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First name Sean, last name Price/ you can say what you want, just spell his name right

08-08-2015 Marta Blumi Tripodi

First name Sean, last name Price/ you can say what you want, just spell his name right

E alla fine è arrivato anche il comunicato ufficiale della Duck Down Records. Poche parole che – almeno fino a questo momento – i diretti interessati hanno solo diffuso a mezzo stampa e hanno rifiutato di pubblicare sul proprio sito e sugli account social ufficiali, che ancora non riportano ufficialmente la notizia, quasi a negare una realtà troppo pesante da affrontare (ma se avete voglia di farvi scendere una lacrimuccia in più, perché siamo sicuri che oggi chiunque ha messo mano ai Kleenex, date un’occhiata al profilo Instagram dell’etichetta, vedi foto sotto). Così recita il comunicato: “È col cuore straziato che la Duck Down conferma tristemente che Sean Price è deceduto nel suo appartamento di Brooklyn sabato mattina presto. La causa della morte è attualmente sconosciuta, ma ci è stato riferito che è morto nel sonno. Lascia sua moglie e i loro tre figli. Gli amici e la famiglia di Sean chiedono un po’ di tempo per piangerlo ed elaborare la notizia. Ulteriori dettagli saranno diffusi quando ci saranno nuove informazioni disponibili”.

Il talento lirico di Sean Price andava di pari passo con il suo senso dell’umorismo, nonché con la sua intraprendenza a livello di guerrilla marketing: “the brokest rapper you know”, come lui stesso si definiva, le inventava davvero tutte per promuovere l’uscita dei suoi tape. Ai tempi di Mic Tyson ne aveva combinate di ogni: si era improvvisato reporter in mezzo all’uragano Sandy, era andato a giocare finte partite di tennis con vere ex professioniste russe, aveva inscenato furti di bici a New York, sempre seguito dalle telecamere della Duck Down. Ogni volta, puntualmente, i video in questione erano diventati virali. E con l’uscita del suo nuovo mixtape Songs in the key of Price prevista a meno di dieci giorni da oggi, molti hanno pensato che si trattasse di un altro scherzo o di una trovata pubblicitaria per lanciare il disco. Se così fosse, è riuscito a fregare davvero tutti. Nulla ci renderebbe più felici di vederlo resuscitare tra qualche ora, scuotendo una testa e inarcando il sopracciglio per manifestare la sua proverbiale disapprovazione nei confronti di noi boccaloni. Gli lasciamo un margine di tre giorni per manifestarsi (in fondo lui è Jesus Price Superstar, il lasso di tempo gli si addice) e gli giuriamo che lo perdoneremo per questo pessimo scherzo. Anzi: promettiamo solennemente tutti insieme che se torna siamo disposti a comprare una dozzina di copie ciascuno di Songs in the key of Price. Ma promettiamo di farlo anche se non torna: perché la moglie e i tre figli, purtroppo, non riusciranno a pagare le bollette solo grazie ai tweet di condoglianze che sono fioccati oggi.

Non appena si è diffusa la voce della sua possibile scomparsa il nome di Sean P è arrivato in trending topic perfino in Italia, Paese che spesso non è in grado di riconoscere un mc che spacca neanche quando va a sbatterci contro; se la cosa per certi versi è sorprendente, dall’altra non dovrebbe stupirci affatto. Perché per la maggior parte dei suoi fan P era molto più che una “semplice” colonna portante della scena hip hop internazionale; era un amico, un fratello, una versione più talentuosa, chiassosa e irriverente di noi comuni mortali. Ridevi alle sue battute, ti riconoscevi nelle sue rime, la sua battaglia contro la quotidianità era anche la nostra. Capita raramente che un artista di quella caratura sia anche un essere umano decente: lui era entrambe le cose, e riusciva sempre a tirare fuori il lato divertente di ogni situazione. E qui arriva il mio momento Kleenex, mio e di altre 30 (o forse anche meno) persone che nel lontano 2000-e-qualcosa (2004? 2005? Beh, uno di quegli anni bui in cui l’hip hop in Italia non se lo cagava più nessuno) si riunirono al Tunnel di Milano per assistere a un suo live. Una manciata scarsa di cristiani, in maggioranza irriducibili orfani dello Showoff: preparatissimi, pronti a snocciolare a memoria ogni sua strofa dai tempi degli Heltah Skeltah in avanti. Chiunque altro si sarebbe preso male all’idea di suonare davanti a così pochi spettatori paganti, ma lui non si scompose affatto. Arrivò da solo con largo anticipo, si bevve una birra con noi che eravamo in fila davanti alla porta in attesa di entrare, si lamentò dei calli che gli tormentavano i piedi (tutto vero, giuro), si unì volentieri al cypher pur non capendo una parola di quello che dicevano gli altri freestyler. Poi, quando giunse il momento di salire sul palco, si rifiutò di salirci davvero: “Dai, gente, siamo in pochi, mettetevi tutti intorno a me, prendo il microfono e il live lo faccio qui tra voi”. E nonostante tutto riuscì a ribaltare il locale, perché per lui due persone o duemila non cambiavano un cazzo: eravamo lì per vederlo e tanto gli bastava. Accettò perfino di rifare Boom Bye Yeah tre volte di seguito. E alla fine, tanto per dare la misura di quanto ci tenesse al suo lavoro, concluse lo show così: “Ora dovete fare tutti una cosa per me. Fate il segno della pace in aria. Ora unite le dita insieme. Ora fate il gesto della pistola. Ora giratevi tutti e puntatela sul fonico, poi sparate, perché l’audio stasera faceva davvero cagare. Cazzo, amico, cambia mestiere!”.

Ciao, P. Grazie di tutto.