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Dj Jad: l’intervista

02-03-2016 Marta Blumi Tripodi

Dj Jad: l’intervista

Se il vostro primo incontro con l’hip hop è avvenuto negli anni ’90, quando eravate ancora ragazzini, è molto probabile che i responsabili siano stati gli Articolo 31. J-Ax e dj Jad all’epoca erano considerati delle figure controverse dai puristi, sempre molto sospettosi quando si trattava di rendere il rap accessibile per le masse; a guardare alcuni degli esponenti del mainstream di oggi, però, è probabile che anche i più intransigenti li rimpiangano. Il duo si è sciolto nel 2006, esattamente dieci anni fa. J-Ax è stato negli anni rivalutato come pioniere del rap italiano e la tv lo ha trasformato in un vero e proprio maître à penser della cultura pop; dj Jad, invece, ha mantenuto un profilo più basso, concentrandosi sulla musica e alternando progetti molto riusciti (come l’ottimo Milano – New York) a exploit che hanno destato qualche perplessità in più all’interno della scena hip hop (come USB, ovvero Udite Suoni Buoni, in collaborazione con il rapper Cicciopasticcio). Una cosa è certa, però: il suo nuovo album strumentale, Beat in my soul – distribuito esclusivamente in vinile e cd a tiratura limitata da Kappa Distribution – è molto convincente. Ricercato, ricco di sfumature soul e jazz, ben lontano dal sound radiofonico che siamo abituati ad associare al nome di Jad, vale decisamente (più di) un ascolto. Abbiamo approfittato dell’occasione per scambiare due parole con lui e ripercorrere la sua carriera fino ad ora.

Blumi: Domanda d’obbligo: che cosa hai fatto negli anni che hanno preceduto l’uscita di Beat in my soul?

Dj Jad: Tante cose. Continuo a darmi da fare, soprattutto suonando in giro e facendo dj set. A livello produttivo, invece, avevo creato una realtà di nome USB, ma si trattava di un progetto di nicchia, realizzato di getto per la sola voglia di esprimersi: attualmente è in stand-by, anche se sono sicuro che tra un paio d’anni pubblicheremo il disco. Nel frattempo sto seguendo un ragazzo che fa rap, Trenkim, da sei-sette anni: coltivo le sue potenzialità e ora stiamo finendo il suo disco. Oggi il panorama hip hop italiano è molto confuso, affollato e inflazionato e cercare di distinguersi per originalità è complicato, ma credo molto in lui, quindi sono molto contento di occuparmene. Un paio di anni fa, infine, mi sono messo al lavoro su Beat in my soul: è stato un lavoro titanico, per cui ho prodotto migliaia di strumentali prima di arrivare a selezionare quelle che avrebbero fatto parte del disco.

B: Come mai hai deciso per un album strumentale, anziché per un classico disco con la partecipazione di altri rapper?

D.J.: A volte la musica parla più delle parole, quando trasmette davvero qualcosa. Io sono sempre stato un music maker a 360°: sapevo che un album strumentale sarebbe stato un azzardo, perché in Italia i progetti ufficiali come il mio sono pochi, ma ho voluto provarci comunque. Dalle nostre parti ci sono dei beatmaker stratosferici, bravissimi a valorizzare i rapper, mi fanno sentire un pivello nonostante tutta la mia esperienza, però ultimamente da ascoltatore preferisco di gran lunga gli album strumentali… (ride) Sento troppi testi ripetitivi e autocelebrativi, che non mi esaltano più di tanto. Il mio, invece, è un disco che ascolti volentieri in tutti i momenti della giornata: piace sia a chi di solito segue il rap, che a chi invece col rap non c’entra niente. I feedback sono stati molto positivi, a tutti i livelli, e questo nonostante sia necessario possederlo per ascoltarlo: non ho voluto metterlo né su iTunes né sui vari servizi di streaming digitale…

B: Già: perché?

D.J.: Inizialmente volevo fare un’edizione limitata solo in vinile, ma poi il mio pubblico mi ha convinto del fatto che sarebbe stata una buona idea stampare anche il cd. Io sono un maniaco del suono, e questo è un album masterizzato in analogico: un mp3 non avrà mai una qualità audio sufficientemente buona. E poi sono affezionato al concetto di supporto fisico: mi piace l’oggetto che puoi toccare, non amo molto il virtuale. Volevo che le persone realmente interessate potessero avere qualcosa in mano, e devo dire che i riscontri mi hanno abbastanza premiato.

B: Da maniaco del suono, come ti definisci tu stesso, che tipo di lavoro fai quando produci un beat?

D.J.: Quelli di quest’album sono in parte campionati da vinile e in parte risuonati. Sono un fanatico del vinile, ne compro tuttora a tonnellate. Di solito inizio dalla batteria o da un campione tagliato a misura, e poi ci risuono sopra a seconda dell’ispirazione.

B: Quando ho ascoltato l’album mi sono subito venuti alla mente alcuni progetti di J Dilla e della scuola di Detroit. È effettivamente quella l’ispirazione?

D.J.: In realtà, molto sinceramente, non sono mai stato condizionato da questo o da quel produttore: certo, è chiaro che a me piace un suono molto soul e raffinato, un po’ come quello che hanno creato loro, e quindi chiaramente mi capita di ascoltarlo molto spesso, ma poi lo digerisco e lo rielaboro a modo mio. Diciamo che io mi sento come quei musicisti rock che prendono ispirazione da una band, ma poi quando suonano trasformano quelle influenze in qualcosa di personale.

B: Questo non è un progetto particolarmente commerciale, per sua stessa natura. Che cosa ti aspetti?

D.J.: Lo so, sia come stile che come concezione non è pensato per fare grandi numeri, ma per dare sensazioni positive. Mi basta sapere che ho reso più felice la giornata di qualcuno che ce l’aveva in sottofondo. Non mi interessa essere il più famoso o il più ricco: voglio portare avanti un discorso musicale che mi ha fatto evolvere e maturare e che ho iniziato ben prima degli Articolo 31.

B: Nel disco c’è un’unica canzone rappata, la title track, ad opera di Avatar: chi è e perché hai scelto proprio lui?

D.J.: Fa parte di una crew di ragazzi di Lecce, HHabitat Records: hanno una grande cultura, abbiamo un gusto simile e ascoltiamo le stesse cose. Avatar mi ha colpito tramite il suo profilo Facebook, innanzitutto: ce lo avevo tra gli amici e vedevo che continuava a postare lo stesso tipo di canzoni che postavo anch’io… (ride) Poi ho scoperto anche che era un vero mc: oggigiorno la ricerca, la metrica e lo stile si sono un po’ persi, sono tutti abbastanza uguali ormai, mentre lui è molto avanti, ha la sua personalità ben definita. È per questo che l’ho voluto coinvolgere: lo sentivo più adatto e più vicino.

B: Parlando del tuo sound, negli anni ’90 sei diventato famoso anche grazie a sonorità molto pop, ad esempio per i campionamenti di dischi italiani già parecchio famosi, come quelli di Lucio Dalla o Marcella Bella…

D.J.: E infatti faccio ancora spesso beat del genere: chissà, magari un giorno o l’altro usciranno. Però per ora sono risucchiato in questo mio viaggio. Non so dire se sia positivo o negativo, ma io lo sento molto positivo, onestamente. Devo dire, però, che ripensando alle mie produzioni passate, più che essere pop, sono diventate pop: alla gente sono piaciute e quindi sono entrate nell’immaginario comune, ma quando le ho fatte non avrei mai pensato che sarebbero diventate così famose. Ero giovane, ingenuo e pensavo a divertirmi, non a cercare di sfornare una hit ad ogni costo. Anche oggi il mood è quello, anche se con un po’ più di maturità.

B: Non ti è mai venuta la tentazione di continuare su quella strada per andare sul sicuro, anche se magari la tua evoluzione ti portava altrove?

D.J.: Diciamo che nella vita tutte le scelte sono legittime: in passato facevo musica più leggera, con alcune produzioni comunque più ricercate, mentre oggi preferisco dedicarmi soprattutto alla ricerca. Nulla mi vieta di ricominciare a fare lo stesso tipo di musica che facevo prima, ma non so se ne vale la pena: in questi anni è cambiato tutto, nel panorama musicale. Anche quando faccio beat più pop o ho un approccio più commerciale, io li voglio fare con una certa attitudine e una certa cura, e non sono sicuro che questo tipo di approccio possa funzionare oggi. Comunque mai dire mai! Anche Tranqui Funky nasceva dal mio amore per il funk e si è trasformata in una hit pop: anche la ricerca di suoni più raffinati potrebbero portarmi a sfornare qualcosa di molto popolare.

B: In questi anni la scena hip hop di casa nostra è cambiata molto: ti capita ancora di ascoltare rap italiano?

D.J.: In realtà no. Ovviamente mi capita di farlo, magari vedendo un video sulla mia bacheca di Facebook oppure ascoltando un album che qualche appassionato mi manda per avere un parare. Trovo che comunque l’hip hop italiano di oggi sia molto più povero: si sono persi i valori, gli stimoli, è tutto piatto e monotematico. I pezzi non hanno flow, la metrica rispetto a quella di un tempo mi sembra molto più schematica: c’è anche gente molto brava, ma spesso non riesce ad emergere perché c’è troppa offerta, o perché non ha spazio, o perché non viene promossa a sufficienza. Io sono del parere, perdona il linguaggio, che se continui a bombardare il popolo con una scorreggia, finirà per apprezzare perfino una scorreggia.

B: In che senso?

D.J.: La maggior parte degli ascoltatori sono sottomessi a un sistema di plastica, che alla lunga li lobotomizza. Un tempo anche la musica pop era di spessore: oggi rimane ben poco, perché la musica commerciale viene subito sostituita da altra musica commerciale, nessuno ha il tempo di fare le cose per bene o di assimilarle. Sono contento che ci sia ancora qualcuno che porta avanti il discorso del rap italiano, ma non lo trovo molto costruttivo. Tra tutti i rapper che sono emersi in questi anni, trovo che uno solo abbia un vero spessore artistico: Salmo. È mainstream, ma non è farlocco. Negli anni ’90 tutti avevano una personalità genuina e definita, che fossero commerciali o underground: in lui ritrovo un po’ quello spirito. Molti altri rapper fanno musica puntando solo ai ragazzi più giovani; quei ragazzi prima o poi cresceranno e si stancheranno di loro. Salmo, invece, fa pezzi molto più maturi e ha buone possibilità di rimanere in vetta.

B: Si stava meglio quando si stava peggio, quindi?

D.J.: Non dico questo, la scena hip hop anni ’90 in Italia ha sicuramente avuto delle pecche che hanno impedito che questa cultura si stabilizzasse e si diffondesse, come invece è successo in Francia. In Italia è sempre finito tutto a tarallucci e vino. Da una parte mettevano l’etichetta “hip hop” su cose e persone che non lo erano minimamente, con una grande perdita di credibilità; dall’altra c’erano i paladini e i puristi che pensavano di averlo capito solo loro, l’hip hop. La cosa mi ha stufato molto presto, infatti non voglio più avere a che fare con niente di tutto ciò! (ride) L’autodistruttività è sempre stata una delle caratteristiche principali dell’hip hop italiano.

B: Una cosa che colpisce molto è che ai tempi gli Articolo 31, che pure facevano musica “commerciale”, ci tenevano sempre a spiegare e ribadire pubblicamente cos’era l’hip hop (tanto che buona parte dei ragazzini che si sono avvicinati a questa cultura negli anni ’90 ascoltando la radio, lo hanno fatto grazie a voi), mentre invece oggi molti rapper sembrano voler usare il rap come mezzo espressivo, ma non vogliono legarsi all’hip hop, che trovano limitante…

D.J.: Spesso bisogna lottare con i giornalisti italiani per riuscire a fargli capire cos’è l’hip hop e a farglielo riportare correttamente nei loro articoli: non tutti ne hanno voglia. Io arrivavo a litigarci, a combatterci quotidianamente. Magari capitava che fossimo primi in classifica e che dovessimo fare dieci interviste telefoniche, e in nove su dieci mi parlavano di Jovanotti. Spesso non avevano neanche ascoltato il nostro disco, e di conseguenza facevano solo domande banali e superficiali. Ecco, in futuro mi piacerebbe molto occuparmi in prima persona, a livello mediatico, di spiegare cos’è l’hip hop alla gente. Per me è sempre stata una missione: quando ho iniziato io non esisteva nulla, era il lontano 1979.

B: Arrivati a questo punto, mi perdonerai ma devo chiedertelo: hai sicuramente saputo che qualche mese fa, durante una puntata di Tv Talk, hanno domandato a J-Ax di una possibile reunion degli Articolo 31 e lui ha risposto “Non si sa mai, con l’età ci si ammorbidisce, tutto è possibile”. Cosa ne pensi?

D.J.: Guarda, io amo questa cultura da ben prima degli Articolo 31, da quando ero ancora nelle palle di mio padre! (ride) E non ho certo smesso di amarla dopo che ci siamo sciolti, anzi, sono andato negli Stati Uniti per fare un disco in collaborazione con molti artisti americani, Milano – New York. Proprio per questo questo la mia risposta è sì, lo farei, ma dovremmo riprendere da dove abbiamo lasciato. E intendo prima della nostra svolta rock (si riferisce agli album Domani smetto e Italiano medio_, usciti nel 2002 e 2003, che avevano un sound più orientato al punk-rock californiano, ndr_). Non rinnego quella fase della nostra carriera, è stata molto divertente, ma non la sentivo mia. Quella degli Articolo è stata un’esperienza artistica bellissima, ma riunirci avrebbe senso solo se le dessimo un degno seguito: se trovassimo lo spirito giusto, le tematiche e la musicalità che ci rappresentano, ci starei. Se invece dovessimo farlo solo per il business, non me la sentirei, preferisco restare con le pezze al culo.

B: Ora che l’album è fuori da un po’, che cosa ti aspetta?

D.J.: Sto cominciando a lavorare a Beat in my soul 2. Parallelamente, come dicevo prima, sto producendo il disco di Trenkim e ho un altro paio di progetti nascosti, che non so se emergeranno mai: roba funk, cantata, di cui non ho ancora parlato con nessuno. Nella nostra società la musica esiste ancora, ma ha perso il suo valore; se riuscirò a riportarne almeno un briciolo nel sound di oggi, rinuncerò volentieri ai soldi e alla fama! (ride)