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Willie Peyote: l’intervista

20-11-2014 Marta Blumi Tripodi

Willie Peyote: l’intervista

E’ difficile trovare un mc in grado di stupire davvero un pubblico di artisti e/o addetti ai lavori adulti ed esterni al rap – a onor del vero i vari Fabio Fazio, Maria De Filippi e Marco Travaglio dicono il contrario, sostenendo (a telecamere accese) di essere genuinamente colpiti dall’abilità e dalla personalità dei rapper italiani, ma sappiamo tutti il perché lo dicono, così come sappiamo che l’hip hop non varcherà mai la soglia delle loro autoradio o dei loro iPod. Nel caso di Willie Peyote, però, lo stupore c’è stato davvero; anzi, sarebbe più corretto chiamarla meraviglia. Perché, cosa rarissima in Italia, lo scorso settembre durante la finale di Genova per Voi una serie di autorevoli e colti signori seduti nella platea di un teatro hanno ascoltato un pezzo in cui potevano riconoscersi e hanno scoperto di essere capaci di comprendere e apprezzare il rap, con tanto di grida di entusiasmo alla fine di ogni rima (tutto questo succedeva con quasi tutti i brani proposti dai nostri finalisti ma in particolare con Soulful, che vi riproponiamo qui). La cosa più incredibile, a dire il vero, è che per una volta si tratta di un artista che riesce a mettere d’accordo grandi e piccini, e soprattutto interni ed esterni alla scena. Se Willie piace un sacco a chi non ascolta rap, chi invece il rap lo ascolta si dichiara quasi sempre un suo fan: impossibile non riconoscerne la classe, lo stile, l’unicità. Insomma, per farla breve: lo abbiamo incontrato un paio di settimane fa, alla vigilia della partenza del suo “Hai fatto 4 date e l’hai chiamato tour” Tour, per parlare di tutto questo e di molto altro.

Blumi: Molti tuoi colleghi e addetti ai lavori parlano di te come del proverbiale “best kept secret” italiano. Insomma, quello che non molti conoscono ma che tutti dovrebbero conoscere. Ti ritrovi in questa definizione?

Willie Peyote: Sinceramente no, però è molto bello sentirselo dire! (ride) Parlando seriamente, noto che c’è del movimento intorno alla mia persona e questo mi fa senz’altro piacere, ma non arriverei a tanto.

B: È vero però che sei in giro da molti anni, eppure solo negli ultimi dodici mesi sei finalmente salito agli onori della cronaca come meriti…

W.P.: Diciamo che quelli precedenti, per me, sono stati soprattutto dei tentativi. Ho dovuto faticare per trovare la giusta chiave di scrittura, e ho notato che l’approccio degli altri nei miei confronti è cambiato solo quando sono cambiato io. Insomma, gli ultimi anni per me sono stati un percorso per arrivare a capirmi, e stando ai risultati attuali credo di essermi finalmente capito!

B: Ecco: com’è iniziato questo percorso?

W.P.: In realtà ho iniziato suonando il basso in una band punk rock. Al rap mi sono avvicinato durante l’ultimo anno delle superiori, quando stavo per iscrivermi all’università: ho conosciuto un beatmaker e, insieme a lui e a un altro mc, abbiamo fondato il gruppo SOS Clique. Avrei sempre voluto fare il rap, fin da quando ero bambino, però vivevo in un paesino di provincia ed ero lontano da tutto e tutti, quindi non avevo contatti con quel mondo.

B: Dopodiché arrivano diversi collettivi di Torino, come il Funk Shui Project, che mescola il rap a un’attitudine più soul e a un accompagnamento strumentale…

W.P.: Esatto, loro sono arrivati in un periodo relativamente recente: sia loro che la mia SOS Clique avevamo firmato con la stessa etichetta, la BM Records. Non ci eravamo mai incontrati prima, però, nonostante questo. È andata a finire che ci siamo conosciuti per caso a un afterparty del Traffic Festival, ma io ero in condizioni tali per cui non mi ricordo neanche che cosa ci siamo detti… (ride) Il chitarrista era preso bene con la mia roba, abbiamo deciso di provare a registrare un pezzo insieme e da lì è sbocciato l’amore!

B: Tu sei sempre stato un mc molto attento all’aspetto musicale, in effetti. Forse addirittura più attento a quell’aspetto che al rap in sé e per sé, o sbaglio?

W.P.: Assolutamente, anzi, io ascolto pochissimo rap, prevalentemente italiano. Calcola che oltretutto fino a poco tempo fa ho anche suonato la batteria in un gruppo post rock, quindi ho un approccio abbastanza variegato. Se si percepisce, non posso che esserne felice: cerco di dare un ampio respiro alla mia musica, non sono il classico rapper. E sinceramente me ne vanto!

B: Il tuo ultimo lavoro ufficiale è l’album solista Non è il mio genere, il genere umano. Innanzitutto, da dove nasce il titolo?

W.P.: Molto spesso la gente chiede il mio parere su un pezzo o un disco e io, per fare un po’ il paraculo e non essere brutale, rispondo “Bello, sì, ma non è il mio genere”. Praticamente nulla è il mio genere: anzi, diciamo che il genere umano non è il mio genere… (ride) Insomma, un gioco di parole che rende l’idea del mio approccio alle cose.

B: A questo punto, però, vogliamo sapere quali sono i pezzi brutti in questione!

W.P.: Lo so che la gente s’incazzerà tantissimo leggendo questa intervista, ma sono soprattutto quelli che la gente manda via messaggio privato su Facebook a mo’ di spam autopromozionale. Mi spiace dirlo, ma sono quasi tutti brutti. Io sono fondamentalmente un buono e non me la sento di dire la verità nuda e cruda a queste persone, così uso dei giri di parole… Oggi come oggi, con i mezzi tecnici a nostra disposizione, penso che sia fin troppo facile fare il rap e quindi lo fanno tutti. E quindi ovviamente, nel mucchio, si salvano davvero in pochi.

B: Ecco, a proposito di questo: i tuoi testi sembrano molto più ragionati di quelli della maggior parte dei rapper in circolazione. Hai un metodo di scrittura particolare?

W.P.: Ci faccio molta attenzione, innanzitutto: prima di decidere che un pezzo è davvero concluso, ci lavoro parecchio. A volte sono molto ispirato e scrivo un pezzo in mezz’ora, altre volte ci metto settimane, se non mesi. Spesso capita che la prima strofa mi venga fuori subito, il ritornello anche, e poi per scrivere le altre strofe mi ci vogliono altri trenta giorni. Non saprei descriverti come faccio, e neanche quando: capita nei momenti più impensati, perché se mi siedo alla scrivania e mi dico “Ok, adesso mi metto a scrivere” non succede proprio niente. In generale peso molto le parole, comunque, il che è uno dei motivi per cui non faccio mai freestyle: è una cosa bellissima, ma non fa assolutamente per me, io ho bisogno di ponderare quello che dico nelle mie rime.

B: A proposito di songwriting: hai da poco vinto la seconda edizione di Genova per Voi, dichiarando tra l’altro che non ti aspettavi assolutamente di arrivare primo…

W.P.: Esatto, non pensavo affatto di vincere. Al di là del premio, comunque, è stata una bellissima esperienza: suonare in un teatro così serio e prestigioso è stato davvero emozionante, e inoltre ho conosciuto molte persone con cui mi sono trovato davvero bene. C’era un’atmosfera di sana competizione, come ha detto Soulcè (anche lui tra i finalisti, ndr) era più la curiosità di scoprire chi avrebbe vinto che la voglia di vincere. Un’atmosfera che ho trovato anche all’Under Festival dell’anno scorso: si parla spesso della frustrazione del mondo del rap, ma in questo tipo di occasioni io vedo soprattutto collaborazione, stima reciproca, obbiettivi comuni… La soddisfazione più grande, comunque, è stata soprattutto fare capire ai cantautori (molti dei quali giudicavano il rap in base a pregiudizi pazzeschi e puzza sotto il naso) che i nostri testi sono più profondi dei loro. Purtroppo durante la premiazione mi sono scordato di dirlo, ma andava rimarcato: a livello autorale siamo più artisti di loro, non ci limitiamo a dire yo come molti musicisti “seri” credono. Penso che a Genova abbiamo dimostrato il nostro valore con i fatti.

B: Ci siete senz’altro riusciti: durante le vostre esibizioni io ero seduta in sala con il resto della giuria e ho sentito molte mascelle cadere dallo stupore, qualcuno ti definiva addirittura “Il nuovo Jannacci”. Ti ritrovi in questo paragone?

W.P.: Ovviamente no, però mi onora moltissimo. Non credo, sinceramente, di essere il nuovo Jannacci, però è molto bello sentirselo dire… Prendo e porto a casa! (ride)

B: Il premio è un contratto di edizioni con Universal Music Publishing. Com’è stato confrontarsi per la prima volta con la realtà di una major, per un artista underground come te?

W.P.: È un’esperienza del tutto nuova: è la prima volta che mi trovo in un ufficio vero e proprio, a parlare con discografici veri e propri. Il primo approccio, però, è stato più semplice e immediato di quello che credevo. Sarà che è un bel periodo: ho vinto il concorso, mi sono licenziato, sono felice…

B: Giusto: lavoravi in un call center e ti sei licenziato proprio alla vigilia delle finali… Anche se non pensavi di vincere, come dicevamo prima!

W.P.: Non mi sono licenziato per quello, sia chiaro, ma il karma mi ha subito premiato, il che vuol dire che ho fatto bene. Anzi, forse l’ho fatto fin troppo tardi! (ride)

B: Sempre a proposito di Genova per Voi, si tratta di un concorso per autori di canzoni, ragion per cui chi vince diventa a tutti gli effetti un songwriter che scrive anche canzoni per altri interpreti. Il che, per un rapper, è abbastanza insolito. Tu come ti poni rispetto a questo?

W.P.: Mi troverei meglio a scrivere canzoni per altri cantanti piuttosto che per altri rapper, se devo essere sincero. Il rap lo trovo molto personale, perciò secondo me è più che naturale che un mc si scriva le proprie strofe da solo (anche se spesso in America questo non succede e alcuni personaggi, anche molto noti, utilizzano dei ghostwriter da decenni). Mi piacerebbe, piuttosto, cimentarmi con qualcosa di completamente diverso: scrivere per Cremonini, per Silvestri… Insomma, provare a fare quel tipo di canzoni che non scriverei mai per me stesso.

B: Non hai mai pensato, quindi, di fare il grande salto e di provare a cantare tu stesso? Oltre a suonare diversi strumenti, come dicevamo prima, hai anche una bella voce, e l’hai dimostrato sul palco del Teatro della Tosse, dove hai accennato a un pezzettino di ritornello cantato…

W.P.: Sì, sulla coda di Soulful, il brano targato Funk Shui che ho presentato in finale, mi diverto sempre a canticchiare il ritornello di If you can’t say no di Lenny Kravitz! (ride) Diciamo che non mi precludo niente, nel senso che amo molto anche altri generi musicali e li ho già sperimentati in passato, però quella di trasformarsi in cantante è una strada che sta già percorrendo qualcun altro: io non sono ancora arrivato a quel punto. Magari potrei provare a fare entrambe le cose, prima o poi, ma non canto ancora abbastanza bene, se dovessi tentare sul serio avrei bisogno di prendere lezioni.

B: Restando in tema, tu hai fama di essere un ascoltatore molto eclettico. Qualche disco che ti sentiresti di consigliare in questo periodo?

W.P.: Tutti gli album di Biggie, per imparare bene a fare il rap; il nuovo EP di Dutch Nazari, Diecimila lire, che è uscito da poco per la Giada Mesi di Dargen e secondo me è un progetto assolutamente valido e interessante; il nuovo album di Hyst, Mantra, che è davvero bellissimo. Al di fuori dell’ambito hip hop, mi limito a consigliare di fare il maggior numero di ascolti possibile, sia in quantità che in varietà. Uno dei miei album preferiti, ad esempio, è il primo degli Arctic Monkeys, Whatever people say I am, that’s what I’m not, che non avrei mai scoperto se non mi fossi preso la briga di allargare i miei orizzonti. Secondo me uno dei principali problemi del rap in Italia è che quasi nessuno ha una vera concezione della musica. In America è l’opposto: prendi gente come Tyler the Creator, ha fama di essere un ignorante ma la musica la conosce eccome, sa suonare perfino il pianoforte. Da noi, invece, ogni tanto si ha l’impressione che gli mc si limitino a mettere delle parole in rima e bella lì, tutto il resto è superfluo. Si tende a dimenticare che è un genere musicale, appunto.

B: Ecco: perché, secondo te, chi fa rap si preclude tutto il resto?

W.P.: Innanzitutto perché in Italia c’è una pessima cultura musicale di base, in generale: alle medie ti insegnano a suonare l’Inno alla Gioia al flauto e la cosa muore lì. E se per cimentarti con qualsiasi altro genere devi perlomeno disturbarti a capire come funziona la musica, per fare il rap puoi saltare del tutto quel passaggio. Come i ragazzini di oggi, che scaricano le basi da YouTube, ci cacciano sopra due strofe in rima e hanno fatto un mixtape.

B: Cambiando per un attimo argomento, in passato Torino, la città dove vivi, ha dato tanto alla scena hip hop italiana: com’è la situazione adesso?

W.P.: Esponenti validi ce n’è ancora molti, basti pensare a Ensi e a tutta One Mic, a Shade, a Fred De Palma… È una scena molto frammentaria e frammentata, però, quindi non saprei cristallizzarla in un’immagine. In questo momento secondo me non c’è più lo stesso fermento che c’era un tempo, ma qualcosa si muove: a Genova Per Voi, ad esempio, in finale c’era un altro ragazzo torinese, Lince, che secondo me vale assolutamente la pena di tenere d’occhio anche perché, essendo molto giovane, ha degli ottimi margini di miglioramento. Insomma, a Torino ci sono molte realtà valide.

B: Last but not least: progetti futuri?

W.P.: Un disco mio, un disco Funk Shui e poi, chissà. Sono in un periodo di transizione, perciò non voglio pormi dei limiti: accolgo con piacere tutto quello che arriverà.