Il titolo del documentario che vi presentiamo oggi è The piecemaker, il sottotitolo recita “Questa storia è come un puzzle” (e chi ha ascoltato almeno una volta Dalla sede degli Otierre non ha bisogno di ulteriori spiegazioni). In sostanza, prendete un regista, una ventina di ventenni, una quarantina di leggende della scena italiana (rapper, pionieri, beatmaker, dj, writer, b-boy, maitre à penser), shakerate il tutto e otterrete una miscela esplosiva: i giovani virgulti chiedono, i vecchi saggi rispondono, e il risultato finale è una bellissima, lunga intervista collettiva che racconta la scena italiana e soprattutto l’approccio con cui ciascuno vive quotidianamente l’hip hop, la spinta, la fotta. Abbiamo incontrato il regista (Gabriele Colombo), la sceneggiatrice (Voodoo Vee) e la voce narrante (Mastino) per farci spiegare il progetto. Ecco cosa ci hanno detto.
Blumi: Come nasce l’idea del documentario?
Gabriele Colombo: Io ho cominciato a interessarmi di hip hop come educatore, lavorando a un progetto del comune di Legnano che voleva promuovere il benessere dei ragazzi attraverso le quattro discipline. Abbiamo raccolto un gruppo di una quindicina di persone, tra cui molti giovanissimi come Valentina, che è diventata la nostra sceneggiatrice, e con loro abbiamo deciso di mettere in pratica un’idea che mi frullava in testa già da anni: girare un documentario sull’argomento.
B: Passiamo la parola alla sceneggiatrice, allora: Valentina, in arte Voodoo Vee…
Voodoo Vee: Come diceva Gabriele, ho partecipato a questo progetto educativo e quindi mi è venuto spontaneo lavorare anche al documentario. Il grosso del lavoro, per me, è arrivato a interviste già realizzate, perché abbiamo dovuto rivedere tutto il girato e scremare il materiale, salvando le parti più interessanti e ricostruendole attorno al tema generale: il concetto di cultura hip hop italiana.
B: E ora arriviamo alla voce narrante.
Musteeno: E che voce narrante! (detto con voce impostata da attore shakespeariano, ndr) Il lavoro che ho fatto io è stato principalmente creare un filo conduttore tra i vari capitoli del documentario. Pur avendo aderito subito al progetto ho cercato di tenermi in disparte fino all’ultimo, in modo che il mio enorme ego da rapper non intralciasse troppo la lavorazione… (ride) Quando ho finalmente ascoltato il materiale che avevano selezionato, ho avuto l’idea di trattare l’argomento parlando in maniera scientifica del concetto di energia. Così nascono i miei speech che introducono le varie scene, in maniera indiretta. Anche perché The piecemaker non è un lavoro lineare, che parte da un fenomeno e poi va dritto: i ragazzi hanno preferito sollevare alcune questioni – i valori, la condivisione, la scoperta – e far ruotare tutta la narrazione attorno a quelle. Secondo me è stata un’idea molto originale.
B: In molte altre nazioni lo strumento del documentario è parte integrante della cultura hip hop: ne esistono moltissimi che la raccontano. In Italia, invece, siamo un po’ scarsini sul tema. Perché, allora, avete deciso di tentare proprio questa strada?
G.C.: Proprio perché ce ne sono stati molto pochi! (ride) Io non ho mai partecipato attivamente alla scena hip hop, ma ho sempre avuto in testa quest’idea di girare un documentario, così quando si è presentato il gruppo di lavoro giusto ho deciso di provarci davvero. Era un win-win: i ragazzi che partecipavano al nostro progetto educativo avevano bisogno di uno strumento per conoscere meglio la cultura hip hop, mentre io avevo bisogno di mettermi alla prova e vedere se questo mio sogno si sarebbe mai concretizzato. Abbiamo cercato di fare rivivere alle generazioni più giovani il clima in cui questo fermento si è sviluppato, ma abbiamo volutamente cercato di mantenere il racconto fuori dal tempo: anche i ragazzi di vent’anni possono riconoscersi in quello che dicono gli intervistati.
B: In effetti questo è un aspetto interessante: guardando The Piecemaker ci si rende conto che avete intervistato solo persone di una certa età, per così dire…
G.C.: È stata una scelta precisa: ci siamo concentrati su chi vent’anni fa aveva vent’anni, per così dire. Per mettere a confronto l’energia, le frustrazioni, i valori dei ventenni di oggi con quella dei ventenni di allora. Se mai dovessi fare un capitolo 2 del documentario mi concentrerei invece sui ventenni di oggi, facendo le stesse domande.
M: Se ci pensi, quelli che stavano girando il documentario erano già molto giovani: non avrebbe avuto senso, per loro, sentirsi dire le stesse cose che magari già pensavano e provavano. E questo credo sia un punto a favore anche dal punto di vista della realizzazione: gli altri documentari sull’hip hop di solito sono fatti da coetanei che intervistano propri coetanei, e il risultato è che c’è molta più compiacenza e alla fine sembra un enorme spot pubblicitario. Qui, invece, c’è molta più ingenuità: gli intervistatori lo hanno fatto con grande rispetto, ma anche con un approccio fresco e innovativo, rapportandosi più alla persona che all’artista.
G.C.: L’idea iniziale era proprio quella di favorire l’incontro, e infatti la scelta scenica è stata di far comparire sempre molte persone all’interno delle varie inquadrature. In ogni intervista che abbiamo fatto partecipavano almeno 10 persone. Addirittura per l’intervista a Lugi, Moddi e Trix abbiamo organizzato una vera e propria cena tutti insieme!
V.V.: Un po’ come nel caso di una jam, volevamo vivere un’esperienza molto profonda, che ti arricchisce indipendentemente dall’età che hai. È stato tutto molto tranquillo e spontaneo, ed è stato realizzato in maniera un po’ artigianale, diciamo, senza badare troppo alla raffinatezza finale del prodotto.
B: Vee, tu hai vent’anni o poco più. Ti sei rispecchiata nelle esperienze e nelle sensazioni raccontate da questi nomi storici della scena?
V.V.: Sì e no. È ovvio che io vivo in un mondo diverso, che ha problemi diversi da quelli che magari c’erano in quel periodo, però sentirsi narrare delle esperienze che non ho mai potuto vivere è stata davvero un’esperienza molto forte. E da fan, poter incontrare tutte queste leggende del rap italiano è stato meraviglioso. Oltre ad essere dei grandi artisti sono persone molto umili, e ciascuno di loro ci ha insegnato qualcosa di importante, durante le interviste.
M: Anche perché le cose che i ragazzi hanno chiesto – ovvero di spiegare come vivevano e vivono alcuni aspetti dell’hip hop – valgono a qualsiasi età, in qualsiasi momento della vita. E non c’entra niente la nostalgia dei tempi d’oro. Tutto quello che abbiamo raccontato del nostro passato (mi ci metto anch’io, perché oltre a fare da voce narrante ho rilasciato anch’io una mia intervista) è servito a spiegare come viviamo il nostro presente.
B: Con che criterio avete scelto le persone da intervistare, tra l’altro? C’è qualcuno che avreste voluto includere e che invece nella versione finale di The Piecemaker non c’è?
G.C.: Inizialmente avevamo fatto un enorme tabellone su cui segnavamo tutti quelli che volevamo intervistare, divisi a seconda delle 4 discipline. Alla fine c’erano 150 nomi! (ride) Diciamo che in linea di principio abbiamo provato a contattarli tutti: moltissimi hanno detto di sì, altri non ci hanno mai risposto, ma l’unico no vero e proprio è stato uno solo. Ce ne sono tanti che mancano perché abbiamo avuto problemi logistici e non siamo mai riusciti a incastrare i vari impegni per realizzare l’intervista vera e propria, come nel caso di Esa o The Next One. Purtroppo a un certo punto abbiamo dovuto darci un limite: abbiamo deciso che avremmo girato per un anno, e allo scadere di quell’anno non avremmo più intervistato nessuno. È seguito un anno di postproduzione…
M: Un lavoro titanico! (ride)
B: Qual è stato l’incontro che vi ha colpito di più?
V.V.: Per me il Danno al Leoncavallo. Un’emozione fortissima, da fan! (ride) A intervistarlo siamo arrivati in quindici e purtroppo non ci hanno fatto entrare tutti nel backstage: abbiamo dovuto decidere chi restava e chi se ne andava, e già questo è stato un po’ straziante, perché eravamo tutti ansiosi di incontrarlo. Oltretutto, poi, per registrare l’intervista ci hanno fatto accomodare in una specie di camerino in cui tutti quelli che quella sera dovevano suonare aspettavano il loro turno: Kaos, Craim… Tutti lì che guardavano noi. Ci sentivamo un po’ osservati! (ride)
G.C.: Io sono l’unico che era presente a tutte le interviste, quindi è difficile sceglierne una. Ma probabilmente la più bella per me è stata quella con David Nerattini: ci tenevo tantissimo, tanto che sono andato da solo a Roma in giornata, a casa sua. Volevo assolutamente averlo nel documentario. Un’altra intervista fondamentale è stata quella con Il Banco, che è un luogo storico per il b-boying a Legnano: se loro non ci avessero dato spazio e supporto, The Piecemaker non esisterebbe neppure.
B: Il documentario è fuori già da diversi mesi e ne esiste anche una versione dvd. Come vi sembra sia stato recepito?
G.C.: Per ora di proiezioni ne abbiamo organizzate pochine: per scelta abbiamo deciso di non metterlo su YouTube, perciò per ora chi vuole vederlo deve acquistarne una copia fisica o digitale. Di critiche finora ne ho ricevute poche: la principale è stata che, oltre a includere vere e proprie leggende del rap, abbiamo intervistato anche personaggi che non conosce quasi nessuno. Anche quella, però, è stata una scelta precisa: l’idea non era raccontare come si diventa famosi attraverso l’hip hop, ma come ciascuno vive la sua passione per l’hip hop.
M: Secondo me chiunque si senta parte di questo movimento è importante. Perfino chi non si esprime con una delle quattro discipline, o addirittura chi non fa nulla e si limita a seguire.
B: Nota di folklore: che lavoro fanno, oggi, quelli che non sono diventati famosi con il rap e/o quelli che non campano solo di musica?
M: (ridendo a crepapelle) Comincio col dirti che lavoro faccio io, se vuoi: faccio l’emissionista, ovvero il tecnico che manda in onda i programmi televisivi.
V.V.: Molti fanno comunque lavori creativi o artistici. Double T ad esempio è un architetto, poi ci sono tanti grafici…
G.C.: Molti altri, durante le interviste, ci hanno raccontato la difficoltà del fare musica la sera e poi svegliarsi presto la mattina per andare al lavoro. Lo è ancora di più per quei writer che magari di giorno sono camerieri, artigiani, operai…
V.V.: Walterix lo dice apertamente: se tu vivi al 100% concentrato sull’hip hop, anche uscire dalla fabbrica la sera a fine turno diventa hip hop.
B: Una cosa che dal documentario non emerge, ma che saremmo curiosi di sapere: cosa pensano questi padri fondatori della scena italiana dell’attuale successo dell’hip hop?
G.C.: In generale abbiamo cercato di non affrontare l’argomento, per evitare l’effetto “si stava meglio quando si stava peggio”. Anzi, alcuni ce lo hanno esplicitamente detto, di non voler parlare della scena di oggi. Siamo stati fortunati, comunque: hater non ne abbiamo intervistati, anzi, quelli che hanno sfiorato il tema hanno fatto riflessioni interessanti. Prendi Maury B, che fa i complimenti ai rapper di oggi per la loro grande tecnica. O Deemo che fa i props a Rocco Hunt, quando ancora non era così universalmente conosciuto. O Nerattini, che dice basta a chi pretende che si campioni solo da vinile e apre a YouTube, purché suoni bene. Insomma, persone molto umili e positive.
V.V.: Il che in effetti era proprio lo scopo di The Piecemaker, come dicevamo prima: trovarci tutti insieme e stare bene. Anche per questo abbiamo evitato di fare domande che senz’altro avrebbero intesito un po’ la situazione.
M: Confermo: nessuno di loro ha avuto un atteggiamento distruttivo, neanche nelle scene tagliate dal montaggio finale.
B: Una cosa che voi chiedete a tutti gli intervistati, e che ora chiedo io a voi: qual è la vostra definizione di fotta?
M: La mia definizione di fotta è “VAI!”: l’atto di tuffarsi in acqua da una scogliera molto alta.
G.C.: Per me è il dubbio! (ride) La sensazione di non essere all’altezza della situazione, che però è quella che ti spinge ad andare oltre. La stessa spinta che abbiamo avuto durante la lavorazione di questo documentario, in fondo.
V.V.: Mentre giravamo ho sentito tantissime definizioni diverse di fotta, ma la mia non l’ho ancora trovata. Io la immagino come una forte spinta che parte dallo stomaco, un pugno che anziché entrarti nella pancia va verso l’esterno. Qualcosa che ti butta in una situazione con una grandissima energia.
B: Last but not least: progetti futuri?
G.C.: Ci piacerebbe fare delle micro-pillole dedicate ai libri che parlano di hip hop: ne abbiamo già girate un paio, ora vedremo come si svilupperà il progetto. Senz’altro, poi, dobbiamo citare Street Arts Academy, ideata da Mastino. È un’associazione che promuove le discipline dell’hip hop, e le promuove con la stessa positività con cui nasce il documentario.
M: Esatto. Abbiamo messo in piedi l’associazione Street Arts Academy, che ha valenza culturale: lo scopo è di far crescere le persone che ne fanno parte attraverso un buon utilizzo dell’espressione artistica. Insomma, fare e far riflettere su quello che si sta facendo. Abbiamo già dato il via a diverse iniziative, tra cui uno scambio con i ragazzi che frequentano il laboratorio del Cisim di Moder (a Lido Adriano, ndr): questa volta sono venuti loro da noi, la prossima saremo noi ad andare da loro. Insomma, tutte quelle sensazioni che sono descritte nel documentario – la positività, lo scambio tra generazioni – sono confluite all’interno di Street Arts Academy. Oltre a tutto questo, sto cominciando a lavorare al mio nuovo disco.
V.V.: Parteciperò attivamente a tutto quello che è stato detto finora, e a parte quello sto per pubblicare il mio primo EP, Basic.