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Quando Rolling Stone parla di rap

06-08-2013 Marta Blumi Tripodi

Quando Rolling Stone parla di rap

È agosto, in giro non succede proprio nulla di nuovo, o almeno così pare: perfino nel rutilante mondo del rap tutto tace. Finché non comincia a diffondersi in sordina, soprattutto da alcuni status su Facebook trasudanti fastidio (come l’Uomo Methodo, cit.), la notizia che Rolling Stone Italia è in uscita con un numero dedicato al confronto tra rock e rap, e che l’argomento rap sembra essere stato trattato quantomeno con una certa superficialità. I primi a occuparsene, e a segnalare la cosa con una certa legittima indignazione, sono i colleghi di Myhiphop.it: e dopo aver acquistato il numero in edicola e aver letto almeno la parte riguardante il rap, ci sentiamo di accodarci alla loro “protesta” e di spiegare anche noi il perché lo facciamo. Difficilmente la redazione – e soprattutto la direzione – di Rolling Stone leggerà queste nostre righe, ma in caso succedesse speriamo che le prendano a mo’ di lettera aperta e come spunto di discussione, perché l’intenzione è questa.

Specifichiamo innanzitutto che stiamo parlando di una sezione di diverse decine di pagine, che non è stata evidentemente scritta tutta dalla stessa persona; non tutti gli autori sono egualmente competenti. Le eccellenze ci sono (le sezioni curate da Maurizio Ridolfo aka Rido o da Alioscia dei Casino Royale che intervista la Machete sono ottime, come è facile immaginare), ma purtroppo la gran parte dei contributi non porta la firma di chi li ha scritti, quindi non riusciamo a fare dei grandi distinguo. Nel complesso, comunque, il pollice verso è davvero d’obbligo, e non per fare i puristi per forza o per difendere a tutti i costi la bandiera del giornalismo hip hop. Il punto è che probabilmente nessuno che ascolti hip hop e sia al di sopra dei vent’anni – o al disotto dei 40, il che ormai paradossalmente per certi versi rischia di essere la stessa cosa, a livello di visione distorta del fenomeno – si riconoscerà in quelle parole, in quel ritratto, in quella scelta di canzoni e feticci.

La prima sezione dedicata all’hip hop è quella che enuncia le 50 migliori canzoni rap di tutti i tempi. Qui non c’è molto da scandalizzarsi, ma c’è senz’altro da constatare che si tratta di scelte talmente “facili” e poco settoriali che chi le ha fatte non sembra essere un ascoltatore abituale di rap. Magari lo ha ascoltato per un po’ negli anni ’90, quando andava di moda, o magari ha ricominciato ad ascoltarlo adesso per approfondire il fenomeno sulla bocca di tutti; o ancora, magari ha apprezzato quei pochi dischi che sono arrivati anche alle orecchie del pubblico rock negli anni ’80 e ’90. Il giornalista musicale generico che cita i Public Enemy o i Run-DMC in un discorso di solito lo fa con lo stesso grado di competenza con cui io citerei i Clash, ovvero più o meno zero: sì, Rock the Casbah suona da Dio, sì, Spanish Bombs spacca ed è una protesta contro la guerra, sì, so che il frontman si chiama Joe Strummer, ma esaurite queste tre nozioni in croce non sono in grado di articolare un ragionamento senza l’aiuto di Wikipedia. O meglio, posso dirti perché i loro dischi mi piacciono, ma non so dirti come mai siano importanti per l’evoluzione del punk, perché la verità è che il punk non lo conosco affatto, non l’ho vissuto, non lo capisco e onestamente mi fa pure un po’ schifo. Il che non è certo un crimine, ma proprio per questo motivo evito di recensire dischi punk: so di non sapere. Così come senz’altro lo sanno tutti quelli che da generazioni citano i Public Enemy o i Run-DMC, in genere a sproposito.

Passiamo poi alla vera pietra dello scandalo all’interno della scena hip hop: la lista delle 10 migliori canzoni rap italiane. Qui potremmo confezionare un’intera enciclopedia di obiezioni. Andiamo nell’ordine della classifica: numero uno, Fight da faida di Frankie HI-NRG Mc. Sarebbe interessante capire perché scelgono come brano più rappresentativo di un genere ormai quasi trentennale una delle canzoni meno amate in assoluto dagli amanti del genere, peraltro scritta da uno dei rapper meno rappresentativi di suddetto genere. Posizione numero due: Fabri Fibra, Tranne te. Tra le decine di brani importanti, evoluti, complessi e validi della produzione di Fibra, perché scegliere proprio il più vuoto di significato e di valore artistico? Posizione numero tre: Serenata rap di Jovanotti. Difficile immaginare che chi l’ha piazzata lì NON sapesse che si tratta di una canzone pop (pure bruttina), che non rispetta nessuno dei canoni attuali, passati o futuri del rap, e che Jovanotti non ha mai fatto parte della folta schiera di pionieri che hanno contribuito a gettare le fondamenta del genere. Posizione quattro: Brucia ancora dei Club Dogo, vedi ragionamento relativo alla posizione numero due. Si potrebbe andare avanti ancora per molto, perché salvo Chiedi alla polvere di Marracash e Cani sciolti dei Sangue Misto, tutto il resto è altrettanto discutibile. E perfino dove la scelta dell’artista è azzeccata (vedi Ensi o Salmo) la scelta del brano è sbagliata o mal giustificata. Già, perché ogni brano in classifica è accompagnato dalle argomentazioni che hanno portato a quella scelta, che però rischiano di sembrare più un deterrente che un incoraggiamento.

In conclusione: tutti noi tifiamo perché il giornalismo musicale continui a vivere e prosperare, intellettualmente ed economicamente. E tutti noi siamo estremamente felici che il rap non sia più considerato un genere di serie B, alla buon’ora. Solo che nessuno ha voglia di leggere il ragionamento di un giornalista che non sembra particolarmente ferrato in quello che dice. Non giova né alla reputazione del rap italiano che si ritrova rappresentato da Jovanotti, né alla reputazione di Rolling Stone che si ritrova rappresentata dal giornalista che ha scelto Jovanotti. Un appello ai media: se volete parlare di rap studiate e approfondite l’argomento, oppure subappaltate il lavoro a qualcuno che ne sappia davvero, magari controllando prima che lo ascolti effettivamente e non che se ne vanti e basta tra un cocktail e l’altro al Cape Town. O almeno, fatelo se davvero credete che il rap sia un genere di serie A, e non una moda passeggera per ragazzini del terzo millennio. Guadagnerete un sacco di lettori fedeli, maggiorenni e appassionati, nonché la gratitudine degli artisti di cui vi occupate. In caso contrario, guadagnerete solo delle lunghe e combattive lettere aperte da gente che non conoscete e che non ha niente di meglio da fare nelle sue serate di agosto, come la sottoscritta.