Disclaimer iniziale: in questa intervista, la persona che ha fatto le domande e quella che ha fornito le risposte si conoscono da circa diciassette anni. Se assomiglia più a una chiacchierata tra amici che a un articolone serioso, insomma, perdonateci: è tutta colpa nostra, lo ammettiamo. Questo non vuol dire che leggerlo sia meno interessante, però: perché Asher Kuno, già membro della mitica Spregiudicati Crew, è una figura importantissima per l’underground milanese. Ne ha attraversato tutte le fasi storiche, gli alti e i bassi, senza mai snaturarsi per opportunismo o smettere di divertirsi (e di far divertire) con il rap. Rappresenta quella true school genuina e solida, quella che non cambia bandiera a seconda delle mode, quella su cui puoi sempre contare. Last but not least, spacca, nel senso più ampio del termine, perché incarna la caratteristica essenziale di un mc: l’essere un intrattenitore a 360°, in grado di adattare il suo stile ai vari contesti, dal più serio al più cazzaro, senza mai perdere la sua personalità. E di cose ne ha viste tante, in questi anni, quindi ha parecchio da raccontare. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui, per parlare dei suoi ultimi progetti – l’album Spregiudicato e il mixtape HallWeedWood III – ma non solo. A proposito, qui sopra potete vedere l’ultimo video estratto dal mixtape, Cusa go de ditt con il featuring di Coliche (MDT), uscito proprio in questi minuti.
Blumi: A inizio 2015 è uscito Spregiudicato, il tuo quarto album solista vero e proprio. Il titolo rimanda subito alla tua storica crew…
Kuno: Ovviamente voleva essere un richiamo, anche perché nelle intenzioni iniziali doveva essere finito entro il 2014, giusto in tempo per festeggiare i dieci anni di The Fottamaker (il suo primo album, ndr). Il senso, però, è anche un altro. L’intero album è senza featuring: è come se quella crew continuasse ancora la sua attività, anche se ci sono soltanto io.
B: Ecco, a proposito: perché Spregiudicati come crew non esiste più, se siete ancora tutti in attività e – cosa più importante – siete ancora tutti molto amici?
K: Inizialmente eravamo in sette, poi in quattro, e alla fine i più attivi (quelli che facevano rap in maniera continuativa, per intenderci) eravamo rimasti io e Jack the Smoker. Insomma, sembra un po’ un luogo comune, ma la crew è finita per via del naturale corso degli eventi. Ovviamente, però, loro sono e resteranno sempre i miei più cari amici: ci vediamo continuamente, ci viene spontaneo lavorare insieme quando capita, ma non aveva più senso proseguire con la crew, anche perché per come siamo fatti ciascuno di noi ha sempre pensato più a fare il suo che a mantenere in piedi un collettivo, forse proprio perché come persone siamo così uniti. In dieci e più anni di attività non abbiamo mai fatto un album insieme, e questo spiega molto… Ovviamente, però, ci fa molto piacere che la gente ricordi con grande affetto Spregiudicati come collettivo.
B: Sei stato parte di una realtà storica per Milano. I ragazzini ancora oggi vi prendono a modello, le copie dei dischi autoprodotti di quel periodo si vendono a prezzi assurdi in rete… Senti mai il peso di questa eredità?
K: Non è un peso, però effettivamente due domande te le fai: com’è che all’epoca facevamo le stesse cose, ma il riscontro era così diverso? In ogni caso credo che il nostro successo di inizi ’00 dipendesse anche dal fatto che non esistevano realtà come la nostra, ai tempi eravamo una ventata d’aria fresca. Eravamo dei ragazzini infottati, alcuni molto tecnici come Jack, altri più caciaroni ed energici come me e Bat, e quindi siamo riusciti a farci notare.
B: Tornando all’album, ogni pezzo è un episodio a sé e cambi stile, flow e sound più volte nel corso della tracklist. Per alcuni potrebbe sembrare una mancanza di coerenza interna, ma in realtà è un espediente che mostra perfettamente le tue capacità tecniche…
K: Fin dai tempi di Rolling Flow, uscito nel 2008, cerco di fare della versatilità il mio punto di forza: magari sbaglio, ma sono dell’idea che non vada bene fossilizzarsi sempre sulla stessa cosa, soprattutto se sei una persona che ama ascoltare un po’ di tutto. So che all’ascoltatore medio magari non interessa tanto, ma io apprezzo tantissimo quei rapper che sono in grado di cimentarsi con tutte le sfumature del genere, dalla roba classica alla trap: nel giudicare la bravura di un mc bisogna tenere conto anche di questo. Molti si fanno paranoie e quindi cercano sempre di mantenersi nei loro soliti binari, perché hanno paura di sembrare poco coerenti: io no. È il mio approccio che conta, suonerei hip hop anche se rappassi sulla house. L’unica cosa che potrebbe rendermi incoerente è se domani mattina mi svegliassi e mi mettessi a urlare ai quattro venti “Vaffanculo all’hip hop!”. (ride)
B: Ti sei tolto tutti gli sfizi che volevi sperimentando in lungo e in largo, quindi?
K: Assolutamente, e in questo sono facilitato dal fatto di avere lo studio in casa: se mi viene un’idea, posso subito metterla in pratica. Oltretutto sono una persona un po’ ossessiva, sono capace di passare settimane o mesi a lavorare su un pezzo, finché non viene come dico io. Con gli Spregiudicati abbiamo sempre avuto questo approccio un po’ casalingo: ai tempi avevamo comprato tutti insieme le attrezzature e ci eravamo fatti uno studiolo da Jack, ma gli occupavamo casa per delle ore, per cui appena ne ho avuto la possibilità ne ho creato uno vero e proprio da me, in modo da poter registrare anche a notte fonda senza dover tirare nessuno giù dal letto… (ride) Oltretutto sono un artigiano, il mio lavoro quotidiano è nell’edilizia, quindi costruire è una cosa che mi dà soddisfazione.
B: E dal nome del tuo studio è nata anche la celebre serie di mixtape HallWeedWood. A proposito, ci fai un tutorial su come pronunciarlo?
K: Immagina di pronunciare Hollywood, ma dicendo HallWeedWood. Lo so, ho fatto una cazzata a dargli un nome così complicato, nessuno lo capisce mai! (ride) Scherzi a parte, il 90% delle registrazioni le abbiamo fatte qui, in maniera del tutto amichevole e informale, dopo un pranzo o una cena insieme ai vari rapper coinvolti. L’idea dei tape è nata nell’estate del 2010, quando ancora vivevo con i miei e avevo appena comprato l’attrezzatura per registrare: quando sono partiti per le vacanze e avevo casa libera per un paio di settimane, ho chiamato a raccolta tutti i miei amici per provare i miei nuovi giocattoli…
B: … E così è arrivato il volume 1.
K: Esatto. Il 2 ci ha messo molto di più, perché nel frattempo stavo lavorando all’album. Il 3, invece, è stato parecchio più rapido, ma per ragioni diverse da quelle che uno potrebbe aspettarsi. Spregiudicato è uscito a inizio 2015, come dicevo prima, ma per me è stato un parto: già sono molto perfezionista, in più trattandosi del mio primo disco senza featuring ci tenevo in maniera particolare, mi ero concentrato su ogni minimo dettaglio, forse anche troppo. Insomma, quando finalmente sono arrivato a chiuderlo avevo voglia di un po’ di leggerezza, di fare rap solo per il gusto di farlo, senza scadenze o obbiettivi particolari. In fondo io nasco come freestyler, ho bisogno di divertirmi al microfono e sono in grado di cacciare una strofa velocemente, quando voglio. Insomma, un bel giorno è venuto a trovarmi Kill Mauri (rapper e beatmaker affiliato a Machete, ndr) e nel giro di poche ore abbiamo registrato due pezzi, così, di botto. Lì ho capito che era il momento giusto per rimettermi al lavoro su un nuovo capitolo dell’HallWeedWood Mixtape: ho cominciato a convocare decine di persone da me e nel giro di un paio di mesi eravamo pronti ad uscire.
B: Le decine di persone per la precisione sono trenta rapper (più te) e sei beatmaker, se non ho sbagliato a contare. La domanda nasce spontanea: chi te l’ha fatto fare? E soprattutto, come ci sei riuscito?
K: La cosa incredibile è che le registrazioni sono durate poco più di un mese: non so come ho fatto, ma ce l’ho fatta! Non dormivo niente, ma mi svegliavo al mattino con l’entusiasmo di riascoltare le strofe registrate la notte prima, e impaziente di buttarmi su quelle della giornata. Sono molto felice del risultato, anche se so che ha tutti i classici limiti di un mixtape, tipo il fatto che i pezzi non parlano di niente. Però in questo momento in Italia c’è un po’ di confusione sul tema: ci sono album ufficiali che suonano estemporanei e leggeri come mixtape, e il bel risultato è che poi c’è chi ti dice che gli album ufficiali fatti come dovrebbero essere sono noiosi e pesanti, perché non capiscono la differenza.
B: A proposito dell’Italia di oggi, Milano al momento è sicuramente la capitale del nostro rap: la maggior parte delle case discografiche sono qui e la maggior parte dei rapper “di professione” vivono ormai qui. Tu che hai sempre vissuto la scena locale molto da vicino, cosa ne pensi?
K: Mi capita di frequente di fare da host nei contest di freestyle, e quindi sono spesso a contatto con la nuova scena di emergenti. Quello che vedo in loro è soprattutto la fame: oggi esiste gente che con il rap è riuscita davvero a creare un business, a differenza dei tempi nostri in cui svoltare con la musica era solo un sogno lontano, e quindi quelli che cominciano ora sono particolarmente accaniti e concentrati a raggiungere il loro obbiettivo. Il problema, però, è che non si divertono. Se ripenso a noi quando avevamo la loro età, il clima era molto più disteso e fraterno: gente come noi, Vacca o i Banhana Sapiens artisticamente non avevamo nulla in comune a parte un forte spirito hip hop, ma eravamo tutti amici e passavamo le nostre serate nei parcheggi di Milano a fare freestyle. Eravamo presi bene, arrivavamo da un periodo in cui la faccenda sembrava ormai morta e sepolta, avevamo voglia di rimettere in piedi qualcosa; non per questioni di interesse, però. Molti ragazzi di oggi, invece, non vanno a lavorare perché sperano di svoltare con il rap. Per loro non è più una passione, diventa un investimento per il futuro.
B: Il paradosso è che molti di loro, quando devono ascoltare qualcosa che li ispiri o che li prenda bene, non ascoltano il rap dei loro coetanei, ma tornano a quello dei nostri tempi o addirittura a quello della generazione precedente: i dischi storici di Shocca, di Kaos, degli Otierre o dei Sangue Misto, i primi Club Dogo…
K: Se devo dirla tutta, secondo me molti giovani rapper di oggi magari hanno successo, ma hanno un pubblico che non c’entra più nulla con gli ascoltatori di rap. Alcuni sono seguiti dalle ragazzine, altri da gente che ascolta tutt’altro genere. La controprova ce l’hai soprattutto ai live: quando suonano molti giovani rapper emergenti, anche quelli che su Internet fanno ottimi numeri, il pubblico è scarsino. Un po’ perché chi non viene dalla scena hip hop non sente il bisogno di essere presente sotto il palco per viversela davvero, e un po’ perché la loro audience non ha ancora l’età per uscire la sera… (ride) E difatti ultimamente ha preso molto piede il live pomeridiano, per permettere anche ai più piccoli di esserci. Per carità, anche negli anni ’90 capitava, ad esempio al Phat Milano, (un evento gestito da Fritz Da Cat tutte le domeniche pomeriggio all’Indian Cafè che ha chiuso i battenti all’inizio degli anni ’00, ndr) ma era un contesto più simile alle jam, e comunque c’era gente di tutte le età. Adesso, invece, si sta davvero creando una divisione tra artisti che suonano al pomeriggio e artisti che suonano alla sera, e relativo pubblico.
B: Visto che siamo in throwback mood, tu sei artisticamente cresciuto nel periodo dello Showoff (evento creato da Bassi Maestro e Rido, che in anni di deserto totale è riuscito a radunare attorno a sé e ricostruire una scena nel nord Italia, ndr). Hai dichiarato più volte, sia a parole che in musica, che per te è stato un riferimento importantissimo. Visto che è difficile spiegare la magia di quel periodo a chi ai tempi non c’era, c’è un momento tra quelli che hai vissuto ai tempi che ricordi in maniera particoalare?
K: Due cose. La prima: quando salii su quel palco per fare il primo showcase di presentazione di The Fottamaker, persi completamente la voce dopo soli tre pezzi. Per fortuna a farmi le doppie avevo Jack the Smoker, Bat e Gomez, e quindi la buttammo un po’ in caciara e riuscimmo a trasformarla in una festa e a portarla a casa. Alla fine il live era piaciuto molto e avevo venduto un sacco di copie: quella notte tornai a casa e svegliai i miei genitori, che come tutti i genitori ai tempi pensavano che il rap fosse una perdita di tempo e che avrei fatto meglio a concentrarmi sulle cose importanti della vita, e gli sbattei la mazzetta di contanti sul letto, felicissimo di avergli dimostrato che “cazzeggiando” ero riuscito a guadagnare i primi soldi della mia vita! (ride)
B: E la seconda?
K: Allo Showoff c’era il cosiddetto Producer’s Corner, in cui i produttori facevano ascoltare i loro beat e i rapper ci facevano freestyle sopra. Una sera c’era un premio per i migliori: un biglietto per il concerto dei Gangstarr del giorno dopo. A me era capitato di rappare su un beat velocissimo, super difficile, ma ero riuscito a cavarmela: alla fine quel biglietto l’ho vinto io. Per puro caso i Gangstarr erano già arrivati a Milano e Guru e Big Shug, dopo aver saputo che c’era questo grosso evento di rap italiano tutti i mercoledì, avevano deciso di passare di lì a dare un’occhiata. Sono andato da Guru emozionatissimo, non sapevo cosa dire: gli ho stretto la mano e, visto che avevo con me un demo con alcuni ruff mix del mio album, gliel’avevo regalato. Insomma, un momento magico!
B: Da lacrimuccia, davvero. Ma non guardiamo al passato, guardiamo al futuro: cosa ti aspetta nei prossimi mesi?
K: Io e Supa Cush stiamo ultimando un mixtape, metà pezzi editi, metà inediti: penso che sarà fuori al più tardi per dicembre. Al di là di questo, c’è l’idea di collaborare con un altro storico rapper di Milano che è fermo da un po’, ma non posso anticipare più di così per ora.