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Speciale Marracash: l’intervista

26-12-2008 Marta Blumi Tripodi

Speciale Marracash: l’intervista

Le interviste di Hotmc (o almeno, il 90% di esse) hanno una particolarità: prima di essere pubblicate, vengono sempre approvate e/o integrate dall’intervistato. In questo modo, gli artisti sono sicuri che il loro pensiero sia da noi riportato correttamente e i lettori possono godere di un valore aggiunto: la viva voce dell’interpellato. Ogni tanto, però, questo metodo crea dei ritardi nella pubblicazione di un articolo: ed è questo il caso della nostra chiacchierata con Marracash. Lo abbiamo intervistato l’estate scorsa, quando il suo album era uscito da appena un mese: purtroppo, però, a causa dei suoi molti impegni è riuscito a darci l’ok per la pubblicazione solo a autunno inoltrato. A quel punto, sia noi che lui avevamo concordato sulla necessità di realizzare un supplemento d’intervista, per renderla più attuale e aggiornata. Sfortunatamente, anche questa volta i rispettivi calendari ci hanno impedito di ritagliarci un momento per farlo. Noi della redazione, però, pensiamo che l’articolo meriti comunque di essere letto, così abbiamo pensato di proporvelo come regalo natalizio. Ci auguriamo quindi che apprezzerete questa breve chiacchierata con Marracash che, lo ricordiamo, si è svolta negli studi della Universal nel giugno 2008. Per informazioni più aggiornate sull’artista rivelazione del 2008, vi suggeriamo di visitare il sito www.marracash.it, che ha appena aperto i battenti.

Blumi: Domanda più che scontata: ti aspettavi questo riscontro di pubblico? L’altro giorno, e giuro che è vero, ho perfino sentito l’ex presidente Cossiga commentare Badabum Cha Cha alla radio…

Marracash: Oddio, sul serio? (ride). Diciamo che, più che altro, non mi aspettavo assolutamente l’effetto tormentone. Speravo che il singolo andasse bene e fosse apprezzato, ma mai mi sarei immaginato che Badabum cha cha facesse così presa sulla gente.

B: Come è iniziato il tuo rapporto con la Universal? È proprio vero che, come dice il testo di Badabum Cha Cha, eri conteso da tutte le major?

M: Sì, è vero. Durante il boom dell’hip hop di un paio di anni fa, quando le major cercavano nuovi rapper da reclutare, io non avevo firmato nessun contratto. Anche perché, devo dire, all’epoca non ero ancora molto conosciuto. A un certo punto, però, nell’ambiente discografico ha cominciato a girare la voce che ero tra i pochi mc validi ancora liberi: come per magia, tutte le più grandi etichette hanno cominciato a cercarmi. Ho ricevuto parecchie proposte, non solo dalle major che cito nel pezzo, ma anche da label come la Sugar di Caterina Caselli, ad esempio.

B: Come mai hai scelto la Universal, alla fine?

Perché in un periodo di profonda crisi del mercato discografico, la Universal mi sembrava una delle poche a potermi garantire qualcosa. Molte realtà sono a un passo dal fallimento, perciò ho preferito puntare sul sicuro. Il direttore della Universal Italia, poi, ci teneva moltissimo ad avermi in squadra. Mi ha chiamato decine di volte per convincermi ad affidarmi a loro… Mi hanno dato l’impressione di tenere davvero alla mia presenza. A distanza di qualche mese, posso dire di trovarmi molto bene. E comunque, sfatiamo un mito: le major non sono come molti le dipingono. Nessuno ti dice cosa fare: se sapessero cosa fare lo farebbero da loro, senza bisogno di scritturare nessuno. Ho avuto totale libertà artistica, non solo dal punto di vista musicale, ma anche per quel che riguarda la grafica dell’album e il video di Badabum cha cha.

B: A proposito, che significato ha la grafica del disco?

M: È una giungla urbana e ciascun personaggio ha un suo significato nell’ecologia del quartiere. Il serpente che s’insinua sussurrando è l’informatore, il gorilla che conta i soldi fa il grosso… L’idea, comunque, mi è venuta dopo aver coinvolto gli elefanti nel video di Badabum Cha Cha.

B: Già che ci siamo, toglimi una curiosità: hai davvero portato un elefante in Barona o è un videomontaggio?

M: È tutto vero, lo giuro! (ride) E a dire il vero gli elefanti erano due, un maschio e una femmina. Abbiamo dovuto spostarli insieme perché quando sono soli si agitano. Mentre io giravo in groppa alla femmina, il maschio si aggirava per il set incazzatissimo, facendo più danni di Godzilla. Non ti dico la gente: tutti affacciati alle finestre, sconvolti… Manco a farlo apposta, poi, gli elefanti si sono prodotti in un paio di gag fantastiche. Hanno quasi allagato una strada per fare pipì, si sono mangiati un albero intero (con tanto di zarro che ci urlava “Oh, minchia, non gliela farai mangiare tutta la pianta!”) e a un certo punto uno dei due si stava sedendo su una macchina, ma fortunatamente siamo riusciti a fargli cambiare idea!

B: Sei arrivato qui con un prodotto già finito oppure hai lavorato all’album dopo aver firmato il contratto?

M: All’etichetta avevo fatto sentire semplicemente dei provini, che poi ho rielaborato utilizzando i mezzi che mi hanno messo a disposizione, ma avevo già concepito il grosso dell’album. Non tutto, chiaramente: Badabum cha cha, ad esempio, è nata dopo.

B: Il tuo è il primo caso di artista hip hop italiano il cui disco è stato rubato e diffuso illegalmente su internet, con largo anticipo, oltretutto. La cosa ti ha dato solo fastidio o ti ha anche reso un po’ orgoglioso (per la prima volta nella storia un album di rap italiano ha riscosso così tanto interesse)?

M: Ovviamente da un lato mi ha reso orgoglioso, perché evidentemente c’erano aspettative altissime sul mio lavoro. D’altra parte, però, è stato frustrante: alcune persone hanno tenuto un comportamento vergognoso. Certo non speravo che la gente evitasse di scaricare l’album, una volta che è finito in rete, però speravo almeno che evitassero di diffonderlo il più possibile. La cosa più svilente è che la versione che gira online è addirittura un pre-master, suona malissimo e la tracklist è stata inventata di sana pianta. Studiare il disco nei minimi dettagli è stata una fatica inutile, insomma, perché il mio primo biglietto da visita è stato un file zip messo insieme alla meglio e finito online… È stato un incubo. Chi pensava a una mia trovata pubblicitaria non ha capito niente. Alcuni caricavano addirittura i pezzi su Youtube credendo di aiutarmi a promuovere il disco e non li sfiorava neppure l’idea che mi stessero facendo un torto. Dopo tutta la fatica che ho fatto per arrivare fino a qui mi è sembrato di morire, pensavo di essere rovinato. Fortunatamente, anche se è impossibile quantificare il danno, nonostante tutto le vendite stanno andando piuttosto bene.

B: Avete almeno idea di chi possa essere stato a rubare il disco?

Interviene Emanuela Redaelli, dell’ufficio promozione Universal: L’indagine è ancora aperta. Abbiamo consegnato al PM che se ne occupa una lista di quattro possibili nomi e confidiamo di venirne a capo al più presto. La Universal non ha ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali sulla vicenda perché ancora non è chiaro cosa sia successo: non appena avremo il quadro della situazione, lo
faremo senz’altro.

M: Ovviamente non sono interessato a punire i ragazzini che hanno scaricato l’album, ma ho tutta l’intenzione di capire chi ha dato inizio a questa storia. Stiamo cercando “la talpa”, per dirla in termini polizieschi. Vorrei comunque rinnovare il mio invito a non scaricare il file che gira su internet, soprattutto perché non è il disco così come l’avevo concepito, ma una versione che non avrei mai voluto vedere circolare.

B: Tornando a parlare di musica, il tuo album è molto variegato: sei riuscito a mettere insieme varie componenti del tuo essere artista, accostando il testo più zarro alla canzone d’amore. È una scelta precisa o un caso?

M: È molto facile colpire il pubblico con un disco esclusivamente hardcore: è più immediato, arriva subito al punto. Mettersi davvero a nudo nel proprio lavoro è molto più complicato. Volevo realizzare uno di quei dischi che immediatamente diventa un classico, perciò ho preferito non focalizzarmi troppo su un aspetto, una tematica o uno stile. Non a caso si intitola Marracash: volevo che abbracciasse tutti i lati della mia personalità. Faccio fatica a prendere sul serio quegli artisti che si presentano sempre incazzati o sempre positivi: la vita di ciascuno di noi è costituita da molti aspetti diversi, non è realistico immaginare che una persona sia sempre uguale a se stessa. Marracash ha avuto una gestazione molto lunga, è stato scritto in diversi periodi della mia vita ed è proprio per questo che è così vario e, almeno dal mio punto di vista, così reale. Estate in città, ad esempio, è stato davvero scritto durante un’estate a Milano. In caso contrario, non avrei saputo catturare il sapore di quel momento.

B: Estate in città, tra l’altro, è un brano particolarissimo sotto tutti i punti di vista: metrica, testo, argomento e anche beat, dato che è firmato sia da Donjoe che da Deleterio. Perché hai scelto di differenziarlo così tanto da tutto il disco?

M: Non saprei come risponderti, è venuto così e basta. Boh! (ride) Il mio approccio alla musica è molto spontaneo, non c’è un vero e proprio ragionamento dietro alle mie scelte. Quando mi metto a scrivere non penso né alla metrica né al tiro che voglio dare al pezzo: quelli sono dettagli che emergono da soli man mano che ci lavoro. Oltretutto, io non la sento così diversa dal resto dell’album. Dal mio punto di vista, brani come Tutto questo o Trappole sono molto più sperimentali. Forse è una cosa soggettiva: a volte la sperimentazione sta nell’orecchio dell’ascoltatore, più che nelle intenzioni dell’artista.

B: Parlando ancora dei brani, come mai rifare Chiedi alla polvere a distanza di anni? Hai un legame particolare con questo pezzo?

M: Senza falsa modestia, Chiedi alla polvere è piaciuta davvero tantissimo, a me e agli altri: quando ero uscito con Roccia Music era stato il brano che era rimasto più impresso. Riusciva ad arrivare a persone molto diverse tra di loro, dal ragazzino esaltato all’adulto a digiuno di rap, passando per l’addetto ai lavori. Mi sembrava giusto riproporlo a un pubblico più ampio di quello di Roccia Music. Come se non bastasse, Chiedi alla polvere è una delle ragioni per cui la Universal ha cominciato a interessarsi a me: il direttore era letteralmente innamorato di quel pezzo.

B: Bastavano le briciole è il pezzo più intimo e personale dell’intero album. Com’è stato scriverlo e registrarlo? Immagino che aprirsi così non sia molto semplice, soprattutto quando sai per certo che finirà su un album destinato a un mercato enorme…

M: In realtà non è stato difficile. È stato uno dei primissimi pezzi a cui ho lavorato e, come molti brani di questo tipo, è stato scritto di getto. È stato tutto abbastanza immediato, si può dire che sia venuto fuori da solo. Mi ha aiutato anche il fatto che in genere non mi preoccupo di cosa succederà quando l’album sarà uscito: scrivo e basta, è una cosa che faccio per me, più che per gli altri. L’unico aspetto che mi interessa è che il risultato finale mi soddisfi. Oltretutto, io non sono uno di quegli mc che registra trenta pezzi per poi scegliere quali scartare e quali no. Il disco include praticamente tutto ciò a cui ho lavorato nell’ultimo anno, per cui era giusto andare fino in fondo.

B: Va bene scrivere per te stesso, ma davvero non c’è mai stato neanche un po’ di panico da grande pubblico, mentre lavoravi al tuo primo disco per una major?

M: Beh, chiaramente mi capita di pensare che ora molte più persone ascolteranno ciò che dico, ma la mia reazione è una sola: sto ancora più attento a non dire minchiate (ride). Penso al pubblico soprattutto quando parlo di tematiche delicate: non mi va di essere frainteso, né di dire cose non vere o di mancare di rispetto a qualcuno, perciò peso molto di più le parole. Mi faccio più scrupoli per un pezzo come Fatti un giro nel quartiere, che descrive una realtà che appartiene a molta gente, piuttosto che per Bastavano le briciole, che parla solo della mia esperienza personale.

B: Quella di rifare Fatti un giro nel quartiere, tra l’altro, è una scelta rischiosa se si vuole essere apprezzati anche dallo zoccolo duro dei b-boy fieri. Già la collaborazione con J Ax poteva non essere accolta bene; decidere addirittura di rifare un brano con una forte connotazione di strada, ma uscito sull’album più “commerciale” in assoluto degli Articolo 31, significa prendere una posizione radicale agli occhi di qualcuno…

M: Quando nel 1996 è uscito Così com’è, che conteneva Fatti un giro nel quartiere, ha avuto un tale successo che è arrivato davvero a tutti. E la gente normale se ne frega della street credibility, giudica solo in base a ciò che un pezzo riesce a trasmettere. A parte questo, mi sembrava giusto fare un tributo agli Articolo 31: in passato moltissimi artisti hanno voluto omaggiare la old school italiana, ma misteriosamente gli Articolo 31, che hanno fatto più di molti altri per la scena hip hop, sono rimasti esclusi da questo riconoscimento. I Club Dogo hanno rifatto Cani sciolti e anch’io ho voluto fare la mia parte. Mi sembra, però, che la situazione stia migliorando un po’: fino a pochi anni fa J Ax era considerato esclusivamente un venduto, mentre ora anche la scena ammette il suo immenso valore di rapper e di pioniere. Vedo anche una certa somiglianza tra il suo percorso di artista e il mio: anche se musicalmente siamo molto diversi abbiamo lo stesso approccio spontaneo al rap, evitiamo ciò che è troppo costruito. Ax è l’opposto di mc pur validissimi come Kaos, che mettono lo studio al di sopra di tutto; mi riconosco molto nel suo modo di lavorare.

B: Oltretutto gran parte del tuo album è stato registrato proprio in Best Sound, l’etichetta che da sempre produce gli Articolo 31 e l’intera Spaghetti Funk…

M: Tutte le voci sono state registrate e mixate nello studio della Best Sound, che è uno dei più competenti d’Italia per quanto riguarda l’hip hop. Umberto Zappa, storico fonico della Best Sound, ha fatto un lavoro eccezionale. Per masterizzare, invece, siamo andati a New York. Non me la sono goduta per niente, però: siamo partiti tre giorni dopo aver finito le registrazioni e, inutile dirlo, erano tre giorni che festeggiavo ininterrottamente. La cosa mi ha stroncato: già sull’aereo avevo la febbre a 40 e sono stato ammalato per gran parte del tempo che ho trascorso in America… (ride)

B: Non poteva mancare l’angolo pettegolezzi: in Dritto al punto dici “Tu non fai rime nel quartiere per sentirti grande/ Tu non lo fai perché sei delle Marche”. Inevitabile pensare che tu ti riferisca a uno dei tuoi celebri compagni di etichetta originari di Senigallia… A chi era diretta la rima?

M: Non a Fabri Fibra, come hanno pensato in molti, ma a Nesli. In Verità nascoste diceva “Non faccio rime nel quartiere per sentirmi il più grande” e mi ero sentito chiamato in causa, perché in quel periodo ero l’unico rapper in giro con un singolo che parlava del proprio quartiere (Popolare_, ndr_). Posso tollerare qualsiasi tipo di critica, ma non accetto che mi si accusi di sparare cazzate e quella frase sembrava sottointendere proprio quello. Non si tratta di un dissing, comunque, ma di una puntualizzazione. Non abbiamo mai avuto occasione di parlare della questione dal vivo, ma per me è chiusa qui, ho semplicemente risposto a una questione che aveva aperto lui.

B: A proposito di Popolare, sembra che tu abbia un’insana passione per i tormentoni zarri anni ’90, tipo Ba-Ba-Barona o Arriva arriva quello che deve arrivare

M: Ti dirò di più: sono convinto che molto presto ritorneranno di moda. Sempre più spesso mi capita di sentire quel tipo di techno nei locali: i tempi sono maturi perché gli anni ’90 diventino un punto di riferimento musicale. Comunque, nel mio caso sono più che altro reminescenze di quando ero ragazzino. Non continuerò su questo binario: per me ormai è una cosa già fatta, si chiude qui. Vorrà dire che la moda l’ho anticipata.

B: Barona è casa tua da sempre. Com’è cambiato il quartiere, negli anni? Quello che racconti nell’album succede ancora adesso oppure è semplicemente un ricordo di quando eri piccolo?

M: Oggi come oggi la situazione è molto meno pesa: il quartiere è vivibile, si sta meglio di un tempo. Tutta l’azione si è spostata dalla strada alle case private: non ha quasi più senso parlare di “piazza” così come la si intendeva. Anche l’arrivo degli immigrati ha cambiato molto le cose: essendo generalmente più disperati degli italiani, spesso e volentieri sono loro che hanno rilevato attività come spaccio e rapine. La criminalità è rimasta, ha solo cambiato volto. E la facciata di quartieri come Rozzano, Barona o Quarto Oggiaro sembra molto più pulita, adesso: apparentemente si avviano a diventare zone residenziali.

B: Recentemente la Dogo Gang ha partecipato a Sing Sing, un festival musicale organizzato per i detenuti delle carceri di Milano. A voi è toccato il carcere minorile Beccaria. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

M: È stato bellissimo. Sono stati i ragazzi stessi a richiedere la nostra presenza e ci hanno dimostrato un sostegno incredibile: erano un pubblico calorosissimo, sapevano tutti i testi a memoria. Anche dal punto di vista artistico è stata una soddisfazione enorme: finalmente è stato riconosciuto all’hip hop il ruolo educativo che gli spetta. Il rap ha valore di riscatto sociale e, anche se in ritardo, qualcuno sembra essersene accorto. Spero che venga incluso sempre più spesso in manifestazioni di questo genere.

B: Mi fa piacere che almeno quel live sia andato bene, visto che quello di Cascina Monluè in cui presentavi per la prima volta l’album è stato rovinato da un audio disastroso (il sindaco Moratti aveva imposto una soglia di decibel bassissima, ndr)…

M: Già. Fortunatamente abbiamo dei fan che ci vogliono bene e non ci lanciano i pomodori, ma la situazione era vergognosa. Il volume dell’impianto era talmente basso che si potrebbe parlare di un concerto acappella. Mi sembra inspiegabile che, se la Moratti è così sensibile all’inquinamento acustico, non abbia ancora provveduto a costruire un’area concerti fuori dalla città. Oltretutto, la scusa del rumore sembrava una presa in giro: Cascina Monluè, come dice il nome stesso, è una cascina isolata in mezzo ai campi, circondata da tre case di numero. Io capisco che sia giusto rispettare gli abitanti, che sono anziani, ma era un sabato sera d’estate e il concerto finiva alle 11.30… È una totale mancanza di rispetto nei confronti dei giovani e degli spazi che ci spettano. Anche perché io tollero l’anziano che guida anche se non ne è più capace e accetto di stare in coda dietro di lui fino a quando non ha capito come fare manovra, ma lui deve tollerare me e la mia esigenza di fare e ascoltare musica ogni tanto! (ride)

B: Un’ultima curiosità: nel libretto del disco è riportata la frase “La parola frà compare 56 volte, Badabum compare 34 volte, Zio compare 22 volte”. Ci spieghi perché?

M: È semplicemente una provocazione: visto che c’è gente che se ne esce sempre con la frase “Oh, ma quante cazzo di volte dici zio?”, ho pensato di facilitare il lavoro e scriverlo direttamente!

B: Progetti per l’estate? Riesci ad andare al mare, finalmente?

M: No, purtroppo anche quest’estate niente mare, lavorerò! Sarò in giro per qualche live, come quello al GoaBoa Festival di Genova, ma il tour vero e proprio comincerà a fine settembre. Sarò accompagnato Deleterio e ogni tanto da Enzone, ma a seconda delle disponibilità dovrei riuscire a portare sul palco anche qualcuno degli altri ospiti del disco.

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