I produttori italiani che hanno pubblicato un album avvalendosi della collaborazione di mc americani sono ormai piuttosto numerosi. Viceversa, per gli mc di casa nostra approdare oltreoceano è molto più complicato: siamo particolarmente orgogliosi, quindi, che a riuscirci siano stati proprio Bassi Maestro e Ghemon, due eccellenze assolute del made in Italy che non potrebbero rappresentarci meglio di così all’estero. Per chi è innamorato dell’hip hop, è impossibile non innamorarsi anche di Per la mia gente, un EP che trasuda passione per la materia in tutte le sue componenti. Nato da un’idea di Marco Polo, che l’ha prodotto interamente, è molto più di un ponte che unisce le due sponde dell’Atlantico. E’ la realizzazione di un sogno, sia per le tre persone coinvolte che per tutti coloro che da sempre ci credono e, da semplici ascoltatori o da protagonisti, lo tengono vero: la gente del titolo, appunto. Abbiamo incontrato Bassi, Ghemon e Marco al termine di un lungo live di Radio2 per Babylon (il podcast potete scaricarlo da qui, tasto destro e salva con nome) per parlare, soprattutto e innanzitutto, dei luoghi inaspettati dove la musica può portarti, se solo hai la pazienza e il coraggio di seguirla.
Blumi: Marco, come hai conosciuto Ghemon e Bassi e perché hai deciso di realizzare un EP proprio con loro?
Marco Polo: Ho conosciuto Ghemon, che io chiamo Gianni, circa sei anni fa: mi aveva contattato via mail, gli avevo dato un mio beat e avevamo registrato un pezzo insieme. Non ci eravamo mai incontrati di persona, però, almeno fino a quando non sono venuto a suonare a Torino un paio di anni fa. Bassi, invece, l’ho incontrato in tour: io ero il dj di Masta Ace, lui suonava con i Beatnuts. Da allora siamo rimasti sempre in contatto. Ci siamo incontrati di nuovo a New York qualche tempo fa ed è venuto a trovarmi nel mio monolocale, a Brooklyn. Ci siamo seduti, abbiamo parlato a lungo e a un certo punto mi si è accesa una lampadina: perché non facciamo un EP tutti e tre insieme, e poi non lo portiamo in tour in Italia? È strano: di solito nella musica i progetti procedono molto lentamente, ma in questo caso è stato tutto semplice e immediato. Ho lanciato la proposta, loro si sono subito trovati d’accordo, lo abbiamo registrato e, quattro mesi dopo, eccoci qui, a suonare in giro per l’Italia con un gran bel tour da 15 date, come da piani! Sono davvero felice di avere avuto questa idea… (ride)
B: Che cosa rappresenta questo progetto per ciascuno di voi?
M.P.: Per me, a parte il semplice fare della buona musica, questo EP ha molti diversi livelli di lettura. Sul piano emotivo significa tantissimo perché mi mette in contatto con l’Italia, dove i miei genitori sono nati. Essere in tour qui mi dà la possibilità di imparare qualcosa sulla mia cultura di origine, cosa che non ho mai avuto occasione di fare prima.
Bassi Maestro: Anche per me rappresenta moltissime cose. Innanzitutto sono contento di aver potuto concretizzare la collaborazione con Ghemon, anche a livello di scrittura, che avevamo cominciato nel disco con Shocca. E poi, lavorare sul piano internazionale è una grande soddisfazione; soprattutto se si tratta di farlo con Marco, visto che entrambi siamo suoi grandissimi fan. Secondo me è la prova che l’hip hop ha una caratteristica peculiare: quando ti dimostri capace di fare qualcosa ad alti livelli, tutto è possibile. Nel mio caso andare in tour con i Beatnuts, uno dei miei gruppi preferiti di sempre, o lavorare con gli M.O.P., o suonare a New York… Fare hip hop è la cosa che mi piace di più in assoluto, e mi ha regalato tanti traguardi da ricordare e grandissime emozioni. Non ultima, come diceva Marco, quella di fare della buona musica con persone che condividono la mia stessa visione delle cose.
Ghemon: Per me è un po’ la chiusura di un cerchio: mi rivedo da ragazzino, in una piccola città come Avellino, fantasticare su qualcosa del genere. Non solo su un disco con un famoso producer americano, ma su tutto il contesto in cui questo progetto è nato ed è stato registrato. Quando eravamo negli States per lavorare all’EP una sera siamo andati al Sutra, un club piuttosto celebre, in cui quella sera suonava Erick Sermon. Il dj resident era Tony Touch: ha riconosciuto Bassi e lo ha salutato, proprio mentre in sottofondo partiva la canzone che mi ha fatto innamorare dell’hip hop, Flava in ya ear di Craig Mack. In quel momento ho toccato il cielo con un dito: ero a New York per lavorare con alcuni dei pesi massimi italiani e americani, e nel frattempo mi divertivo e respiravo quell’atmosfera che per anni avevo solo sognato e immaginato… Un’emozione incredibile. Questo conferisce a Per la mia gente un valore affettivo fortissimo, per me. Più avanti, magari, mi renderò conto anche di che cosa questo disco avrà rappresentato per gli appassionati e gli altri membri della scena italiana: per me, per ora, è soprattutto un’esperienza meravigliosa e un ricordo che mi porterò dentro per sempre.
B: L’EP è fuori solo in Italia o uscirà anche in America?
B.M.: In versione digitale è fuori in tutto il mondo.
M.P.: La versione fisica, invece, esiste solo in Italia, ma sono sicuro che ormai con Internet tutti siano in grado di procurarsi quello che vogliono, ovunque essi siano…
B: Bassi, Ghemon, voi due siete percepiti dal pubblico come due rapper molto diversi, però avete anche un’ottima intesa e un approccio in qualche modo complementare alla musica. Tutte queste differenze esistono davvero o sono solo nella testa degli ascoltatori?
B.M.: Marco dice che siamo il giorno e la notte o, come è venuto fuori una volta, lui è one cock e noi two balls… (ridono tutti)
M.P.: Forse, se lo traduci in italiano, suonerà un po’ meglio!
B.M.: Cazzate a parte, le differenze senz’altro ci sono, ma poi quando suoniamo dal vivo insieme la gente conosce comunque a memoria i pezzi e le strofe di entrambi, che venga a vederci perché è fan mio o suo. Secondo me questo è sintomatico di una cosa: andiamo tutti e due a pescare nella stessa tipologia di pubblico. È chiaro che non si tratta delle stesse persone che apprezzano alcuni gruppi rap usciti ultimamente, un po’ più “facili”, musicalmente parlando: però è gente che conosce e apprezza entrambe le nostre discografie – magari le conosce da sei mesi appena, ma le conosce. Un punto di contatto tra noi due c’è: non so definirti esattamente quale, ma esiste.
G.: C’è sicuramente un nucleo comune, che probabilmente è una questione di verità e purezza nei confronti di questa musica: magari io sperimento su un versante e Bassi su un altro, ma l’approccio autentico e genuino è lo stesso. Molte persone mi hanno detto che era strano immaginarci fare rap insieme, ma che si sono ricredute nel momento in cui hanno sentito i risultati o ci hanno visto sul palco. È soprattutto il live a funzionare: ci tengo a dire che non abbiamo costruito i pezzi a tavolino per suonarli dal vivo, ma sicuramente abbiamo provato a immaginarci come sarebbero venuti fuori, e credo che i risultati si vedano.
B: Ghemon, la domanda che tutti si fanno e vorrebbero farti: non molto tempo fa avevi dichiarato che avresti smesso con il rap, almeno nel senso più tradizionale del termine, e ora sei qui, a presentare un EP dal sound che più classico non si può…
G: Poco dopo aver fatto quelle dichiarazioni mi ha telefonato Bassi da New York per tirarmi in mezzo con questo progetto, che è la classica proposta talmente allettante che non la puoi rifiutare, quindi ho in qualche modo “messo in pausa” la mia pausa dal rap tradizionale. Comunque, non mi rimangio niente di quello che ho detto: come avevo già spiegato, il mio rapporto affettivo con l’hip hop è strettissimo, resterò sempre un fan e continuerò sempre ad ascoltarlo e, occasionalmente, a farlo. Bassi lo sa: ti sembro uno che si è rotto il cazzo del rap?
B.M.: No, anzi: ascolti solo quello!
G: Esatto. Quindi, mi limito a ribadire che musicalmente ho bisogno di nuovi stimoli e che, se la gente avrà la pazienza di aspettare, capirà cosa intendevo quando ho fatto quel famoso annuncio e trarrà le sue conclusioni. È inutile parlarne: sono sereno perché amo la musica e con quella risponderò sempre.
B: Bassi, rigiro la domanda a te. Tu sei uno che nel bene o nel male non ha mai smesso di fare rap: hai tenuto duro anche in periodi di carestia assoluta, quando molti tuoi colleghi per disperazione abbandonavano la nave. Ti è mai capitato di pensare di smettere, o semplicemente di cambiare?
B.M.: A parte agli inizi, vent’anni fa, quando ero molto purista, non mi sono mai tirato indietro di fronte alle contaminazioni musicali e agli esperimenti, di qualsiasi tipo. La gente, però, non ha mai recepito e apprezzato il fatto che io possa andare oltre l’etichetta che mi hanno cucito addosso, quella dell’hip hop tradizionale. Io non sono solo questo, e continuerò a produrre di tutto. Certo è, però, che l’hip hop è la cosa che mi piace di più in assoluto, il genere che nella mia gerarchia personale sovrasta tutti gli altri, quindi no, non ho intenzione di smettere di farlo; e in tutto quello che farò ci sarà sempre qualcosa di hip hop, volente o nolente. Non posso farne a meno. Se mai mi vedrete smettere di fare rap, sappiate che sarà perché ho trovato qualcosa, nella vita, che mi regala tanto quanto mi regala adesso questa musica. Detto questo, se sali in macchina con me è possibile che nell’autoradio ci sia Sean Price o che ci sia il cd dei Change (band disco-soul italoamericana degli anni ’80, il cui primo cantante fu Luther Vandross, ndr). Sono molto aperto.
B: Marco, tu non parli italiano. Com’è stato lavorare con due mc di cui non capivi le liriche?
M.P.: Un’esperienza un po’ strana! Di solito funzionava così: quando mandavo un beat, loro ci registravano sopra un provino e me lo rimandavano indietro, spiegandomi via mail l’argomento del pezzo. Non ho una vera e propria traduzione parola per parola delle strofe, però. Ma mi piacerebbe averla! O in alternativa, se riuscirò mai a imparare l’italiano, cosa che spero, magari tra cinque anni capirò finalmente da me cosa dicevano i pezzi… (ride)
B: E a quel punto magari scoprirai che i pezzi parlavano di tutt’altro, rispetto a quello che credevi tu…!
M.P.: Esatto, magari parlano di fare sesso con le capre. Come posso saperlo?
B.M.: Tranquillo, c’è solo una canzone in cui si parla di fare sesso con le capre. Tutte le altre sono a posto. (ridono tutti)
M.P.: Scherzi a parte, mi fido molto di loro come artisti, e la cosa che mi è piaciuta di più del lavori fatto con loro è stato che siamo tutti persone molto diverse, ma comunque complementari: è un incontro-scontro tra mondi differenti, ma alla fine tutto ha senso, se ascolti l’EP.
B: Come funziona invece di solito, quando lavori con un mc di lingua inglese? Intervieni anche sul contenuto dei brani?
M.P.: Assolutamente. La gente che mi conosce sa che sono sempre molto coinvolto nei progetti in cui lavoro: questa è la prima volta che non posso farlo a causa della barriera linguistica, ma lavorare con me può essere un incubo o un’esperienza totalizzante, a seconda di come la vedi (ride). Non sono un beatmaker, sono un produttore, perciò non succede mai che io dia un mio beat a un rapper e gli dica di rappare di quello che vuole… La maggior parte degli artisti è felice del mio coinvolgimento, perché dimostra quanto ci tengo. Ad alcuni però non piace, soprattutto a quelli dotati di un enorme ego, che vogliono fare la loro roba senza che il producer eserciti alcun tipo di controllo.
B: Beh, a questo punto vogliamo i nomi…
M.P.: Sono troppi! (ride) E comunque non li farei mai: what happens in the studio stays in the studio. Però posso raccontarti la storia di un particolare beat: quello che ho creato il giorno in cui è morto Guru, il cui mood era ovviamente influenzato da questo evento. L’ho mandato a Talib Kweli, gli ho spiegato il contesto in cui era nato e gli ho chiesto se per favore poteva evitare di rappare su argomenti stupidi o leggeri: volevo che il testo avesse un significato profondo. E così è stato. Uscirà nel mio prossimo album, quindi non vi svelo di cosa parla…
B: Cambiando argomento, Bassi, in Rap vero sei molto critico nei confronti dell’attuale situazione dell’hip hop…
B.M.: Mi fa piacere questa domanda, perché in molti mi chiedono cosa significa quel pezzo e sfrutto volentieri quest’intervista per chiarire la questione. La seconda strofa è effettivamente dedicata a questo, però non parlo nello specifico di rap italiano, ma di rap in generale; o meglio, di quello che ci viene propinato ultimamente. Al momento al rap – ed è un discorso riferibile a quello italiano e internazionale, mainstream e underground – manca qualcosa che una volta era la sua forza: la personalità e il carattere. Gli artisti sono copie di copie di copie; succedeva anche negli anni ’90, ma visto che l’hype attorno al fenomeno era minore, non era così evidente e disturbante. Nel pezzo faccio una serie di nomi a titolo di esempio positivo: Emis Killa per me rientra tra questi, perché il suo modo di proporsi rispecchia al 100% la sua personalità. È uno zarro, nel senso buono del termine, e una persona molto spontanea, e se senti il disco (che piaccia o che non piaccia) riconosci che è in grado di comunicarti il suo mondo e tutto quello che ruota attorno ad esso: non è artefatto, è proprio così. Molti ragazzini di oggi lo imitano, così come molti imitano Salmo, Gemitaiz e altri che cito. Essere originali e autentici, per me, è la chiave per riportare il rap di oggi ad un livello superiore. E, soprattutto, per garantire longevità a questo genere: se sei la copia di qualcuno che esiste già, magari arrivi in classifica e ci resti una settimana, ma l’anno dopo nessuno si ricorda più di te. Il discorso, ovviamente, potrebbe valere per qualsiasi altro genere musicale, ma è particolarmente vero per l’hip hop, visto che attualmente i media approfittano di questo picco di entusiasmo del pubblico per gonfiare anche artisti vuoti. Non fraintendetemi: il fatto che ci sia un momento di grande visibilità per il rap è ottimo. Un anno fa magari non saremmo neanche arrivati in classifica, con un EP del genere (Per la mia gente è approdato ai piani alti della classifica generale di iTunes, un risultato che difficilmente un progetto rap underground ottiene, ndr). L’importante è saper approfittare di questo periodo con intelligenza.
B: Marco, approfitto per chiederti: che idea ti sei fatto della scena hip hop italiana e delle sue leggendarie polemiche?
M.P.: Gli eventi che coinvolgono la scena rap italiana accadono ovunque in maniera più o meno simile: negli Stati Uniti è un po’ diverso, ma nella scena di Toronto, ad esempio, la situazione non è molto diversa. Non c’è grande unità e, come capita qui, gli artisti litigano spesso tra di loro. Non sapevo fosse così anche in Italia, solo ora comincio a rendermene conto, soprattutto grazie a cose che mi raccontano le persone che incontro. Prima di incontrare Ghemon e Bassi, avevo conosciuto la scena italiana praticamente solo tramite un gruppo che mi aveva segnalato mio cugino: gli Articolo 31…
G: Al di là delle solite storie che vedono tutti noi coinvolti a turno, penso che alcune realtà dell’hip hop italiano siano comunque una grande famiglia; penso a Blue Nox e a Unlimited Struggle, innanzitutto, perché sono quelle di cui ho conoscenza più diretta, ma ce ne sono tante altre.
M.P.: Assolutamente, ho visto anche tanta unità. Anche perché, di solito, quando si litiga lo si fa soprattutto per delle stronzate. Non c’è mai un vero scopo, nell’aprire una faida: il 90% delle volte in cui i rapper si scontrano, lo fanno per motivi stupidissimi. Per quanto mi riguarda, quando sono incazzato per qualsiasi motivo, preferisco impiegare quell’energia negativa nel fare un beat.
B.M.: Tu fai un beat e noi scriviamo rime…
M.P.: Probabilmente, però, questa saggezza arriva con l’età, perché quando sei giovane litigare fa parte del processo di ribellione che attraversiamo tutti. E con Internet la situazione peggiora, perché a leggere certe cose c’è da impazzire, ti verrebbe da rispondere a tutti insultandoli.
B: Tutti e tre siete molto tradizionalisti e abitudinari, nelle vostre collaborazioni: Marco lavora spesso con Torae, Bassi con Sano Business, Ghemon con Blue Nox e Unlimited Struggle. Com’è stato lavorare in un progetto con partner così diversi?
M.P.: Per me è stata una gran bella esperienza, è andato tutto liscio come l’olio!
B.M.: In realtà io, anche se sicuramente si tratta più o meno sempre dello stesso ambiente, negli ultimi anni ho sperimentato già diverse volte questa sensazione: ho fatto un disco con Babaman e uno con Shocca, confrontandomi con tante situazioni diverse. In questo caso abbiamo lavorato molto bene anche perché siamo tre persone molto precise e sgobbone…
M.P.: Esatto: per me lavorare con persone che non hanno un ego enorme è sempre un piacere. E in questo caso è andata proprio così: ci ascoltavamo a vicenda e cooperavamo davvero per arrivare a un risultato. Il problema sorge quando cominci ad avere a che fare con gente che impone la propria volontà su quella di tutti gli altri, rifiutandosi di cambiare idea.
G: Lavorare in studio è la cosa che mi piace di più in assoluto: avere trovato altre due persone – Bassi in particolare – workaholic come me è stato una manna dal cielo. Per fare un esempio, qualche sera fa eravamo a cena tutti insieme, e ci eravamo ripromessi di finire a un orario prestabilito per poi ricominciare a lavorare. Essendo noi tutti pignoli, siamo riusciti a rispettare questi orari, abbandonando la cena all’ora giusta anziché restare a cazzeggiare a tavola; se al loro posto ci fossero stati altri colleghi, probabilmente mi avrebbero dato della persona stressante per il semplice fatto di voler rispettare la tabella di marcia! (ride) In generale, comunque, è stato un gioco a incastri per trovare la quadra e creare un sound che rispecchiasse le personalità artistiche di tutti e tre. E credo che ce l’abbiamo fatta, a giudicare dal risultato.
B: Progetti futuri?
M.P.: Ho un disco in uscita, dal titolo Marco Polo’s Port Authority 2. Non mi piace definirlo una compilation: è un vero e proprio album con diversi mc, tutti americani e canadesi. Uscirà a febbraio o marzo e vede la collaborazione di Talib Kweli, Pharoahe Monch, M.O.P., Kardinal Offishall e tanti altri. Non vedo l’ora! Sto anche lavorando a un progetto con Hannibal Stax, un mc della Gangstarr Foundation, e nel frattempo ho registrato il nuovo inno dei Brooklyn Nets, la squadra di basket, cosa di cui sono molto felice. Inoltre, spero che la collaborazione con i due ragazzi qui presenti continui a lungo. Spero che questa non sarà l’ultima volta che sentite parlare di questo trio. Magari per il prossimo album ci daremo alla techno… (sghignazzano tutti)
B.M.: Io sto lavorando a molti progetti paralleli in studio, sia miei che di altre persone; tendenzialmente non mi fermo mai, ma dopo questo disco vorrei prendere qualche mese di pausa per capire meglio la direzione da prendere in futuro.
G: Io ho almeno un disco pronto, ma non uscirà, perché sono ancora in una fase di riflessione, diciamo: i miei ultimi tour mi hanno portato moltissimi nuovi stimoli, e credo di dover rispondere a quelli, prima che a tutto il resto. I miei artisti preferiti di solito sfornano un album nuovo ogni due anni: anche se il mercato è cambiato, non vedo perché non uniformarmi ai loro standard… (ride)