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The Alchemist + Oh No aka Gangrene: l’intervista

10-01-2016 Marta Blumi Tripodi

The Alchemist + Oh No aka Gangrene: l’intervista

Intervistare gli artisti che più ammiri – e spiace dirlo, ma il discorso vale soprattutto per le superstar dell’hip hop americano – può rivelarsi una grande delusione. Nella peggiore delle ipotesi sono antipaticissimi, nella migliore non sono particolarmente comunicativi, visto che il loro mercato in Italia è abbastanza scarso. Per fortuna, però, ogni tanto c’è qualcuno che ci aiuta a non fare di tutta l’erba un fascio: tipo Alchemist e Oh No, che incontriamo nel backstage poco prima della loro data milanese al Biko per presentare l’album You disgust me. Estroversi, simpatici, entusiasti del pubblico di casa nostra, chiacchierare con loro è davvero un piacere: se alcuni non dedicano neanche un minuto alle foto o agli autografi coi fan, loro trovano perfino il tempo di ascoltare il beat di un giovanissimo producer che è venuto lì apposta, e di fargli sinceri complimenti incoraggiandolo a farsi vivo quando avrà altra roba da fare sentire. Il segreto di tanto buonumore e disponibilità, come ci sveleranno durante l’oretta che trascorreremo insieme, è che per loro il progetto Gangrene è un po’ come prendersi una vacanza dalla vita vera: un allegro cazzeggio tra amici. Ma visto che gli amici in questione sono due tra i producer più interessanti degli ultimi quindici anni (e in fondo anche come rapper non se la cavano male), abbiamo approfittato della loro gentilezza per bombardarli di domande su tutto ciò che ci veniva in mente.

Blumi: Come vi siete conosciuti?

Alchemist: Le nostre strade si sono incrociate nella west coast, entrambi abbiamo riconosciuto nell’altro un’anima gemella: per la quantità di roba che fumiamo, per il tipo di musica che ci piace… Abbiamo capito subito che sarebbe stata un’ottima cosa collaborare. Andavamo nella stessa direzione.

B: Ma è vero che è stato Evidence a presentarvi?

A: È stato Evidence, sul serio? Non ricordo…

Oh No: Ma sì, dai! Evidence mi diceva che sarei dovuto passare a casa tua per fare un po’ di musica insieme già anni prima che ci incontrassimo.

A: Beh, se lo conferma anche lui dev’essere vero! È difficile ricordare i dettagli, però mi pare di ricordare che abbiamo fatto uno show tutti insieme, e che quella sera Oh No mi aveva dato una copia del suo ultimo progetto: quando sono arrivato a casa l’ho subito ascoltato e ho capito che era una bomba. Da lì abbiamo cominciato a lavorare insieme.

B: Perché scegliere il nome Gangrene, tra l’altro (significa letteralmente cancrena, ndr)?

A: Non ricordo neanche questo! (ride)

O.N.: Perché la musica che facciamo è marcia e cruda, e se guardi una gamba in cancrena ti dà proprio quell’idea di marcio e crudo.

B: In effetti la roba che fate insieme è molto più grezza e cupa di quella che fate di solito separatamente…

A: Quando ci concentriamo su Gangrene, sappiamo che è un discorso a parte: vogliamo solo essere creativi. Ogni tanto ci capita anche di fare un pezzo più soulful, ma in generale non è il tipo di emozione che vogliamo trasmettere quando lavoriamo insieme. Quando siamo in tour vogliamo divertirci, impazzire sul palco, non vogliamo essere persone serie. Quando produco un album per Evidence, ad esempio, so che lui è una persona che ama viaggiare con le parole, vuole trasmettere concetti ed emozioni con le sue rime, perciò gli cucio addosso dei beat che siano adatti a lui. E anche dopo tre album targati Gangrene, sappiamo perfettamente cosa va bene per il progetto e cosa no: non dobbiamo neanche più consultarci, ci basta ascoltare pochi secondi di un beat per esclamare “Oh, sì, questa è roba da Gangrene!”. Non saprei neanche come descrivere il nostro sound, ci siamo arrivati procedendo per tentativi e non fermandoci mai.

B: A proposito, la discografia di Gangrene è molto estesa per essere un side-project collaborativo: oltre ai tre album ci sono diversi EP e altri progetti. Come mai siete così prolifici?

A: Quando abbiamo cominciato non sapevamo esattamente dove eravamo diretti: tutti e due avevamo una solida carriera solista alle spalle, avevamo già prodotto moltissimi album singolarmente e avevamo già partecipato a altri progetti collaborativi. Si può dire che all’inizio non sapessimo neanche che avremmo fatto un primo album, e neanche un secondo e un terzo… La chiave della longevità del progetto, probabilmente, è che ci divertiamo molto insieme: quando fai un side-project lo fai per distrarti, se diventa fonte di stress il gioco non vale la candela. Nel nostro caso, tutto fila liscio come l’olio: Oh No lavora molto velocemente e mi fa venire voglia di essere rapido ed efficiente anche io, per cui il numero degli album e la rapidità con cui li produciamo va di pari passo. E poi penso che i nostri flow siano complementari: io non mi considero un rapper, sono un producer al 100%, ma quando lavoriamo su Gangrene ci è concesso di essere creativi anche al microfono, possiamo dare al pubblico un saggio dei nostri beat e contemporaneamente divertirci a rappare.

B: Tutti e due, in effetti, siete più noti come producer che come rapper: cosa vi spinge a sperimentare anche la cura del microfono (cit)?

O.N.: Per me è come aggiungere uno strumento al beat: un rapper normale si preoccuperebbe solo di fare la sua strofa e spaccare, mentre i rapper-producer scrivono per integrare la strumentale, usano le rime come un pattern ritmico.

A: Rappare è quel qualcosa che non abbiamo bisogno di fare, ma che è troppo divertente per non farlo. Per me produrre è bellissimo, mentre rappare è come bigiare la scuola per scappare a fumare in bagno. Come mc non mi prendo troppo sul serio, ma mi piace un casino: è un modo di evadere dai miei doveri. Magari è un periodo in cui sto producendo un album molto importante per qualcun altro e sono sotto pressione: mi metto a scrivere per il disco di Gangrene e subito l’atmosfera si alleggerisce.

B: Tornando all’album, c’è questa leggenda metropolitana su You disgust me: pare che voi abbiate detto che avete scritto le canzoni pensando ai video, anziché viceversa…

A: Okay, per rispondere a questa domanda sputtanerò un mio amico! (ride) Jason Goldwatch è la persona che si occupa di quasi tutti i visual di Gangrene: un bel giorno è arrivato da noi dicendo “Ho un’idea per un video spettacolare, potete scrivere una canzone su questo argomento?”. È stata la prima volta in cui abbiamo scritto un pezzo basandoci su un concept di qualcun altro. Ci siamo lasciati convincere su tutta la linea: abbiamo scritto le strofe, Oh No se ne è venuto fuori con un beat spettacolare perfetto per accompagnarle, abbiamo registrato la canzone… e alla fine non abbiamo mai girato il video. Perciò Jason, sappi che sono molto arrabbiato! Naturalmente scherzo, lui è come un fratello per me e abbiamo ancora intenzione di girarlo, ma per ora non siamo riusciti a incastrare le cose.

B: Restando in tema di fratelli, l’album include anche l’ultima strofa di Sean Price pubblicata mentre lui era ancora in vita (nel brano Sheet Music_: Sean P è morto appena qualche ora dopo la pubblicazione del disco, ndr_). Che cosa manca alla musica rap, e a voi come suoi amici, ora che se n’è andato?

A: Si è portato via un pezzettino di ognuno di noi. Era il preferito di moltissimi rapper, e riusciva a trasmettere una forza e un’energia incredibile, alla vecchia maniera, senza artifici. E questo è solo l’aspetto musicale, perché se avevi la fortuna di conoscerlo a livello umano scoprivi una persona stupenda: quasi tutti avevano un ottimo rapporto personale con lui. Il fatto che non ci sia più sembra ancora così surreale, avremmo tanto voluto che restasse tra noi ancora per un po’, ma per fortuna ci ha lasciato tantissima buona musica e attraverso di essa faremo in modo che non venga mai dimenticato. Il suo talento sarà celebrato attraverso le generazioni future: per quanto ci riguarda è già entrato nella leggenda.

B: Parlando di cose più allegre, prima di You disgust me avete pubblicato Welcome to Los Santos, una sorta di colonna sonora del videogioco Grand Theft Auto. Come è nato il progetto e, soprattutto, siete dei gamer?

O.N.: Io sono un fanatico dei videogame. Eravamo presenti anche nella colonna sonora del precedente GTA, Chinatown Wars, e da allora abbiamo mantenuto un ottimo rapporto con la Rockstar (la casa produttrice del gioco, ndr). Quando ci hanno chiesto di fare Welcome to Los Santos, Alchemist può testimoniare la mia reazione: ho fatto i salti di gioia! Era come se fossi nato pronto per quel lavoro: mi sono messo all’opera immediatamente. Al di là di tutto, comunque, siamo molto felici di questa opportunità anche perché è un bel salto di qualità rispetto alla volta scorsa.

B: Cambiando argomento, il ruolo del producer negli anni è cambiato tanto: per buona parte degli anni ’90 sembrava una figura oscura e marginale, oggi invece è una categoria più potente che mai (basta pensare a gente come Kanye West, Pharrell Williams o Dr. Dre)…

A: Penso che le cose cambino molto a seconda del periodo storico, e questo è decisamente un momento d’oro per i producer. Dipende anche dal fattore tecnologico: un tempo i producer erano molti di meno, se eri tra i pochi a possedere una drum machine eri una persona speciale. Dovevi avere messo via un sacco di soldi da investire, essere molto motivato, avere un bel po’ di dischi da cui campionare… Per noi era davvero molto più complicato diventare un beatmaker. Oggi, invece, non dico che ci sia meno creatività, ma fare beat è alla portata di molta più gente. E allo stesso tempo è più difficile emergere con la propria identità, anche perché ogni anno c’è un nuovo superproducer che detta la moda e tutti gli altri gli vanno dietro seguendo quel suono. Il mio consiglio per i ragazzi che cominciano adesso è di crearsi un proprio sound distintivo, senza cercare di imitare quello che va per la maggiore in quel momento. E non lo penso solo io, qualche tempo fa ho letto un’intervista di RZA che affermava proprio la stessa cosa. Anzi, diceva addirittura “Non preoccupatevi se nessuno compra i vostri beat, non buttateli via, perché magari sono troppo avanti: è probabile che tra dieci anni diventeranno di moda e la stessa gente che ai tempi non li voleva farà la fila per comprarli!”. Sicuramente, però, al di là di tutto c’è una costante che va tenuta in considerazione: le case discografiche guadagnano molti più soldi grazie agli artisti che grazie ai producer, quindi tendenzialmente puntano sugli artisti. I producer superstar sono persone che hanno trovato il modo di farsi notare e di spiccare sugli altri. E noi dobbiamo dire grazie a quelle persone, tipo Just Blaze, che in passato sono riuscite al pari degli artisti a crearsi una solida reputazione facendo beat e nient’altro: è il loro successo che ci ha permesso di poter registrare degli album a nostro nome o fare dj set in giro per il mondo.

B: Sta emergendo un altro fenomeno particolare: molti dei nomi di punta del momento, come Dre o Kanye, spesso non producono più in prima persona, ma si limitano a dare una direzione artistica e a firmare il lavoro finito, avvalendosi della bassa manovalanza di giovani producer (di talento ma sconosciuti) che assemblano concretamente il beat. Cosa ne pensate?

A: Credo che bisognerebbe distinguere il beatmaking puro e semplice e la vera produzione: sono comunque parti dello stesso intero, ma molti tendono a confonderle. Io e Oh No, ad esempio, siamo sia beatmaker che producer, però ci sono anche persone che fanno beat e basta e persone che producono e basta (nel senso di produzione artistica e quindi di supervisione, ndr). Noi siamo testardi e vogliamo continuare a fare entrambe le cose, ma al giorno d’oggi non c’è più bisogno di fare tutte e due, puoi scegliere. Io stesso quando ho cominciato ho fatto il galoppino per anni, e ho realizzato un sacco di produzioni che poi sono finite sotto il nome di altri. È un modo di fare la propria parte e imparare: se hai abbastanza talento, quell’esperienza ti sarà molto utile e prima o poi ne trarrai i tuoi frutti.

B: Oh No, una domanda per te, che più che altro è una curiosità: davvero hai scelto questo aka perché il tuo vero nome è Michael Jackson e non ne potevi più di sentire la gente che ti diceva “Davvero? Come quel Michael Jackson?”?

O.N.: Già: anche ora non posso che rispondere Oh No! (ridono entrambi, ndr) Quando ero ragazzino avevo quel problema, ho cercato di fare il figo e di tirarmene fuori con questo nome. Anche se forse sarebbe stato più appropriato Oh Yeah…

A: Devi assolutamente cambiarlo in Oh Yeah, sarebbe fantastico! È molto più cool!

O.N.: Ci penserò!

B: Un’altra cosa che probabilmente ti chiedono tutti è come ci si sente a essere il fratello di Madlib e fare il suo stesso mestiere. Ti scoccia se te lo chiediamo anche noi?

O.N.: È grandioso, ho imparato moltissimo da lui. Ogni volta che faceva un beat ero proprio lì, di fianco a lui: non riesco a immaginare una situazione migliore per un aspirante producer.

B: Last but not least: che cosa vi aspetta nei prossimi mesi?

A: Saremo in tour, e poi singolarmente seguiremo una serie di produzioni e nuovi progetti tra cui anche nuova musica targata Gangrene. Io, parallelamente, sto realizzando anche una serie di 45 giri in questo periodo, di cui sentirete parlare molto presto.

O.N.: Anche per me nuova musica: oltre a quella di Gangrene io e Madlib abbiamo diversi pezzi che probabilmente butteremo fuori durante l’anno. Insomma, non smetteremo di lavorare.