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Johnny Roy: l’intervista

16-04-2015 Marta Blumi Tripodi

Johnny Roy: l’intervista

L’Italia è il paese dei mille borghi e dei mille campanili, ma anche dei mille talenti underground. Talenti apparentemente sotterranei, che da anni lavorano in silenzio e senza sbandierare i propri sbattimenti e i propri meriti, per amore dell’hip hop e per soddisfazione personale, accontentandosi del rispetto dei colleghi e dei veri appassionati di rap, senza inseguire a tutti i costi un successo di pubblico che spesso – soprattutto in Italia, appunto – significa poco o niente. In testa a questa folta schiera c’è senz’altro anche Johnny Roy, romano, in prima linea a rappresentare da molto prima che gli spuntasse il primo accenno di baffi. Ciononostante, con una scelta molto ponderata ha deciso di pubblicare il suo primo (ottimo) album ufficiale, Guerra santa, solo qualche mese fa, quasi vent’anni dopo aver cominciato a fare musica. Perché? Leggete il resto dell’intervista e scoprirete un punto di vista molto interessante.

Blumi: Quindi è vero, possiamo considerare _Guerra santa i_l tuo primo album ufficiale?

Johnny Roy: Sì, almeno per quanto riguarda la mia carriera solista, perché in passato avevo realizzato anche un lavoro con Don Plemo. Sono consapevole di avere aspettato un bel po’ prima di cimentarmi con un album, ma ho una visione un po’ francese della questione: sono un grande appassionato della loro scena rap e ho notato che dalle loro parti la gran parte dei dischi che sono entrati nella Storia sono stati prodotti da mc di una certa età. Pensandoci è una cosa normale, perché bisogna arrivare a una maturazione artistica e umana per avere cose interessanti da raccontare: a vent’anni non ce l’avrei fatta. Grazie a Dio facciamo il rap e non un altro genere musicale, quindi possiamo sfornare EP, mixtape, street single e chi più ne ha, più ne metta. Non c’è bisogno di stare con le mani in mano mentre aspetti di crescere! (ride)

B: Come hai deciso che questo era il momento giusto per pubblicare l’album, quindi?

J.R.: Come diciamo a Roma, ero carico a pallettoni: non potevo non farlo. Avevo voglia di cimentarmi con le mie capacità. È stata una bella fatica, anche dal punto di vista organizzativo: ho riunito un gran numero di produttori – Don Plemo, Iceone, Turi, Danny Beats, Nazo e molti altri – e anche un gran numero di mc su quest’album, e riuscire a conciliare le esigenze di tutti non è stato facile.

B: A proposito dei beat, c’è un gusto molto omogeneo dietro la loro scelta, tant’è che la prima volta che ho ascoltato il disco pensavo fossero tutti firmati dalla stessa mano…

J.R.: Ogni giorno ascolto una quantità di rap spaventosa, forse anche troppo, e l’aver creato un album che sia musicalmente coerente dall’inizio alla fine mi fa particolarmente felice. Coerente, ovviamente, non vuol dire ripetere sempre lo stesso pezzo, ma avere una linea. Per me è sempre stato uno degli obbiettivi principali: se avessi fatto un bel lavoro, ma disomogeneo, per me sarebbe stato comunque un piccolo fallimento. Detto questo, sono un fanatico dell’old school ma negli ultimi anni amo molto la trap e mi piace l’uso che ne fanno gli artisti europei: nel disco ho cercato di mettere elementi che provenissero da entrambi i mondi.

B: Facciamo un passo indietro: tu sei da anni parte di una storica crew romana, la Red Lights Ent…

J.R.: È stata fondata nel 1995 da Don Plemo e Devilman: ovviamente io ai tempi non ne facevo ancora parte, avevo solo dodici anni. Da allora si è molto evoluta, ma quello che ci lega non è mai cambiato. Negli anni, secondo me, si è un po’ perso il senso della crew come concetto: la crew per me è la cosa più importante, va oltre il genere, i soldi, il mainstream. Noi siamo una crew, non un’etichetta, e proprio per questo tra di noi c’è innanzitutto un legame umano e affettivo, prima ancora che artistico. Insieme condividiamo qualcosa che si chiama cultura hip hop, in particolare il rap. Ci teniamo ad esserci e a rappresentare, e abbiamo in serbo parecchie sorprese per voi in futuro.

B: In effetti la domanda successiva sarebbe stata quella: avete in cantiere qualcosa tutti insieme?

J.R.: Innanzitutto abbiamo tre missili – non riuscirei a definirli in altra maniera – in arrivo: gli album solisti di Cecilia Rei, Sick Rock e Pacman, l’ultimo ingresso della crew nonché il più giovane. Don Plemo, nel frattempo, sta preparando il settimo volume del suo mixtape XXX, che ha come sempre ospiti da tutta Italia e mantiene viva la tradizione dei tape di una volta. Insomma, il 2015 sarà il nostro anno!

B: Tornando per un attimo al disco, l’hai intitolato Guerra santa, un concetto astratto che in questo periodo storico rischia di tornare realtà (vedi alla voce Isis & soci). Nel tuo caso ovviamente si tratta di una guerra santa metaforica, ma non hai avuto un po’ paura di essere frainteso?

J.R.: No. Citando uno dei miei maestri, Kento, il fatto che molti terroristi islamici dell’ultimo periodo siano rapper non ci deve fare paura, ci deve solo fare capire che il rap è diventato una cultura globale ed è arrivato in ambiti in cui non ce lo saremmo mai immaginato. Il fatto che un terrorista sia anche un rapper non dovrebbe fare notizia, insomma, perché ormai il rap lo fanno tutti, dagli 11 ai 50 anni. Io, tra l’altro, sono un ateo convinto, ma sono molto interessato alle varie religioni e le ho studiate un po’ tutte. La guerra santa in senso stretto è una guerra motivata, ma del tutto inutile, perché (parlando da ateo) combatti per un’entità che per quanto mi riguarda non esiste. Io, invece, nel titolo mi riferivo a un tipo di conflitto diverso: quello che combatti contro la società per portare a casa il pane in tavola ogni giorno, ad esempio.

B: Un pezzo che colpisce molto, nell’album, è Digital Revolution, com’è nata l’esigenza di scriverlo?

J.R.: Sono una persona che ama informarsi per poter poi dire la sua, e proprio per questo motivo sentivo la necessità di fare un pezzo sulle cosiddette rivoluzioni da social network, che ormai sono sempre più diffuse. Ho usato un beat elettronico per l’ovvio richiamo al digitale del titolo, mentre a farmi compagnia al mic ho scelto due persone che considero dei fratelli, con una capacità di linguaggio eccezionale: Willie Peyote e Blo/B. All’inizio dovevano essere ospiti in due tracce diverse, ma li trovo talmente bene insieme che ho preferito ridurmi le strofe in questo pezzo per fare spazio a tutti e due! (ride)

B: Nessun velato riferimento, quindi, all’uso che molti rapper fanno dei social network?

J.R.: I social network in sé non sono da condannare: se vuoi dichiarare una posizione forte e vuoi farlo tramite i social non c’è problema, ma non puoi postare una frase o un’immagine ad effetto e poi limitarti a dimenticartene, senza dare un seguito alla cosa nella realtà. A manifestare bisogna andarci in piazza, da dietro una tastiera è fin troppo comodo. Vale la stessa cosa anche per un giornalista che scrive un articolo di protesta su un argomento e poi nel concreto non fa nulla per cambiare le cose, o per un rapper che fa 300 like per un post indignato e poi fa scelte personali che vanno in senso opposto. A volte sarebbe meglio che ci si cucisse la bocca, come dicono a Roma.

B: Un altro dei brani che rimangono più in testa è sicuramente Hitalia, in compagnia di Egreen…

J.R.: Con Nicholas volevamo fare un pezzo ignorante, cattivo, grezzo: è un mio caro amico, ci conosciamo da sempre, lo considero un fenomeno, e se fossimo un po’ meno incasinati con le nostre esistenze personali, probabilmente collaboreremmo molto più spesso! (ride) Lui è davvero un animale da live – e qui apro una parentesi, scusatemi ma io detesto i live di oggi, pettinati, della durata di mezz’ora al massimo, in cui il rapper sul palco non dà nulla al pubblico: l’esatto contrario di quello che fa Egreen, insomma – e proprio perché rappresenta lo spirito più genuino dell’hip hop, abbiamo pensato che il tema fosse azzeccato. In Italia oggi tutti cercano di sfornare una hit: io vado per i 32 anni, sono cresciuto con il writing, con l’illegalità, con il voler combinare qualcosa fottendosene del sistema. Oggi, invece, i ragazzini che si accostano al rap non vedono l’ora di entrare a far parte di quel sistema. Non so se è colpa dei ragazzini o del mercato, ma il risultato non cambia, e la cosa mi fa una grande tristezza. Mi sembra che questa fantomatica hit da ottenere a tutti i costi diventi un peso attaccato al collo. Io questo peso non ce l’ho, e devo dire che vivo benissimo.

B: La questione della hit a tutti i costi secondo me è particolarmente evidente in una grande città come Roma, che negli ultimi anni ha sfornato dozzine di giovani rapper arrivati immediatamente al “successo” dopo una manciata di pezzi su YouTube e/o un mixtape.

J.R.: La digitalizzazione ha cambiato tutto. Quando avevo tredici anni, nel ’96, se volevo fare freestyle su una strumentale pulita dovevo registrarmi dalla musicassetta le intro e le outro delle canzoni, dove l’mc non rappava, e poi ri-registrarmeli in double deck su una cassetta vergine per farne un loop. Vallo a spiegare ai ragazzini di adesso… (ride) Era impossibile aggirare la gavetta, a partire da queste piccole cose. Nel 2015 invece, non è più obbligatoria, per così dire: credo che ciascuno dovrebbe essere libero di intraprendere la propria strada, però se decidi di saltare la gavetta, di fregartene dei live, di costruire i tuoi pezzi in modo da finire in classifica, poi se ti prendi una stangata non tornare a piangere dall’underground, perché l’underground giustamente ti ricoprirà di merda. La realtà è che i numeri contano, e se c’è un mainstream in grado di reggersi in piedi con buoni numeri è perché quelli dell’underground sono ancora più vasti, fanno spavento. Se un tempo a una jam c’erano 100 persone ci sembravano una folla sterminata, oggi se fai 100 persone a una serata underground hai fatto flop: il pubblico potenziale è vastissimo. Insomma, il mainstream si deve togliere il cappello davanti all’underground, perché senza di lui non ci sarebbe mai stato un mercato.

B: A proposito di freestyle, tu hai calcato praticamente tutti i palchi più prestigiosi sulla piazza, dal 2theBeat allo Zulu Day passando per il Tecniche Perfette ed Mtv Spit. Cosa hanno rappresentato queste esperienze, per te?

J.R.: Delle gran figate! Il 2theBeat lo ricordo con grande affetto perché è stata la prima volta che ho fatto freestyle davanti a 3000 paganti: avevo 23 anni e il livello era altissimo, con me c’erano Mastino, Jack The Smoker… Appena sono salito sul palco e ho visto quanta gente c’era sotto mi sono sentito male, come se qualcuno mi avesse tirato un cazzotto alla bocca dello stomaco. Oltretutto erano tutti attentissimi, nessuno si faceva i cazzi propri: esplodevano in coro a ogni minimo trick, veniva giù il posto. Un’atmosfera irripetibile, sia da vivere al microfono che tra il pubblico. La tv è stata bella anche quella, ma per altre cose. Fai rap in una gabbia, e quando ci entri in tutto il locale (lo show è stato registrato ai Magazzini Generali di Milano, ndr) risuona un tuo pezzo: io sono un patito di wrestling, e un’ingresso del genere me lo sognavo fin da bambino! L’unico appunto che potrei fare è che forse c’erano troppi freestyle a tema, per paura che qualcuno si fosse preparato una rima da casa. Per il resto, tutto perfetto, sia in onda che dietro le quinte: essendo tutti freestyler ogni caffè, ogni joint, ogni birra, ogni pranzo si trasformava in un’occasione per fare cypha. È una droga! (ride)

B: Cambiando argomento, si dice in giro che tu abbia qualche informazione su un collettivo di nome Carati, che peraltro proprio ieri ha raggiunto le 100.000 views su YouTube…

J.R.: Chi, io? No. (ride) Non ho idea di chi siano, ne ho sentito parlare da altri, saranno i soliti sapientini del rap, ma non mi interessano. Troppe chiacchiere.

B: E infine: progetti futuri?

J.R.: Per ora ne posso parlare solo a grandi linee, ma sto lavorando a un EP con un bravissimo producer romano e una bravissima cantante: lo stiamo facendo soprattutto per noi stessi, dei numeri ce ne frega poco, e metteremo insieme tutto ciò che ci piace, cioè rap, trap, drum’n’bass, melodic dubstep e tante altre cose. Dopodiché, ti anticipo che metterò in cantiere un progetto con un altro rapper fortissimo di cui sono davvero molto contento. Nel frattempo continuo a concentrarmi sui live di Guerra Santa e sui video che usciranno (stiamo lavorando a quelli di Io & te, tu & Dio e a di Top).