, arrivava a rispondere al telefono a sua mamma in freestyle (“Sul serio lo facevo? Non ricordo, ma è possibilissimo. Fumavo davvero troppo a quei tempi!”). Per lui l’hip hop non è mai stato un gioco o un mestiere qualunque (cit. Primo Brown). Ogni volta che gli facevi i complimenti per un traguardo raggiunto lui ti ringraziava di cuore ma un po’ distrattamente, perché era già impegnato a pensare a come tagliare quello successivo. Come quando vinse la prima edizione del Tecniche Perfette nel lontano 2003, in una leggendaria finale contro Ensi che avrebbe riacceso nelle folle la passione per il rap, ma già aveva in mente di accantonare il freestyle per concentrarsi sulla creazione di testi veri e propri, che avessero dei contenuti e una struttura.

“Io e Ensi abbiamo cambiato i giochi nel freestyle, ma inconsciamente” racconta oggi. “Ho ricordi meravigliosi di quella gavetta, è stata una delle cose più pure che ho fatto: non c’era un piano di business ma tanta fame, curiosità, voglia di emergere. Capita ogni tanto che faccia ancora freestyle: è tecnica, è mestiere, è un po’ come andare in palestra. Ma ora preferisco un altro tipo di improvvisazione, quella della band. Ai tempi, però, l’alternativa a quelle battle era il nulla che si mangiava tutto, come ne La Storia Infinita: la mia paura era essere inghiottito da quel nulla, e per evitarlo passavo tutte le mie giornate ad allenarmi e a prepararmi per quelle sfide. Ed è la stessa fame che ho cercato di recuperare adesso per questo disco”. Il primo modo per recuperarla è stato cambiare aria, almeno per un po’. “Amerò sempre Milano, però New York mi ha dato qualcosa di speciale. È il tipo di città dove tutto può succedere, ma è anche la città dove se ti senti male e cadi per strada rischi che la gente non se ne accorga e ti calpesti. Questi due opposti che coesistono nello stesso luogo creano una magia, un grande caos, che ti fa sentire solo e perso, ma allo stesso tempo ti costringe a tirare fuori le tue risorse e ad emergere: ecco perché per me è la città più hip hop del mondo”.

Una delle più grandi risorse de La freschezza del Marcio è sicuramente la presenza di ottimi musicisti, dei veri e propri session-man in grado di cambiare completamente il tiro di alcune produzioni. Questa stretta collaborazione con altri è uno degli indizi più importanti dell’evoluzione di Mondo Marcio, un rapper che per molti anni era noto nell’ambiente perché spesso e volentieri preferiva curare da solo ogni aspetto della sua musica. “L’attitudine un po’ maniacale mi è rimasta, è legata un po’ all’insicurezza” ammette. “Fino a pochi anni fa volevo avere il più controllo possibile: dato che sapevo anche produrre, ho deciso di produrre da solo molti dei miei album. Oggi, invece, do molta più importanza al buttarmi nella mischia insieme agli altri: è stato un sollievo pazzesco fare questo passo, mi ha dato la libertà di fare quello che mi piace, è una gioia lavorare con musicisti che costruiscono insieme a me il migliore sound possibile. A conti fatti è molto meglio che lavorare da solo alla solita base!”.

Quello che Mondo (come invece lo chiamano quasi tutti oggi) ha dovuto imparare lungo il suo percorso è stato innanzitutto come gestire l’immensa pressione che derivava dal suo precoce talento: quando aveva appena sedici anni, secondo molti era la miglior speranza per la scena hip hop di riemergere dall’abisso in cui era sprofondata dopo la fine degli anni ’90. Difatti, non a caso, è stato il primo rapper ad ottenere un contratto in major negli anni ’00. “Ero come il primo cowboy che sale in cima alla collina, vede tutti gli indiani pronti a tirargli le frecce, torna indietro e avverte gli altri: ‘raga, sull’altro versante ce ne sono una cifra!’. Sono stato il primo a fare una serie di cose, e anche a sbagliare, anche perché non c’erano precedenti: o meglio, ce n’erano a livello di posse, gruppi, crew, mentre io ero da solo. È stata una cosa che ha fatto molto bene alla scena, perché ho creato un precedente: ho dimostrato che quel tipo di contenuti poteva funzionare, riusciva a parlare alla gente, vendeva bene. Per la prima volta una multinazionale poteva investire migliaia di euro e guadagnare da quell’investimento, e questo ha spianato la strada ai rapper italiani. Però non è stata tutta rose e fiori. Ci sono stati anni di grande esposizione, ma anche anni di esposizione molto bassa, in cui mi sono dovuto costruire un team che lavorasse con me: all’inizio ero solo un ragazzo di diciott’anni che vomitava emozioni su un disco e che riusciva a toccare molte altre persone con la sua musica. Molto poetico, da un certo punto di vista, ma anche molto rischioso: ho dovuto imparare a costruirmi un progetto”.

In quest’ultimo album, però, sembra che prevalga l’istinto piuttosto che il progetto, a cominciare dal sound, che cambia continuamente man mano che la tracklist procede. “La musica secondo me va creata più con la pancia che con la testa, in un certo senso. Vale per il suono ma anche per i contenuti: so che non tutti saranno d’accordo con quello che dico, ma non m’interessa fare musica perché il discorso finisca lì, mi interessa creare un dibattito. I rapper tendono a voler fare uscire gli aspetti di sé che li rendono più fighi, piuttosto che quelli in cui si sentono più vulnerabili e attaccabili, ma io in maniera molto naturale sto cercando di togliere maschera, cliché e preconcetti tipici del genere rap e non fare pezzi, ma fare canzoni. E mi piace molto”. Questo, ovviamente, non implica che abbia deciso di allontanarsi dalla scena rap, tant’è che per supportare i nuovi talenti ha creato l’etichetta Mondo Records: uno dei suoi artisti, Nico Flash, è anche presente in una traccia dell’album (insieme a molti altri colleghi, tra cui un Ghemon e un Fabri Fibra in formissima). “La label non nasce per cercare artisti già affermati e fare profitto, ma per portare alla luce qualche realtà che altrimenti andrebbe persa, sommersa e dispersa tra tutto il rap che esce ogni giorno. Nico si è fatto notare mandandoci una serie infinita di mail, ha un’entusiasmo e una carica fuori dal comune e credo che farà strada. Lo abbiamo messo alla prova a lungo prima di decidere di fargli firmare un contratto, ma è sempre riuscito a dimostrare le sue capacità”.

La freschezza del Marcio è uscito da qualche giorno, ma stavolta Mondo Marcio non ha ancora pensato al dopo. “Non so che direzione prenderò in futuro: cinque anni fa non avrei mai pensato che avrei fatto un disco così. Non voglio più programmare, quando si tratta di arte e creatività”.