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Raekwon: l’intervista

23-04-2015 Marta Blumi Tripodi

Raekwon: l’intervista

Hai consumato i loro dischi, conosci a memoria ogni rima vergata dalla loro penna, riconosceresti il loro flow ad occhi chiusi, sei in grado di recitarne vita, morte e miracoli. Però, per quanto tu arrivi preparato all’incontro con i tuoi idoli, la realtà troverà sempre il modo di sorprenderti. E’ il caso di Raekwon, che qualche anno fa avevamo avuto occasione di incrociare per un’intervista durante il loro tour italiano: eravamo nella hall di un albergo a cinque stelle e lui si era presentato in pantofole, sorbendo educatamente una tazza di tè caldo – era luglio – e dei delicati biscottini al burro, mentre il resto del Wu si strafocava di pizza al formaggio al tavolo del buffet. Nella pausa tra una domanda e l’altra, si lamentava dei reumatismi al ginocchio, causati a suo dire dalla vecchiaia. Il suo nuovo album F.I.L.A. esce il 27 aprile in tutto il mondo, così si è ripresentata l’occasione di intervistarlo e ovviamente l’abbiamo colta al volo. Stavolta la situazione è parecchio diversa: l’incontro è telefonico perché The Chef è a Londra per la promo europea, e oltretutto è ancora un po’ assonnato e (presumibilmente) in hangover dalla sera prima perché, da vera rockstar, ha fatto un’improvvisata a Kanye West e si è ritrovato anche lui sul palco a rappare. La vecchiaia che avanza non sembra più essere un problema per lui, tanto che ha appena sfornato l’album più giovanilistico della sua carriera: beat catchy e ammiccanti, featuring inaspettati, immaginario patinato. Del Wu-Tang Clan non ha molta voglia di parlare, ci spiegano i suoi addetti stampa – anche perché, dopo i suoi pubblici scazzi con RZA che hanno preceduto la pubblicazione di A better tomorrow, probabilmente sarà stanco di domande sui suoi rapporti col resto della crew. Insomma, non è proprio il Raekwon che ci aspettavamo, ma non ci lasciamo certo scoraggiare dalle apparenze e cerchiamo di capire, a vent’anni dalla pubblicazione di Only built 4 cuban linx, cosa è cambiato e cosa è rimasto lo stesso.

Blumi: Inizialmente hai annunciato la pubblicazione di F.I.L.A. per il 2013: perché questi due anni di ritardo?

Raekwon: Ho dovuto lasciare il mio album solista in sospeso perché stavo lavorando al progetto collettivo del Wu-Tang Clan. L’uscita di entrambi era prevista più o meno nello stesso periodo, così ho dovuto prendere una decisione: rimandare il mio in modo da fare uscire prima quello del Wu.

B: Hai dichiarato apertamente che quest’album è più leggero e orecchiabile rispetto ai tuoi precedenti lavori e che è un inno al tuo lato più mainstream…

R: Mi sento un artista internazionale ormai, il mio pubblico sta aumentando. Volevo fare qualcosa che potesse essere ascoltato da tutti, e non solo dai miei soliti fan hardcore. Magari con questo disco mi guadagnerò qualche nuovo fan. Sono nel music business da tantissimo tempo, ormai, e voglio rivolgermi a tutti, non solo a un gruppetto di persone. Sono molto soddisfatto del risultato e ho fiducia che andrà bene. Non vedo l’ora che la gente lo senta.

B: Il titolo ha un significato particolare?

R: F.I.L.A. è un acronimo per Fly International Luxurious Arts, uno slogan che descrive la mia vita di oggi: dopo vent’anni sono ancora qui, a regalare pezzi della mia arte ai fan.

B: E perché hai messo una sfinge in copertina?

R: Una che?

B: Una sfinge.

R: Non so cos’è, di cosa parli?

B: Hai presente, l’unica immagine che c’è in copertina, quel grosso gatto dorato con le ali…

R: Oh, quello. È perché sono una specie di faraone del rap game: tutti guardano a noi del Wu-Tang come a delle divinità e io volevo rappresentare questo. Sono un king e un dio, ecco perché l’ho messa in copertina.

B: Visto che i beat sono un po’ diversi dai tuoi soliti, parliamo dei producer con cui hai lavorato (vedi Jerry Wonda, cugino di Wyclef Jean, o S1, che lavora soprattutto nel circuito R&B): come li hai scelti?

R: Sono in buoni rapporti con un sacco di produttori e a tutti, anche a quelli con cui ancora non avevo lavorato, ho chiesto di portarmi dei beat che avessero il mio suono, ma a un livello successivo, come se venissero dal futuro. La musica che mi hanno dato mi è piaciuta molto, c’era una bella sintonia. Scram Jones, Jerry Wonda e Scoop Deville, tra gli altri, hanno fatto un ottimo lavoro.

B: In mezzo a tutto questo futuro hai anche voluto piazzare una canzone, 1,2 1,2, che è un omaggio a Make the music with your mouth di Biz Markie, di cui riprende in parte il beat (è l’unica produzione dell’album accreditata a Scoop Deville, ndr). Come mai?

R: Perché è un classico con cui tutti noi del Wu siamo cresciuti, e il minimo che potevo fare era rendergli onore. Quello che siamo oggi lo dobbiamo molto a quel tipo di musica, ha avuto un grande impatto sul nostro stile. E poi quel beat è favoloso, per renderlo più attuale ci è bastato tagliuzzarlo un po’.

B: A proposito di omaggi, qualche mese fa hai pubblicato il mixtape We wanna thank you, in cui rappi su alcuni classici del soul. Com’è nato questo progetto?

R: Era solo un modo per divertirmi un po’, volevo regalare ai fan della roba nuova e riportarli indietro nel tempo. Adoro la musica soul, mi ispira molto, così ho deciso di registrare questo mixtape così, tanto per fare qualcosa, e l’ho buttato fuori in free download: ogni settimana un pezzo o due, per venti settimane di seguito. Non era previsto che diventasse così popolare, ma in fondo tutti amano il soul.

B: Cambiando argomento, un sacco di rapper della nuova generazione si costruiscono un personaggio e un immaginario, un po’ come avete fatto voi fin dai tempi di 36 Chambers, ma oggi si ha l’impressione che al di là dell’estetica molti di loro siano un po’ inconsistenti: come si riconosce il falso dal vero?

R: Non sono il tipo di persona che giudica, musicalmente mi piacciono molte cose diverse. Credo che i ragazzi di oggi siano cresciuti influenzati del nostro stile: ciascuno di loro cerca di fare le cose a modo suo, ma ovviamente ci sono sempre dei riferimenti. Personalmente, essendo ormai una leggenda del rap game, possiedo un sacco di tecniche old school per sfornare dei classici, ma gli mc che vengono fuori oggi sono ancora delle reclute e hanno tutto da dimostrare: se lavorano sodo, chi sono io per dire se sono veri o sono falsi? Anche se lo pensassi, non vorrei offendere i loro fan. Cerco solo di fare il mio e di dare l’esempio.

B: Tra l’altro tu sei da sempre uno dei rapper in assoluto più richiesti per i featuring: sei una presenza costante nei dischi dei tuoi colleghi di tutte le età…

R: Ne sono felice, perché non mi piace stare seduto a girarmi i pollici quando invece posso essere in studio con qualcuno a fare quello che mi piace.

B: Da parte loro, gli altri dichiarano di ammirarti soprattutto per lo spessore delle tue liriche.

R: Ai miei tempi le liriche erano un aspetto che prendevamo molto più sul serio. Era un’arte molto più apprezzata, e credo di averla sempre padroneggiata: è una specie di dono. Mi piace scrivere, mi viene naturale.

B: Restando in tema di passato, si dice in giro che tu e Ghostface Killah stiate producendo un documentario per celebrare i vent’anni di Only built 4 cuban linx: è vero?

R: Sì, si intitola The purple tape files e racconta il making of dell’album dando una visione molto approfondita della sua lavorazione. È un disco che ha fatto la storia, quindi ci sembrava giusto farlo: se lo ha fatto Nas con Illmatic, che è altrettanto leggendario, perché non fare la stessa cosa anche noi? Siamo sicuri che la gente lo apprezzerà, anzi, credo fosse un mio dovere girare questo documentario, per ringraziare le persone che lo hanno reso così importante.

B: A proposito, curiosità: è vero che la cassetta di Only built 4 cuban linx, a cui è dovuto il soprannome dell’album “The purple tape”, è stata realizzata in viola per caso perché al momento della stampa era l’unico colore disponibile?

R: Più o meno. Volevo che la mia cassetta fosse colorata perché volevo distinguerla da quelle dagli altri, che di solito erano tutte argentate: sapevo che la musica che conteneva sarebbe stata diversa, quindi volevo differenziarla anche nell’aspetto. Come colori il distributore aveva solo il viola, perciò ho detto “Okay, la prendo!”. Da allora il purple tape è diventato una specie di cimelio, ma per me era solo un modo per non essere confuso con gli altri rapper: la filosofia alla base della mia scelta era quella.

B: Quell’album in effetti è diventato una pietra miliare della storia del rap. È dura per te, da artista, affrontare le aspettative del pubblico dopo avere piazzato l’asticella così in alto con il tuo primo lavoro solista?

R: No, perché amo quello che faccio. Sono sempre stato bravo con le parole, e in più arrivo da un supergruppo come il Wu dove abbiamo sempre fatto le nostre cose con grande passione: quando la scuola da cui provieni è quella, ad ogni nuovo album vuoi essere bravo almeno quanto quello prima, o addirittura migliore. In sostanza cerco di tenere sempre l’asticella alta, perché questo è il mio modo di lavorare.

B: Ecco, visto che siamo in argomento: prima di questa intervista il tuo management ci ha informato che non avresti risposto a domande sul Wu-Tang Clan, né su A better tomorrow. Rispettiamo la tua scelta e non ti chiediamo niente, ma in cambio vorremmo sapere perché preferisci non parlarne…

R: Perché al momento la mia vita va da tutt’altra parte. Voglio parlare del mio album, di come mi sto elevando per arrivare al livello successivo. Voglio che la gente sappia che la mia mente e le mie energie sono concentrate su questo, al momento: ci ho lavorato per un anno e mezzo, ed è di questo che voglio che si parli.

B: Ma resti comunque un membro del Wu a tutti gli effetti, giusto?

R: Certo, sarò sempre un membro del Wu, è la mia famiglia. Quando ci siamo affacciati per la prima volta al mercato discografico abbiamo spiegato che eravamo un gruppo, ma che volevamo anche sviluppare le nostre carriere soliste: da allora niente è cambiato. Anzi, a dire il vero pianificavamo i nostri album solisti prima ancora che uscisse Enter the Wu: 36 chambers. Il Wu-Tang Clan esisterà sempre e io ne sarò sempre parte, ma al momento voglio focalizzarmi sui miei progetti.

B: Chiudiamo l’intervista con una domanda che non c’entra nulla col resto, ma che è impossibile non farti: visto che tu sei The Chef, qual è il tuo piatto italiano preferito?

R: Lasagne, ma anche pasta con pollo e salmone. È un’ottima combinazione per me.