L’hip hop è quello che fai, o è l’attitudine con cui lo fai? Una domanda su cui rimuginano da sempre generazioni di appassionati e artisti, e che difficilmente troverà una risposta univoca. Partire da un caso concreto, però, potrebbe essere un ottimo spunto di discussione. Ad esempio da quello di Franky B, che nasce come turntablist con i Men In Skratch (con cui peraltro alla fine degli anni ’90 sbaraglia buona parte della concorrenza internazionale ai vari campionati ITF e DMC) e si evolve verso altri lidi, diventando un apprezzatissimo produttore di musica elettronica (quest’anno è stato incoronato miglior producer italiano dal MEI, per dirne una). Quello che fa non può più essere classificato canonicamente come hip hop, ma chi è cresciuto a pane e boom bap non rinnega mai del tutto le sue origini, ed è difficile non vederne l’impronta anche quando la cassa è dritta e i bpm sono sensibilmente più elevati: a volte è davvero lo spirito che conta. Il suo ultimo album, S.E.B.A. (Sound Explicit Bassline Anthems), è uscito nell’autunno 2013 ed è un disco sorprendente sotto molti punti di vista: prendendo il meglio da una serie sterminata di generi – ivi compresa la musica napoletana, visto che il 95% degli ospiti sono partenopei – crea un’elettronica accessibile, apprezzabile, molto musicale, che ti conquista pian piano e dopo qualche ascolto ti sembra un’estensione naturale della cultura hip hop, grazie anche ai favolosi exploit di artisti come La Famiglia e Funky Pushertz. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Franky B per saperne di più sulle decine di ospiti che impreziosiscono il progetto, sul processo creativo, sul futuro dell’elettronica, sulle radici dell’hip hop e su molto altro ancora.
Blumi: Ascoltando l’album, mi sembra che l’atmosfera che si respira sia quella di certe produzioni inglesi anni ’90 che hanno forgiato l’orecchio e il gusto di molti nostri contemporanei. È effettivamente così?
Franky B: Beh, sì. Io ho 36 anni, quindi ho vissuto in pieno l’esplosione del movimento rave. In me si sono sviluppati due filoni in parallelo; da una parte quello più USA, legato alla mia passione per lo scratch e l’hip hop, dall’altra quello europeo e tecnoide, con Londra e Berlino come scene di riferimento. Sembrano due aspetti in contrapposizione l’uno con l’altro, ma in realtà Afrika Bambaataa per primo ha unito entrambe le cose con Planet rock, quindi tutto torna. O pensa anche a Paid in full di Eric B e Rakim, il cui remix più bello e famoso è quello dei Coldcut (duo inglese dedito principalmente alla musica elettronica, ndr), che arrivano da tutt’altro background. Oltretutto negli ultimi anni il mercato club, anche quello un po’ cafone, ha attecchito anche in America e ha rotto la barriera che lo divideva da quello dell’hip hop: la cosa mi fa sorridere, perché in Europa già alla fine degli anni ’80 c’erano le prime commistioni.
B: Ecco, a proposito di dj hip hop: hai iniziato con i Men In Skratch…
F.B.: Faccio una precisazione: Men In Skratch è uno state of mind, una famiglia, una foundation. Abbiamo cominciato insieme e abbiamo condiviso insieme il sogno più grande di qualsiasi ragazzo che scratcha, ovvero vincere il DMC e andare a misurarci con i più forti del pianeta al mondiale di Londra. La formazione, all’epoca, comprendeva me, Myke, Aladyn e Yaner; insieme abbiamo affrontato tutte le competizioni possibili, ma a un certo punto abbiamo preso delle strade artistiche diverse. Siamo tuttora amicissimi e rispettiamo e apprezziamo il gusto e la scelta di suono degli altri, per cui mi sento ancora parte di Men In Skratch. Ci legano delle emozioni indescrivibili: è difficile spiegare com’è passare tutta la vita a sognare di fare qualcosa che poi magicamente si realizza. Ho collezionato per anni tutte le videocassette del DMC, solo che in quella uscita nel 2000 c’era la nostra foto sul retro: immaginati che soddisfazione! (ride)
B: Secondo te perché così tanti dj hip hop virano verso l’elettronica, ultimamente?
F.B.: Credo sia cambiata proprio l’ortodossia del fare djing. Io risulto molto talebano, perché lo intendo come un’arte marziale; le famose ruote d’acciaio, le wheels of steel, sono importantissime per me. Oggi come oggi, invece, nella migliore delle ipotesi l’unico outboard che i dj usano è un lettore cd, il che ha trasformato radicalmente la situazione. Anch’io nei miei dj set utilizzo un sistema di time code, Traktor, ma lo utilizzo come se fosse una borsa di dischi: nella maniera più manuale possibile. Tornando alla tua domanda, non credo che ci sia mai stata una separazione netta tra hip hop ed elettronica, almeno per i dj: house music e beat rap hanno le stesse modalità di produzione, per dire. C’è sempre stato un fil rouge che collegava le cose. Solo in Italia per tanti anni si sono erette delle barricate insormontabili, e chi ammiccava a ambiti non propriamente hip hop veniva visto come un outsider. Prima del mondiale mi ritrovai a fare una battle a Napoli con gli Scratch Perverts, e ricordo una chiacchierata sul fatto che loro facevano routine utilizzando roba degli Square Pusherz o della Ninja Tune. Quando poi ci ritrovammo alla gara e li vidi all’opera, mi resi conto che il turntablist è un vero e proprio musicista; e come ogni musicista, può suonare qualsiasi genere applicando la stessa disciplina e la stessa tecnica. Non bisogna rinchiuderlo a vita nel recinto hip hop. Anche perché, a ben guardare, il primo scratch di tutti i tempi è stato realizzato su un brano di Herbie Hancock (dal titolo Rockit, anno 1983, ndr), non propriamente un rapper…
B: Nel tuo disco infatti ci sono un sacco di atmosfere diverse, dal dub alla drum’n’bass passando per dubstep e hip hop. In generale, tu cosa ascolti? Consigliaci qualche disco…
F.B.: Io ascolto davvero qualsiasi cosa, anche quelle veramente improbabili! (ride) Ad esempio, stamattina stavo cercando di entrare nel mood del mio prossimo viaggio in Tanzania e ho messo in play gli Staff Benda Bilili, un collettivo del Congo formato da musicisti poliomelitici e paraplegici, che però fanno anche i biker grazie a una serie di moto customizzate incredibili. Capisco che possa sembrare tutto molto naif, raccontato così, ma fanno della musica davvero pazzesca! (ride). Per quanto riguarda invece ascolti più vicini al mio disco, trovo molto convincente l’album di I Am Legion, il progetto congiunto di Noisia e Foreign Beggars, anche se dal vivo mi sono sembrati un po’ deludenti. Amo molto la deriva tech, nel senso più lato del termine, che stanno imboccando artisti come Deetron, Scuba o Swindle e etichette come 50 Weapons; atmosfere post-dubstep con strutture e bpm che si avvicinano alla techno, insomma. Adoro le cose che arrivano dal nord Europa, un’elettronica molto nerd, tipo Daughter. Parlando invece del rap, ho amato moltissimo l’ultimo mixtape di Pete Rock e Camp-Lo, 80 blocks from Tiffany pt. II, che ascolto continuamente. Ho adorato anche l’EP di Kool & Kass, Peaceful solutions. Ma in generale rispetto all’hip hop ascolto soprattutto roba molto underground, tipo Despot o Mr. Motherfuckin Esquire: apprezzo quel suono ruvido e complesso. Ti dico invece quello che non mi piace: odio la trap. Quando gli americani vogliono appropriarsi delle subculture musicali UK non ce la fanno mai. Quel modo molto squillante di trattare gli hi-hat, quella tendenza a mettere il basso solo sulla cassa per farla pulsare, quei rap un po’ trascinati, non li trovo efficaci. Anzi, li trovo davvero un po’ cafoni. Detto ciò di italiano, come avrai capito alla fine di questo elenco, ascolto molto poco!
B: Ecco, parlando di Italia: moltissimi rapper italiani, se provi a dar loro un beat non tipicamente hip hop, te lo restitiuscono dichiarando di non essere capaci di rapparci sopra. Quelli che hai convolto tu, invece (Polo e Sha-One de La Famiglia e Funky Pushertz) hanno un flow spettacolare e sembrano nati per rappare su strumentali simili. Da cosa dipende: dal fatto che sono napoletani, dal fatto che sono dei fuoriclasse…?
F.B.: Il napoletano sicuramente facilita, foneticamente parlando, ma non è un alibi, nel senso che è molto più importante quello che dici e come lo dici. Ci tengo a sottolineare, comunque, che tutte le persone che sono su S.E.B.A. sono miei grandissimi amici. Sono cresciuto con La Famiglia abbiamo suonato spesso dal vivo insieme, in passato. Per noi napoletani loro sono The Originators, quelli che hanno mostrato la via a tutti gli altri. In Italia sono al pari dei Run-DMC: i loro concerti trascendono le generazioni, e riescono ad arrivare anche a gente che magari non era ancora nata quando è uscito il loro primo album, che tutti conoscono a memoria nonostante non si trovi più in giro da anni. Metricamente sono avantissimo, soprattutto Sha One: è un linguista, studia fonetica, fa teatro da sempre ed è convinto, come me, che un mc non debba rappare basandosi solo su se stesso, ma che debba interagire con il beat come farebbe un vero musicista con il resto della band. Quindi, quando io disegno una bassline, lui mi fa da contrappunto con la voce. Polo invece è un istrione, per cui insieme abbiamo pensato di fare un omaggio all’hip house. Piccola curiosità: quello che sentite nel brano non è un campione. Abbiamo risuonato tutto per potere essere competitivi anche all’estero, dove se non hai la sample clearance (autorizzazione all’uso legale dei campionamenti, che spesso è molto lunga e costosa da ottenere, tanto che solo pochi possono permettersela, ndr) non ti pubblicano il disco. Tornando agli mc, i Funky Pushertz invece mi sembravano i più simili alla scena grime UK: loro ascoltano jungle, fanno anche reggae e hanno un sound system che si chiama Torreggae, da Torre Del Greco, la loro città. Ci tenevo che da questo disco emergesse la napoletanità della mia musica, insomma, ed è anche per questo che ho scelto proprio loro: naturalmente ci sono molti altri mc che apprezzo, tipo Esa, i Colle Der Fomento, Kaos, Lugi e molti altri.
B: A proposito della napoletanità degli ospiti, raccontaci qualcosa di alcuni nomi coinvolti e magari non troppo conosciuti da chi vive altrove e/o da chi non ascolta hip hop. Partiamo da Pietra Montecorvino.
F.B.: Per noi napoletani è una specie di divinità pagana. Vincitrice del Premio Tenco nel ’91, ha recitato con Arbore e Benigni ed è stata protagonista del film culto Passione di John Turturro. È una delle voci più importanti e sottovalutate che abbiamo in Italia, e in America impazziscono per lei. È una donna incredibile, bellissima, con un’immagine molto forte e un sacco di sfumature mistiche, e lavorare con lei era da sempre il mio sogno: oltre ad avere un’estensione vocale pazzesca è come se fosse dotata di un Moog incorporato, ha la distorsione naturale. Non ero sicuro che avrebbe accettato, perché giustamente è una signora che fa musica da decenni e suona in tutto il mondo, e quando mi sono presentato da lei dicendo “Salve, faccio il dj” avevo davvero paura della sua risposta! (ride) Invece ho trovato una grande apertura mentale e una persona dolcissima, e il risultato credo si senta. Stiamo già lavorando al video del brano, che si intitola Senza core.
B: La seconda persona di cui ti volevo chiedere è Bop Singlayer…
F.B.: È un vero e proprio genio che spero che riesca ad affermarsi in tutta Italia, perché spesso finiamo per essere talmente esterofili da non vedere i talenti che abbiamo in casa nostra. Anche conosciuto come Phutura, è un santone del synth, un nerd allo stato terminale, che per anni ha prodotto musica per etichette techno pazzesche. Colleziona microsynth, macrosynth e macchine di ogni tipo: è un personaggio molto schivo, e il fatto che abbia accettato di essere parte del mio disco è stato un traguardo personale importantissimo, per me. Il pezzo si chiama I malandrini perché sono un grandissimo nerd anch’io, e così insieme abbiamo deciso di stilare una specie di Mappa del Malandrino della sintesi musicale, sulla falsariga di quella di Harry Potter. (ride)
B: Last but not least, Monsi Du Six.
F.B.: Altro grandissimo personaggio, nella vita fa il diplomatico, ma è anche un rapper cazzutissimo e un designer, tanto che presto presenterà la sua linea di foulard. Ci conosciamo da quindici anni. All’epoca suonavo al Mumu, un locale minuscolo che a Napoli era il cuore dell’hip hop, e ogni sera vedevamo arrivare questo ragazzino che non c’entrava davvero nulla con il contesto: bellino, boccoloso, con addosso un montgomery da bravo bambino, sempre da solo in mezzo a tutti noi fetenti del rap. Una sera venne a complimentarsi per i miei scratch e scoprii che era francese e si trovava a Napoli perché si era innamorato della città, tanto da mollare Parigi e venire a fare l’università da noi. Qualche tempo dopo ci fu una battle di freestyle; mi rendo conto che sembra la trama di 8 Mile, ma lui salì sul palco (vestito da damerino come suo solito), prese il microfono e spaccò il culo a tutti, lasciandoci scioccati. Da allora l’abbiamo praticamente adottato, fondando una specie di collettivo insieme a Lucariello, Nto’ e Luché. Dopo la laurea è andato a vivere a Scampia, un posto che ha sempre amato molto, perciò siamo rimasti in contatto. È una persona che ha dato molto alla scena rap di Napoli e lo reputo qualcosa più di un semplice mc: è un talento naturale. Basti pensare che in En français dans le texte prendiamo in giro gli stereotipi degli inglesi sui francesi, e lui rappa in una lingua strana, spuria, imitando il modo in cui gli inglesi pensano che si parli francese.
B: Cambiando argomento, il disco è dedicato al tuo amico Sebastiano, che è mancato qualche mese fa. In che modo il suo ricordo ha influenzato l’album?
F.B.: Era più di un fratello per me: ci conoscevamo già a Napoli, ma mi ha aiutato moltissimo anche quando mi sono trasferito a Milano, perché anche lui viveva qui. Sono stato accanto a lui fino al suo ultimo giorno di vita. La nostra amicizia non c’entrava nulla con la musica: suonava la chitarra, ma fondamentalmente era un ingegnere elettronico. Però mi piaceva l’idea di dedicargli il mio lavoro, trasformando il suo nome in un acronimo che rappresenta il mio suono. So che anche la sua famiglia è stata molto felice della mia iniziativa. Oltretutto io, da buon napoletano, sono un po’ scaramantico, e quindi mi immagino che magari Sebastiano in questo momento si sta pigliando nu cafè con San Gennaro e una mano me la può dare! (ride)
B: Non mi resta che chiederti i progetti futuri…
F.B.: Innanzitutto abbiamo in programma di girare altri due video, uno a Napoli e l’altro a New York. E poi, ovviamente, spero di suonare tanto, non solo come dj: visto che S.E.B.A. è un disco corale, vorrei riuscire a strutturare un live che porti sul palco la sua essenza. La mia prossima data è il 30 novembre a Napoli, cosa che mi emoziona parecchio, perché suonare a casa propria è sempre meraviglioso. Questo album è un progetto assolutamente folle della mia etichetta, l’italianissima Black Marigolds: in un ambiente esterofilo come quello della musica finisci per essere ignorato da tutti, dal giornalista all’opinion leader al trendsetter, perché tutti preferiscono spingere l’ultimo sconosciuto di Dusseldorf piuttosto che gli artisti locali. Speriamo di riuscire a ribaltare questa tendenza!