Di Mandibola Records vi avevamo già parlato lungamente, ma ecco un riassunto per i più distratti. Cominciamo dall’inizio, ovvero dalla Irma Records, la prima etichetta a volere investire nel rap italiano (cominciarono a pubblicarlo e a distribuirlo nel lontano 1991). Nel 1995 la label decise che i tempi erano maturi per creare una sotto-etichetta dedicata unicamente all’hip hop: Mandibola Records, appunto, che pubblicò i primi lavori dei Colle Der Fomento nonché il seminale disco di Ice One B-boy maniaco. La Mandibola chiude ufficialmente le attività alla fine degli anni ’90, ma l’anno scorso riapre i battenti in grande stile, innanzitutto con la ristampa del sopra citato B-boy maniaco, ma anche cominciando a reclutare altri artisti. Nomi interessanti e di qualità, che non strizzano l’occhio al mercato ma cercano di portare avanti un discorso coerente con la cultura hip hop nel senso più alto del termine. Abbiamo intervistato i primi due artisti ad essere entrati a far parte del roster: Murubutu e Fetz Darko. Il primo è attivo dal 1991 con la sua storica crew La Kattiveria, ed è uno dei “cantastorie” più apprezzati anche al di fuori della scena rap. Il secondo si è fatto conoscere negli anni ’90, quando ha iniziato a farsi strada nel rap prima militando in un gruppo al fianco di Noyz Narcos e poi entrando a far parte del Rome Zoo. Cediamo la parola a loro.
Blumi: Tu fai rap dal ’91, eppure occupi da sempre una sorta di nicchia underground nell’underground: a parte i fervidi sostenitori di un certo sottogenere di rap, ancora oggi non sei globalmente conosciuto…
Murubutu: Io ho cominciato a fare rap in quella che è stata l’alba dell’hip hop italiano: ho attraversato la fase delle posse, l’invasione west coast, la crisi del 2000 e quest’ultima rinascita. Nonostante questo, però, non ho mai avuto la possibilità di dare alla mia musica un’esposizione commerciale reale, e quindi è stato più difficile diffondere il mio messaggio; in secondo luogo, io stesso – soprattutto all’inizio – non mi sono mai sforzato tanto di far girare il mio nome, al di fuori della mia città e della mia regione. Oltretutto faccio un genere molto particolare, che non penso sia per tutti. Un po’ come succede per la cultura: tutti ne vengono toccati in qualche modo, ma non tutti la approfondiscono nella stessa misura. È giusto che sia così: la musica dev’essere per tutti, ma lo sarà a livelli differenti per ciascuno.
B: Il tuo si potrebbe definire una sorta di storytelling in chiave italiana. Cosa cambia rispetto allo storytelling d’oltreoceano, quello di Slick Rick e soci, per intenderci?
M: Innanzitutto ci terrei a dire che in Italia lo storytelling ha dei precedenti molto illustri, se si pensa ai cantautori o comunque alla musica d’autore. In America qualsiasi mc famoso ha fatto almeno un brano di storytelling, ciascuno a suo modo, ma quasi tutti riguardano storie di strada. I miei, invece, molto difficilmente parlano di strada, o comunque quando lo fanno non raccontano certo di gangster e simili: non è una realtà che vivo, quindi non è quello che m’interessa raccontare.
B: Quello che ti è riuscito meglio, secondo te?
M: A La collina dei pioppi sono molto affezionato, per via della tematica resistenziale che sento molto mia. Ma direi Anna e Marzio su tutti, che a differenza di altre mie canzoni non è ispirata a nessun romanzo o racconto di terzi, ma è completamente mia: ha anche vinto il secondo premio al Concorso Nazionale per Cantastorie, cosa che mi rende particolarmente fiero, perché in tutti questi anni ad aggiudicarsi il podio erano sempre stati cantautori folk.
B: Ecc o, appunto: tu ti senti più vicino a un cantautore o a un mc?
M: Mi sento esattamente nel mezzo! Credo che sia questa la mia particolarità, faccio un po’ da ponte generazionale tra i due generi.
B: Il tuo è stato definito “rap didattico”. Ti ci riconosci?
M: Sì, certo. Innanzitutto perché sono un insegnante, cosa che influenza molto il mio lato artistico. E poi perché il mio primo album pubblicato con la mia crew, La Kattiveria, era composto da canzoni che avevano perlopiù velleità didattiche, cioè insegnare concetti culturali veicolandoli attraverso un mezzo accattivante come quello del rap. Abbiamo avuto molte soddisfazioni in questo senso: spesso, quando suoniamo nei centri sociali o in contesti socialmente impegnati, ci dicono che i nostri testi sono una risorsa per i migranti o i figli di immigrati, che hanno un vocabolario italiano ristretto e grazie alle nostre canzoni imparano parole e concetti nuovi.
B: A proposito de La Kattiveria, due parole su questa storica crew emiliana?
M: La Kattiveria è stato il primo gruppo hip hop di Reggio Emilia. Nel corso degli anni ha cambiato la propria line-up, ma è rimasto sempre in attività: è formato da un gruppo di amici, prima di tutto, che parlano poco di rap e moltissimo di altre cose, ragion per cui ci piace sì andare alle jam, ma anche a teatro, ai seminari, alle conferenze eccetera eccetera. È un approccio che purtroppo oggi non hanno in molti: spesso vedo i ragazzi giovani fissarsi su un unico argomento, che di solito è l’hip hop, senza provare mai a contaminarlo anche con altro. È un peccato, perché l’hip hop dovrebbe essere un punto di partenza e non un punto d’arrivo.
B: I ragazzini di oggi li conosci bene perché nella vita fai il professore di filosofia alle superiori. I tuoi studenti sanno che fai anche il rapper?
M: Fino a poco tempo fa, prima dei social network, riuscivo a tenerlo segreto. Adesso è veramente difficile! (ride) Anche perché subentrano meccanismi tipo i gruppi “spotted” (nati per alimentare il gossip fai-da-te, vanno fortissimo tra gli studenti di superiori e università: sono bacheche virtuali in cui i membri segnalano che il tal professore o il tale compagno di scuola è stato beccato alla tal ora a fare la tale cosa, ndr) ed è impossibile mantenere l’incognito. Comunque oggi vivo la cosa con molta serenità: non c’è niente di male nel fare anche il rapper e non me ne vergogno, anzi, spesso mi aiuta, perché i ragazzi mi vedono sotto una luce diversa.
B: Infatti la domanda successiva sarebbe stata proprio questa: come ti vedono?
M: Quelli che mi danno più soddisfazione, ovviamente, sono quelli che si prendono la briga di ascoltare i miei pezzi e di apprezzarne il testo trovando nuovi stimoli. Poi ci sono anche quelli che dicono “Bella lì, il prof fa anche il rapper!” e si aspettano di trovare un tizio molto meno rigoroso: quando poi scoprono che sono comunque un insegnante serio e severo, smettono di interessarsi alla mia carriera parallela! (ride)
B: Cambiando argomento, due cose hanno accomunato i tuoi dischi negli anni: un titolo piuttosto altisonante e una copertina che richiama quella di una celebre collana di libri, i Classici Mondadori. Come mai?
M: Perché sono in qualche modo raccolte di racconti che si ispirano alla letteratura. Mi hanno chiesto spesso il perché ho scelto di rifarmi proprio alla copertina di quella collana, legata a una certa figura socio-politica, ma voglio rassicurare tutti: non sono un berlusconiano! È solo che ho sempre amato i Classici Mondadori, sia dal punto di vista del progetto grafico che rispetto ai titoli che proponevano. Dal prossimo album, però, ti annuncio in anteprima che pur continuando a ispirarmi alla copertina di un libro, cambierò casa editrice! (ride)
B: Com’è nata la tua collaborazione con la rediviva Mandibola Records?
M: Sono stati loro a contattarmi. Cercavano dei nomi nuovi per rilanciare l’etichetta, e mi ha fatto particolarmente piacere il fatto che abbiano scelto non tanto degli artisti di richiamo, ma gente che poteva dare all’hip hop qualcosa in più, rispetto alla sovraesposizione mediatica.
B: Fai pubblicità al tuo ultimo album La bellissima Giulietta e il suo povero padre grafomane: perché la gente dovrebbe ascoltarlo?
M: Per la ricerca sempre più acuta di una sintesi tra stile e contenuto, per la maggior componente melodica rispetto ai miei lavori precedenti e, almeno lo spero, per un miglioramento dal punto di vista del ritmo narrativo.
B: So che te lo chiedono tutti ma rassegnati, te lo chiederò anch’io: hai in progetto di scrivere anche un romanzo, prima o poi?
M: In effetti mi ha contattato una piccola casa editrice di Modena e mi sarebbe piaciuto pubblicare con loro una raccolta di racconti, ma credo che finché farò dischi sarà difficile occuparmi anche di libri. Anche perché ho due figli, un lavoro e una vita abbastanza piena, come tutti, del resto. Diciamo che mi tengo la scrittura per quando sarò un po’ più grande! (ride)
B: Progetti futuri?
M: A breve uscirà un mixtape insieme a La Kattiveria, nonché un nuovo video, mentre più avanti abbiamo deciso di realizzare già un altro album, più precisamente un concept album, perché sono tutti racconti che parlano del mare, che uscirà tra dicembre e gennaio. Anche il resto della crew è al lavoro: a breve, ad esempio, uscirà il nuovo disco del Tenente, che è tutto in dialetto reggiano, e quello di U.G.O..
B: Last but not least: consigli di lettura per giovani rapper.
M: Innanzitutto il libro di un mio giovanissimo collega che insegna italiano, Matteo De Benedittis: si intitola Cantami o dj e spiega la metrica attraverso i testi dei cantanti italiani, tra cui anche diversi rapper. Dal punto di vista letterario, invece, ultimamente sto leggendo molto Cesare Pavese, che secondo me tutti dovrebbero leggere.
Blumi: Partiamo dalla fine: come sei approdato a Mandibola Records?
Fetz Darko: Mi hanno contattato loro, cosa che mi ha fatto molto felice: li conoscevo già perché sono stati i primi a credere nei Colle Der Fomento e a pubblicare i loro lavori. Ho cominciato a lavorare con loro per questo mio ultimo album, Lotta medievale.
B: Che è un concept album, se non ho capito male…
F.D.: Non proprio: nasceva come concept album, ma poi man mano si è trasformato in qualcosa di diverso. Inizialmente avevo scritto molti testi incentrati sui problemi della società (guerre, politica…), ma in realtà nel lavoro finito ci sono molti brani puramente stilistici: ho preferito abbandonare un po’ l’idea di partenza e fare qualcosa di più rilassato e d’impatto. Anche se per me il rap non è solo divertimento, ovviamente, anzi, è interessante imparare qualcosa dalle canzoni che ascolti.
B: Perché hai mantenuto il titolo Lotta medievale, però?
F.D.: Basta guardarsi intorno: tutte le notizie che ci giungono e le voci sul Nuovo Ordine Mondiale fanno pensare a una cospirazione e a un ritorno a un’era buia e drammatica. Ci vogliono inculcare l’idea che l’era moderna sia un periodo prospero, ma non è proprio così.
B: Si parla spesso di Illuminati nella musica (e anche nel rap). Tu cosa ne pensi?
F.D.: Personalmente non saprei. Circolano parecchie voci sull’argomento: non so se sono vere o no, ma i messaggi e i simboli veicolati in alcuni video fanno davvero pensare che ci sia qualcosa di serio dietro, che ci hanno tenuto nascosto finora e che sta emergendo lentamente solo nell’ultimo periodo.
B: Tornando per un attimo al passato, in quanto membro delle Scimmie del Deserto hai fatto parte del Rome Zoo, una crew davvero leggendaria per chi è cresciuto negli anni ’90. Com’era essere parte di una realtà così prestigiosa?
F.D.: Noi tutti siamo cresciuti con il mito dei Colle Der Fomento, che è stato il primo gruppo romano a farsi un nome. Il Rome Zoo era innanzitutto un collettivo di amici, tutti molto giovani, che giravano l’Italia per suonare riscuotendo un grande successo: noi siamo stati un po’ la “seconda ondata”, abbiamo fatto il nostro ingresso nella crew quando era già affermata a livello nazionale. Eravamo i fan dei Colle che realizzavano il loro sogno, una seconda generazione di affiliati. È stata una vera palestra, che ci ha messo a confronto con rapper più esperti e professionali e ci ha permesso di crescere molto. Ne siamo usciti per motivi personali che ora non ha senso stare a raccontare, però i ricordi restano sempre bellissimi.
B: Qual è quello che ti resterà sempre nel cuore?
F.D.: Sicuramente quello delle trasferte: erano le nostre prime esperienze in live grandi e fuori dalla nostra città, con i freestyle collettivi a fine serata, tutti ad alternarsi sul palco… Era molto bello sia da fare che da vedere.
B: A proposito della tua città, Roma è una delle più vivaci, quanto a scena rap. Come mai, secondo te, c’è così tanto fermento?
F.D.: Penso che ci sia molto fermento in tutte le principali città italiane, in questo momento, ma effettivamente Roma è un calderone in continua ebollizione, con un suo stile ben definito. Non so spiegarti il perché, ma effettivamente c’è una gran scena underground, con uno spirito di sfida molto spiccato, senza grandi aperture verso il commerciale. Forse anche perché non ci sono neanche molte etichette disposte ad investire nel rap, nella nostra città.
B: E se dovessi consigliarci qualche nome nuovo da ascoltare?
F.D.: Sicuramente Achille Lauro, che è già piuttosto noto nel suo ambiente. In effetti molti si stanno trasferendo a Milano per firmare con diverse etichette importanti…
B: Tu sei sempre stato molto fiero delle tue origini di borgata. In questo periodo un sacco di gente sostiene di arrivare dalla strada pur non provenendo assolutamente da lì: tu come ti poni nei confronti della cosa?
F.D.: Io cerco sempre di capire perché le persone fanno determinate cose: insomma, non li odio, al limite mi fanno un po’ tenerezza. Io stesso non mi pongo come un gangster, mi limito a dire che abito a Tor Bellamonaca e vivo una situazione di borgata. Ho avuto la possibilità di andare a scuola e quindi ho avuto anche una determinata educazione, ma ho anche vissuto la strada, cosa che mi ha permesso di capire certi meccanismi.
B: Progetti futuri?
F.D.: Con il mio gruppo, i Giuda Fellas, stiamo lavorando al nostro nuovo album, che dovrebbe uscire nella primavera 2014. Stiamo cercando di fare le cose con calma perché vorremmo evitare di scimmiottare lo stile americano di moda al momento e creare qualcosa di davvero nostro. A parte questo, sto facendo vari featuring in giro e, nel frattempo, vorrei cominciare a lavorare anche al mio nuovo album solista. I tempi di lavorazioni sono un po’ lunghi, però, perché faccio anche da beatmaker e quindi ovviamente le cose sono molto più lunghe.